07 maggio 2009

Sicurezza e integrazione per una nuova politica migratoria italiana

Molti lettori avranno sicuramente seguito sulla stampa e in televisione, ma anche in qualche rubrica di questa rivista, la discussione parlamentare dapprima sul cosiddetto decreto sicurezza e ora sul disegno di legge sulla sicurezza, ossia gli strumenti giuridici che devono permettere allo Stato di garantire una maggiore sicurezza a tutti i cittadini italiani. Sovente l’accento è stato posto sull’insicurezza degli italiani a causa della presunta diffusa criminalità dovuta a stranieri, soprattutto «clandestini».
In realtà l’Italia è uno dei Paesi più sicuri al mondo e la criminalità degli stranieri non è significativamente superiore a quella che si registra in altri Paesi d’immigrazione paragonabili al nostro. Perché dunque dai media l’accento è posto soprattutto sulla criminalità degli stranieri e soprattutto sui clandestini? E perché governo e parlamento rispondono con interventi legislativi nuovi e molto contestati?
Non è facile rispondere a queste domande, ma che l’influsso mediatico giochi un fattore importante e forse determinante è fuori dubbio. Se un telegiornale annuncia un delitto, anche grave, senza precisare la nazionalità del delinquente passa quasi inosservato. Se invece si dice che l’autore del delitto è uno straniero o, peggio ancora, un clandestino, la notizia acquista nell’immaginario collettivo un’altra rilevanza. Se questo tipo di notizia si ripete frequentemente è facile che nell’opinione pubblica si faciliti quel processo di generalizzazione che porta a concludere che i clandestini sono (quasi) tutti criminali e che gli stranieri sono (molto) spesso criminali. E’ facile che questa esigenza di sicurezza dei cittadini sia colta da questa o quella forza politica in particolare e ne faccia magari un punto programmatico.
In un Paese «normale» dovrebbe esistere un Codice penale «normale» e una Giustizia «ordinaria» che punisca allo stesso modo chi viola le leggi. In Italia è come se per certi crimini, commessi soprattutto da stranieri, debbano esistere leggi speciali. Di qui dapprima un «decreto-legge» sulla sicurezza come se l’Italia dovesse affrontare una specie di epidemia grave da insicurezza e ora un più ampio disegno di legge sulla sicurezza per introdurre nello strumentario misure anticrimine (straniero) non previste nel decreto-legge, ad es. le ronde.
Non senza ragione sono insorte in Italia contro questa voglia giustizialista i partiti della sinistra, ma anche ampi settori del mondo cattolico e in genere dell’associazionismo vicino al complesso mondo degli immigrati. Con la ragione dei numeri (quella che in una democrazia conta più di tutto) più che con argomenti forti la maggioranza governativa ha fatto approvare il decreto-legge e ora sta per approvare il disegno di legge sulla sicurezza.
Non entro nel merito dei provvedimenti in questione, anche perché la loro efficacia è ancora tutta da provare. Dirò invece qualcosa in merito ad alcune prese di posizione che ho avuto modo di leggere su questa materia e, indirettamente, alla debolezza delle argomentazioni dell’opposizione parlamentare.
Mi riferisco in particolare ad alcuni interventi dell’on. Narducci (deputato PD eletto all’estero), molto sensibile alla problematica degli stranieri, ma talvolta disattento all’uso del linguaggio, che anche in politica dovrebbe rispondere al senso di concretezza e di misura, senza forzature e soprattutto senza demagogia.
Intanto l’on. Narducci, in quanto residente in Svizzera, sa bene che i problemi non vanno confusi: un conto è parlare di sicurezza in generale, un altro parlare degli stranieri immigrati regolarmente e altro ancora affrontare il complesso e delicato problema dei clandestini. Pertanto non è accettabile, in un contesto in cui si parla legittimamente del reato di clandestinità, l’insinuazione che si tratti di un «accanimento contro gli immigrati».
Non giova a nessuno giuocare sulle parole. Confondere l’immigrazione «regolare» con l’immigrazione «clandestina» è un errore non solo di terminologia ma di sostanza. Mentre si sa in partenza chi sono gli immigrati «regolari», non è possibile sapere chi sono i «clandestini», che potrebbero rivelarsi poveri cristi in cerca di fortuna ma anche criminali patentati. E’ evidente che nessuno Stato di diritto può tollerare sul proprio territorio persone senza identità e senza riferimenti certi. Tanto più che in effetti certa criminalità è favorita dalla clandestinità.
Trovo pertanto un’esagerazione dell’on. Narducci ritenere che i «Centri di identificazione» diventino delle «carceri» per il solo fatto di poter trattenere più a lungo i clandestini. Senza dimenticare che in Italia persino i detenuti nei penitenziari devono essere trattati con «senso di umanità» (art. 27 Cost.), a maggior ragione nei centri d’identificazione. Ma se si tratta di clandestini, si dovrà ben identificarli o devono essere lasciati a piede libero?
Non capisco quindi l’indignazione di Narducci quando ritiene che con l'introduzione del reato di clandestinità si creeranno non poche difficoltà ai clandestini riguardo ai ricongiungimenti familiari, al contrarre matrimonio, alla registrazione dei figli degli immigrati irregolari immediatamente al momento della nascita, ecc. Mi pare che queste e simili difficoltà siano ovvie finché dura lo stato di «clandestinità».
Arrivare poi a ritenere, come fa Narducci, che «donne immigrate irregolari, incinte, abortiscano perché spinte a ciò da una legge che le perseguita» mi pare una illogicità e una forzatura che non rendono affatto giustizia né al buon senso dei parlamentari né alla tradizione giuridica dell’Italia.
Chi conosce la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera sa benissimo che la Confederazione non ha mai tollerato l’immigrazione clandestina, ma non si è limitata a stroncarla. L’on. Narducci e gli altri parlamentari eletti in Svizzera sanno infatti che una buona politica migratoria non si limita a disciplinare le modalità d’ingresso nel Paese, ma va oltre. Per gli immigrati italiani in Svizzera i miglioramenti delle condizioni di vita sono iniziati quando è mutato l’approccio nei confronti degli stranieri «regolari» e si è imparato a considerarli membri integrati o da integrare nella società locale.
Perché i nostri parlamentari «esteri», invece di giocare con nominalismi inutili e puntare su un’opposizione sterile, non si fanno promotori di una moderna legge sull’integrazione degli stranieri, ispirandosi anche alla recente legislazione svizzera in materia? Ponendo l’accento sull’integrazione, probabilmente l’intera problematica relativa agli stranieri acquisterebbe maggiore umanità e positività anche nell’opinione pubblica.
Giovanni Longu
Berna, 4.5.2009
(L'ECO, 6.5.2009)

Terremoto in Abruzzo, una lezione per tutti

Ha tremato l’Abruzzo, ma dovrebbe tremare tutta l’Italia per i mali che l’affliggono. Il terremoto dell’Abruzzo è l’ennesimo segnale di una situazione fortemente deficitaria non solo in materia di protezione antisismica, ma anche del rispetto delle regole del vivere civile.
Il terremoto della provincia dell’Aquila ha causato 295 morti, centinaia di feriti, decine di migliaia di senza tetto, un enorme patrimonio edilizio, architettonico ed artistico andato in frantumi. L’Italia intera ha partecipato al cordoglio delle vittime e ha dato prova di grande generosità verso i superstiti. Per i morti è stato proclamato il lutto nazionale ed è stata data loro una degna sepoltura con un rito funebre celebrato il Venerdì Santo, per i cristiani giorno della memoria del massimo sacrificio nella storia dell’umanità, ma che prelude alla Pasqua della Resurrezione. Per gli sfollati si è trovato prontamente un riparo in tendopoli funzionali, abitazioni private e alberghi. Per il patrimonio edilizio e architettonico è stata assicurata una pronta ricostruzione.
Raccontato così, l’esito di quella tragedia del 6 aprile scorso sembrerebbe invogliare alla speranza e indirizzare l’attenzione soprattutto alla ricostruzione, con tante grazie alla Protezione civile e ai numerosi volontari che si sono prodigati immediatamente per salvare il salvabile e al governo che è intervenuto prontamente per alleviare i disagi attuali e iniettare fiducia per il futuro.
In realtà le conseguenze del terremoto sono tutt’altro che passate. Continua infatti lo sciame sismico, anche se va attenuandosi, e continuano il dolore e i disagi per chi ha perso familiari, amici, il lavoro e la casa, mentre per molti sopravvissuti la prospettiva del rientro nella normalità e nelle loro abitazioni resta lontana. Molte ferite stentano a rimarginarsi.
Polemiche sterili
Tra le conseguenze del terremoto non va dimenticata, purtroppo, anche l’ondata di polemiche che come da cattivo copione si è aggiunta ai naturali disagi e che non dà segno di stemperarsi. All’indomani del terremoto, sembrava un sogno la gara di solidarietà e di generosità che si era attivata non solo nella regione terremotata ma in tutta l’Italia e che vedeva in prima linea la efficientissima macchina della Protezione civile. Persino i contrasti sempre in prima pagina tra maggioranza e opposizione sembravano attenuarsi di fronte all’emergenza che richiedeva il contributo di tutti.
Ma il sogno è durato poco. E’ bastata una trasmissione televisiva di grande successo, ma a giudizio di molti di pessima conduzione, per scatenare un mare di polemiche, molte delle quali pretestuose, inutili e sicuramente inopportune nel momento in cui sono state sollevate.
Mentre ancora si cercavano eventuali sopravvissuti sotto le macerie, c’è stato chi, in base a semplici congetture, ha alzato il dito contro chi avrebbe dovuto allertare la popolazione prima del disastro e contro chi non avrebbe pianificato a dovere l’emergenza terremoto. «Polemiche sterili e fuori luogo», sono state definite da taluni. Soprattutto dopo che scienziati veri (e non presunti) andavano dichiarando che allo stato attuale della scienza non esistono sistemi in grado di prevenire puntualmente (ossia in tempi e luoghi precisi) i terremoti. Se sono così imprevedibili non era nemmeno possibile predisporre in anticipo un piano di emergenza perfetto. Purtroppo il terremoto è ancora un nemico subdolo.
La polemica, una volta cominciata, è proseguita a valanga, coinvolgendo un po’ tutti, perché certi edifici, soprattutto pubblici, non sarebbero crollati se fossero stati costruiti secondo le norme antisismiche. E mentre il Presidente della Repubblica esprimeva «apprezzamento senza riserve per il governo e per la Protezione civile» certi agitatori della polemica a tutti i costi dissentivano apertamente. L’ammonimento del Presidente «nessuno è senza colpa, dev’esserci un esame di coscienza senza discriminanti né coloriture politiche» si trasformava suo malgrado in un atto d’accusa solo verso alcuni chiamati in causa come pianificatori, architetti, ingegneri, costruttori, verificatori e naturalmente uomini politici più o meno conniventi con associazioni criminali.
Purtroppo in Italia da alcuni anni sembra che i processi con tanto di accusa e difesa si celebrino più in televisione che nelle aule di tribunale, senza rendersi conto che soprattutto in situazioni drammatiche come quelle di un terremoto è per lo meno prudente non pretendere di sostituirsi a giudici, pubblici ministeri e avvocati. E’ compito della giustizia ordinaria e sta ad essa accertare eventuali responsabilità. E poi quando si sollevano certi coperchi si dovrebbe avere il coraggio di indicare tutto quel che emerge nella pentola. In un Paese grande come l’Italia le responsabilità, soprattutto per quel che riguarda il degrado ambientale e l’incuria del patrimonio abitativo e degli edifici pubblici, sono ampiamente ripartite e toccano sia il pubblico che il privato.
Guardare al futuro
Bene ha detto ancora il Presidente della Repubblica in riferimento alle vittime e ai danni provocati dal terremoto in Abruzzo, ma anche alle indagini in corso della magistratura: «non possiamo non ritenere che abbiano contribuito alla gravità del danno umano e del dolore umano comportamenti di disprezzo delle regole, disprezzo dell'interesse generale e dell'interesse dei cittadini».
Parole sagge, difficilmente contestabili, quelle del Presidente Napolitano, da tener presente sia guardando al passato per individuare gli eventuali colpevoli, ma soprattutto guardando al futuro «per evitare che questi fatti si ripetano e perché si possa fare prevenzione, non con fantasiose profezie o impossibili previsioni, ma apprestando mezzi indispensabili perché case ed edifici resistano».
A mio parere, tuttavia, il messaggio del Capo dello Stato va oltre la contingenza del terremoto dell’Abruzzo. L’Italia ha bisogno urgente di cambiare sistema non solo in materia edilizia, ma in generale. Il «pressappochismo» è una palla al piede che priva l’Italia dello slancio che potrebbe e dovrebbe avere per essere competitiva in Europa e nel mondo. Occorrono regole chiare, ma soprattutto che vengano rispettate. E non c’è dubbio che il sistema più efficace per farle osservare è la sanzione certa, effettiva e talvolta esemplare, per evitare che i soliti furbi, avidi, potenti e mascalzoni cadano facilmente in tentazione. Attenti, tuttavia, le regole valgono per tutti, dal semplice cittadino alle più alte cariche dello Stato. Il monito all’esame di coscienza e a comportamenti virtuosi ci riguarda tutti.
Giovanni Longu
Berna 20.4.2009

05 maggio 2009

Il Mito della Resistenza stenta ad affermarsi

Ogni Paese che si rispetti ha i suoi eroi e i suoi miti. La Svizzera, per esempio, ha il mito di Guglielmo Tell. Anche l’Italia non è da meno con il Risorgimento e la Resistenza.
I miti nazionali hanno una funzione importante perché servono a individuare l’«identità nazionale» e i suoi valori fondanti. Questa è la funzione anche del Mito della Resistenza per l’Italia di oggi e questo giustifica la sua celebrazione annuale.
Pur collocandosi in tempi non remoti, per la maggior parte degli italiani la nascita dell’Italia repubblicana appare ormai lontana dalla memoria individuale e comunque in un contesto dai contorni evanescenti e in cui i particolari diventano insignificanti. Sono le condizioni ideali per la formazione dei miti, che si alimentano per un verso dalla realtà storica e per l’altro dalla condivisione di aspirazioni e valori di tutto un popolo in quel momento o in quell’epoca.
Così è nato anche il Mito della Resistenza, in cui si fondono in maniera esemplare e inscindibile una verità storica e una verità ideale. La Resistenza è assurta a mito da quando le due componenti hanno perso per così dire le loro caratteristiche specifiche e hanno assunto una connotazione tipica dei miti, la «sacralità». «Il mito – scriveva lo storico Mircea Eliade - racconta una storia sacra», ossia una storia vera, resa esemplare per i valori e le motivazioni ideali che la sostanziano.
Se fino ad oggi la commemorazione della Resistenza non è mai stata una festa veramente «nazionale», ossia di tutti, lo si deve al fatto che le due componenti essenziali del mito (storia e significato) sono state considerate separatamente, privilegiando certi aspetti e dimenticandone altri. Non solo. Alcuni storici e alcuni politici hanno persino tentato di attribuire a una sola parte (politica) l’eroismo della Resistenza e il merito della Liberazione. Non avevano capito la funzione unificante del mito nella vita delle nazioni.
Qualsiasi celebrazione pubblica della Resistenza solo in termini di verità storica è contestabile, almeno in questo o quel punto, da parte di questo o quel gruppo perché è obiettivamente difficile se non impossibile indicare che cosa è stata davvero la Resistenza (non dimenticando lo strascico della guerra civile) e qual è stato effettivamente il suo contributo alla fine del nazifascismo in Italia. Le due questioni hanno un grande rilievo storico, ma le risposte non potranno mai essere unanimi, anche soltanto nel momento in cui si tenta di definire la stessa parola «Resistenza». Tentare poi di attribuire un «peso» specifico alle organizzazioni partigiane in termini di contributo effettivo alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo diventa un’impresa ardua perché andrebbe messo a confronto col contributo effettivo dato dalle armate alleate soprattutto dopo lo sfondamento della Linea Gotica nella prima metà dell’aprile 1945.
Il Mito della Resistenza, invece, per la sua capacità di «sublimazione» della molteplice e controversa realtà storica e per la sua forte componente di «sacralità», che evoca verità indiscutibili, «principi fondamentali», e rende «eroi» tutti coloro che li praticano, non può che unire. L’aspirazione di un popolo a vivere in libertà, senza soprusi e malversazioni (questo è l’aspetto ideale della Resistenza) è anche oggi, come lo fu sul finire della Seconda mondiale, un potente collante per tenere insieme persone e gruppi disuniti su moltissimi aspetti concreti della convivenza sociale.
Va detto che a differenza di molti interpreti di parte della Resistenza, i costituzionalisti ne colsero pienamente il significato generale (e non partigiano), quando scrissero la Costituzione repubblicana. Si continua a dire, talvolta con una certa retorica come anche nelle celebrazioni degli scorsi giorni, che «la Costituzione è nata dalla Resistenza». L’espressione è corretta e pienamente giustificata se ci si riferisce non alla verità storica, ma al Mito della Resistenza, ossia al sistema di valori ch’esso evoca.
Basterebbe leggere i «Principi fondamentali» della Costituzione, o anche uno solo di essi, ad es. quello dell’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Anche leggendo soltanto questo articolo ci si può rendere conto della stoltezza di aver tante volte in passato e sporadicamente anche di recente strumentalizzato la Resistenza.
Oggi che nel Mito della Resistenza i due elementi storico e ideale sembrano ricomporsi armoniosamente, è stato finalmente possibile per la maggioranza degli italiani ritrovarsi insieme senza difficoltà non solo per celebrare i valori fondamentali della nazione, ma anche per rinnovare l’impegno a combattere i moderni nemici del progresso civile che sono ancora le disuguaglianze, le ingiustizie, le discriminazioni, la povertà, il disimpegno, l’avidità, ecc.
Purtroppo, anche nelle celebrazioni di quest’anno, non sono mancati i tentativi di rompere la magia e la sacralità del Mito pretendendo distinzioni tra combattenti buoni e cattivi, tra partigiani e repubblichini, tra eroi della libertà e liberticidi e altro ancora. Per fortuna si è trattato di tentativi isolati di persone, anche se in vista, che probabilmente non si sono ancora rese ben conto che a sopravvivere è ormai solo il Mito della Resistenza, tradotto in quelle norme giuridiche dei «Principi fondamentali» della Costituzione in cui TUTTI gli italiani si riconoscono.
Giovanni Longu
Berna, 26.4.2009

Casi di malasanità solo in Italia ?

In questi ultimi anni mi è capitato di dover visitare familiari, amici o colleghi in diversi ospedali sia in Italia che in Svizzera. Le mie esperienze, molto limitate e indirette, non mi consentono confronti approfonditi e ancor meno giudizi di valore. Le osservazioni che seguono sono dunque semplici considerazioni soggettive.
In Italia si parla molto di malasanità e le denunce che vengono ampiamente divulgate dai media danno l’impressione che la sanità lasci molto a desiderare. In realtà, le prestazioni al paziente del sistema sanitario nazionale sono considerate, ad esempio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra le più efficienti su scala mondiale. Purtroppo i casi di malasanità gettano ombra sull’intero sistema, che pure vanta numerosi centri di eccellenza a livello internazionale ed è comunque in costante miglioramento.
In Svizzera si ritiene abitualmente che la sanità pubblica sia solo di eccellenza o comunque di alta qualità. In realtà anche in questo Paese non mancano le denunce di malasanità, ma non sono tali da scalfire la fiducia dei cittadini in un sistema sicuramente molto efficiente, ma per certi aspetti collocato su scala internazionale dietro Francia, Spagna e Italia.
Recentemente ho frequentato per alcuni giorni un ospedale di media grandezza, di cui per ovvie ragioni non faccio il nome. Il paziente che visitavo era in una camera comune insieme a due altri degenti, ma ho avuto contatti anche con altri malati e col personale medico e paramedico.
Fin dall’inizio mi ha particolarmente colpito il clima di confidenze che si era creato in quella camera d’ospedale tra i degenti, due dei quali confrontati con operazioni serie. Era come se la malattia li avesse spogliati di quel comune riserbo che caratterizza gran parte dei rapporti interpersonali. Quella camera a tre letti era diventata una specie di confessionale all’aperto. E le confessioni sgorgavano con una naturalezza che non si riscontra solitamente nemmeno tra amici di vecchia data.
Il «mio» paziente era stato sottoposto a una operazione semplice, anche se aveva richiesto l’anestesia totale, e a parere del chirurgo era «ben riuscita». Anche la soddisfazione del malato era totale, perché praticamente non avvertiva nemmeno il dolore delle ferite non ancora rimarginate. Senonché appena un giorno dopo l’operazione si è presentato un «effetto collaterale» fastidioso, del tutto inaspettato. Si dirà che può succedere, e nessuno può affermare il contrario, ma per lo meno il malato avrebbe dovuto essere informato di un tale rischio. Comunque il mio amico non si lamentava, perché in ospedale in genere si sopporta tutto.
Un altro paziente ha raccontato, agli altri degenti ma anche ai loro visitatori, praticamente tutta la sua vita, con i suoi momenti belli e meno belli. Diversamente dagli altri, era molto critico della sanità svizzera. Aveva perso la fiducia da quando sua moglie era morta, anzi, era stata uccisa alcuni anni prima. Sì, ripeteva, l’hanno uccisa perché il medico di famiglia prima e l’ospedale in cui era stata ricoverata poi non avevano individuato prontamente il male che l’aggrediva e l’avevano curata per una malattia che non aveva. Dimessa dopo otto mesi di cure sbagliate, forse perché aveva dato qualche apparente segno di miglioramento, pochi giorni più tardi il povero marito ha dovuto farla ricoverare nuovamente, ma in un altro ospedale e in un’altra città. Purtroppo vi era giunta troppo tardi. Sta di fatto, secondo il racconto del poveruomo, che i medici rinunciarono a curarla e in una stanza isolata la lasciarono morire. Con la sua morte, ripeteva, anche lui in qualche modo aveva cessato di vivere e a tenerlo in vita restavano solo i figli e i nipoti molto affezionati.
Un altro paziente, molto giovane, raccontò di essere venuto per tentare un’operazione che era stata sbagliata in un altro ospedale. Gli chiesi: come sarebbe a dire? Sì, rispose, mi hanno operato pochi mesi fa con un sistema che non si usa più da molto tempo e mi ha provocato continue infezioni senza risolvere il problema. Ma l’avete denunciato quell’ospedale? Sì l’abbiamo già fatto. Ora è stato sottoposto a una nuova operazione, a quanto sembra riuscita.
In genere, comunque, tutti i pazienti con cui ho potuto intrattenermi mostravano una cieca fiducia nei «loro» professori. Questo atteggiamento non mi meraviglia, perché quando un malato entra in ospedale vuole uscirne guarito, grazie alla mano esperta di anestesisti, chirurghi e altro personale sanitario. Nessun malato pensa veramente ai rischi. Ma i rischi, purtroppo, sono sempre in agguato, magari nel decorso postoperatorio, ed è per questo che normalmente chirurghi e anestesisti ne informano i pazienti prima di qualsiasi intervento facendosi rilasciare una specifica dichiarazione di avvenuta informazione.
Queste esperienze in Italia e in Svizzera mi hanno fatto riflettere su un aspetto della malasanità su cui non mi ero mai soffermato. In genere vengono esasperati episodi particolari che non dovrebbero succedere, ma che in fondo possono essere visti come l’eccezione che conferma la regola. Ciò che invece andrebbe sottolineato della malasanità è soprattutto il divario, talvolta abissale, tra la fiducia quasi assoluta del paziente nel suo medico e l’incapacità di questo di rispondere adeguatamente alle attese. Anche quando il medico o il chirurgo sanno che la guarigione non potrà essere garantita, quel rapporto di dipendenza e fiducia col paziente dovrebbe essere ugualmente salvaguardato con spiegazioni semplici e comprensibili, escludendo nella maniera più assoluta la presunzione dell’inutilità delle spiegazioni «perché tanto il malato non capirebbe».
Questo rapporto speciale paziente-medico vale, nelle debite proporzioni, anche nei confronti del personale paramedico, da cui il degente si attende una disponibilità quasi esclusiva. So che si tratta di una pretesa quasi assurda, ma non si può rispondere in malo modo a un malato di trattenersi dal suonare il campanello perché «non è mica l’unico paziente del reparto». Ogni malato è portato a vedere unicamente il proprio male, ma basterebbe assicurargli, gentilmente, che il suo problema sarà risolto appena possibile. Purtroppo la gentilezza non è una qualità che si apprende facilmente, ma soprattutto negli ospedali con malati gravi, il personale paramedico e ausiliario dovrebbe essere meglio preparato anche ad affrontare situazioni di stress.
Certo, rispetto a qualche decina di anni fa, la situazione è notevolmente migliorata. Oggi capita anche di sentire infermieri e assistenti che si scusano col malato per qualche involontaria disattenzione. A un paziente al quale era stata portata via dal suo armadietto, per errore, una giacca contenente portafoglio e documenti personali, una volta ritrovata gliela hanno restituita con tante scuse e un piccolo omaggio. Alcune volte basta poco per soddisfare il malato, che ha soprattutto bisogno di essere considerato e rispettato.
Con l’allungamento della vita e i numerosi problemi sanitari connessi, credo che tutti i sistemi sanitari dovranno investire maggiormente nei servizi paramedici e psicologici per i pazienti, i quali, si sa, sono senza eccezione impazienti di guarire.
Giovanni Longu
Berna, 23.3.2009

Gli italiani dell’estero e il futuro dell’Italia

Sulla Prima Conferenza dei giovani italiani nel mondo, tenutasi a Roma dal 10 al 12.12.2008, è calato il silenzio. Nessuno ne parla più. Se vi faccio riferimento è perché uno dei temi trattati mi pare degno di essere ancora dibattuto: quello dell’identità dei giovani e in generale degli «italiani all’estero» (ma forse sarebbe più appropriata l’espressione «italiani dell’estero»).
L’«identità nazionale» figurava tra i cinque temi principali della Conferenza e giustamente, in apertura dei lavori, il Ministro degli esteri Frattini aveva sottolineato che questa «è la questione centrale che alimenta anche tutte le altre: cosa vuol dire sentirsi italiani oggi, per voi che vivete fuori dell’Italia». Lo stesso Frattini aveva suggerito una risposta dicendo che «voi dovete sentire l’orgoglio di appartenere ad un’Italia che è cambiata. Che vi dovete ormai sentire parte di un sistema allargato e coordinato. Che noi guardiamo a voi come ad un patrimonio italiano che aiuta l’immagine italiana a crescere». Ma l’identità non può consiste in un «dover sentire».
Il tema è stato sicuramente dibattuto, tanto è vero che la Conferenza ha approvato un documento finale intitolato «Identità italiana e multiculturalismo», ma anche leggendo attentamente questo testo, non emerge in modo chiaro come realmente questi giovani italiani all’estero o, meglio, dell’estero, sentano e vivano la loro «identità italiana».
Mi sembra pertanto utile aprire un dialogo con i lettori alla ricerca di questa «identità».
Senza dare nulla per scontato, credo che per una discussione seria si debba tuttavia sgomberare subito il campo sia da alcune immagini vecchie degli «italiani all’estero» e sia dall’enfatizzazione di alcune recenti visioni evidentemente esagerate.
Tra queste ultime credo che si debba scartare, per esempio, quella avuta dall’on. Di Biagio, deputato PdL eletto all’estero, per il quale «i giovani italiani all’estero sono la speranza e il futuro dell’Italia». Ma davvero i giovani italiani all’estero si sentono il futuro dell’Italia? O potranno mai esserlo?
Tra le visioni vecchie da abbandonare, perché decisamente superate, vi sono tutte quelle che consideravano e in parte ancora oggi considerano le comunità italiane all’estero una sorta di «diaspora italiana» dominata dal desiderio del ritorno come il popolo di Sion deportato in Babilonia. Altre visioni, meno bibliche, consideravano e considerano gli italiani all’estero semplici «espatriati» destinati prima o poi a tornare dopo un periodo più o meno lungo di lavoro all’estero. Secondo queste visioni, è logico che lo Stato debba esercitare nei confronti dei propri cittadini lontani una specie di «protettorato», a fini di tutela e di promozione, almeno nella misura in cui rappresentano una risorsa e possono fornire un contributo alla patria.
Per il passato, a titolo di esempio, mi sembra emblematico un intervento alla Camera del deputato comunista G. Pellegrino, che nel 1963 interpellava così il Ministro degli esteri in merito all’espulsione dalla Svizzera di alcuni connazionali accusati di propaganda comunista: «Le chiedo, onorevole ministro: i lavoratori italiani in Svizzera sono o no dei cittadini del nostro Paese, con tutti i doveri e i diritti che ne conseguono? (…) I cittadini varcando le frontiere dello Stato italiano non lasciano dietro di sé il proprio cuore e il proprio cervello. (…) Non lo lasciano alla frontiera come un vile contrabbando di cui debbano disfarsi per non incorrere in sanzioni. (…) Teniamo presente che l'aspirazione degli emigrati è quella di ritornare in patria». Nulla da obiettare. Quella era l’aspirazione dei migranti e tutti, politici e no, la pensavano più o meno alla stessa maniera.
Altri tempi? Eppure quella visione non è del tutto tramontata. Cito, ancora a titolo di esempio, alcuni passaggi di un intervento di pochi giorni fa di M. Schiavone, esponente del PD in Svizzera (l’appartenenza alla stessa famiglia politica dell’on. Pellegrino è puramente casuale), che in polemica col segretario dei socialisti italiani in Svizzera G. De Bortoli scriveva: «A scanso di equivoci ci tengo a ribadirlo, perché ne sono convinto: gli italiani all’estero non costituiscono né una riserva indiana, tanto meno sono soggetti giuridici e civili con un’autonomia limitata, ma sono e saranno dei cittadini italiani a pieno titolo, residenti in Paesi diversi dal loro luogo natio, e come tali vanno rispettati e presi in considerazione per lo straordinario apporto che danno al nostro Paese e come tali sono soggetti di diritto anche se le loro rivendicazioni e le loro battaglie, come afferma De Bortoli, sono scontate e a rischio di inutilità».
Sembrerebbe che dall’epoca dell’on. Pellegrino a oggi la situazione migratoria non sia per nulla cambiata. Eppure, per poco che si conosca la storia dell’immigrazione in Svizzera, è evidente che da allora la tipologia della collettività italiana in questo Paese è radicalmente cambiata; che l’ondata d’immigrati degli anni ’50 e ’60 è uscita ormai dal mercato del lavoro e rientrata definitivamente in Italia o stabilita stabilmente in questo Paese; che gli italiani della seconda e terza generazione (nati e cresciuti in Svizzera) costituiscono già attualmente la maggioranza della popolazione attiva italiana; che la collettività italiana in Svizzera non è più Roma-dipendente come una volta.
Osservando poi i giovani in particolare, si vede benissimo che per quanto possano sentirsi italiani, in realtà ben poco conoscono dell’Italia e del «sistema Italia» e, soprattutto, vivono, studiano, lavorano e pensano come i loro coetanei svizzeri perché questa è l’integrazione.
Probabilmente, nemmeno i giovani partecipanti alla Conferenza di Roma del dicembre scorso hanno individuato la loro identità meglio del Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, il quale, nel salutarli, disse: «Lasciate che vi rivolga la più semplice esortazione: siate buoni cittadini nei Paesi che vi hanno accolto perché anche così voi fate onore all'Italia; e siate buoni italiani anche cercando di seguire l'evoluzione del nostro Paese, i suoi progressi e le sue difficoltà. Coltivate la vostra italianità non solo come antica memoria famigliare ma come condivisione sempre viva delle sorti della vostra patria d'origine».
Sarebbe utile, a questo punto, che soprattutto i giovani si esprimessero al riguardo. Il dialogo è aperto. A tutti Buon Anno.
Giovanni Longu
Berna 12.01.2009

Costituzione italiana rigida ma non immutabile!

Questa espressione fu pronunciata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo discorso d’insediamento il 15 maggio 2006. Egli ricordò che «i costituenti si pronunciarono a tutte lettere per una Costituzione "destinata a durare", per una Costituzione rigida ma non immutabile, e definirono le procedure e garanzie per la sua revisione».
Alla parte «rigida», secondo il neopresidente, appartengono i valori fondamentali che ispirarono la Costituzione: «Il richiamo a quei valori trae forza dalla loro vitalità, che resiste, intatta, ad ogni controversia. Parlo (…) di quei "principi fondamentali" che scolpirono nei primi articoli della Carta Costituzionale il volto della Repubblica. Principi, valori, indirizzi che scritti ieri sono aperti a raccogliere oggi nuove realtà e nuove istanze».
Dunque su quei principi e valori (che riguardano il lavoro, i diritti inviolabili della persona umana, il principio di eguaglianza di tutti i cittadini, ecc.) non c’è discussione. Di fatto, lungo tutto il cosiddetto arco costituzionale, nessuno ha mai messo in dubbio la validità e la sostenibilità di quei principi che occupano la prima parte della Costituzione italiana.
Il Presidente Napolitano, accennando alla seconda parte della Costituzione, quella «mutabile», fece un interessante richiamo al pensiero dei costituenti: «Già nell'Assemblea Costituente si espresse - nello scegliere il modello della Repubblica parlamentare - la preoccupazione di "tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di governo e di evitare le degenerazioni del parlamentarismo". Quella questione rimase aperta e altre ne sono insorte in anni più recenti, anche sotto il profilo del ruolo dell'opposizione e del sistema delle garanzie, in rapporto ai mutamenti intervenuti nella legislazione elettorale».
E’ bene ricordare che quando si parla di modifiche alla Costituzione ci si riferisce sempre alla seconda parte, riguardante l’ordinamento della Repubblica, ritenuta «modificabile» anche dai costituenti. Perché dunque gridare allo scandalo, anzi a un vero e proprio attentato alla Costituzione, quando a chiederne la modifica è Berlusconi? Prima di rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro.
Il tema della modificabilità o meno della Costituzione è ritornato di grande attualità in concomitanza della triste vicenda di Eluana Englaro (v. L’ECO del 18.2.09). I fatti sono noti. Nel momento in cui, in base a una sentenza della Corte di Cassazione (sulla cui interpretazione non è mai stata fatta definitiva chiarezza), si cercava di porre fine alla vita di Eluana Englaro interrompendone l’alimentazione e la disidratazione, il governo Berlusconi intervenne con un decreto legge finalizzato a impedirlo. Sennonché il Capo dello Stato, cui spetta per Costituzione di «emanare i decreti aventi valore di legge» negò la sua approvazione ritenendolo incostituzionale. Berlusconi, visibilmente contrariato, minacciò un ritorno al popolo per chiedere «il cambiamento della Costituzione».
Che cosa intendesse fare davvero Berlusconi nessuno lo sa, ma tanto bastò perché le opposizioni insorgessero in difesa della Costituzione facendo dire a più di un leader politico autentiche idiozie, come quella di voler di «stravolgere la Costituzione» e di «trasferire nelle mani di una sola persona il potere legislativo».
Già a questo punto sorge un primo dubbio: si tratta davvero di difendere la Costituzione o piuttosto di portare un attacco a Berlusconi e al suo governo? Infatti la Costituzione è stata già in passato modificata, anche dalle sinistre al potere, e Berlusconi non ha mai manifestato l’intenzione di modificare alcunché della parte «rigida» della carta fondamentale dello Stato italiano. Egli sa anche bene che per qualunque modifica della seconda parte ci vogliono pur sempre i due terzi dei parlamentari.
Lo stesso «conflitto» sollevato da Berlusconi nei confronti del Capo dello Stato per la mancata approvazione del decreto-legge a favore della vita di Eluana non può essere visto, a mio modesto avviso, come un attentato alla Costituzione o alle prerogative del Capo dello Stato, dato che è la stessa Costituzione che attribuisce al Governo il potere di intervenire «sotto la sua responsabilità» con «provvedimenti provvisori con forza di legge …in casi straordinari di necessità e d'urgenza». Chi ha ragione?
Lasciamo che siano i costituzionalisti a risolvere il conflitto di attribuzioni delle due istituzioni. Ma per la gente comune resta inspiegabile che la valutazione del Capo dello Stato, per quanto autorevole, sia più «costituzionale» della valutazione del Governo, che dispone di un importante apparato giuridico per far verificare la costituzionalità dei suoi provvedimenti.
Si dirà che il conflitto, fortunatamente non proseguito, tra il Governo e il Capo dello Stato, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non è infatti un mistero che le ambizioni di Berlusconi e della maggioranza di cui dispone in Parlamento mirino effettivamente a una grande riforma dello Stato. Che queste ambizioni possano dare fastidio è anche comprensibile, perché sarebbero coinvolte molte istituzioni della Repubblica. E’ tuttavia ingiustificato l’allarmismo suscitato ad arte e soprattutto il rischio di dittatura rappresentato da Berlusconi.
Mi sembra invece sotto gli occhi di tutti la necessità di porre mano quanto prima a una vera riforma che incida profondamente sui tre poteri fondamentali dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Ad esempio, è il caso di avere un migliaio di parlamentari quando a frequentare le aule sono di fatto pochissimi e il Presidente della Camera è costretto a introdurre un sistema di voto elettronico con tanto di impronte digitali dei deputati per evitare che i pochi presenti (denominati «pianisti») possano ancora votare per i colleghi assenti?
Quanto all’esecutivo, già attualmente in Parlamento c’è una forte convergenza sulla necessità di introdurre un sistema di governo più conforme alle intenzioni degli stessi costituzionalisti che auspicavano governi stabili e in grado di governare, liberati dalle degenerazioni e dalle debolezze del parlamentarismo. Perché in Italia dovrebbe far paura il presidenzialismo, quando si guarda ancora all’America come un modello di democrazia e alla Francia come un modello di efficientismo? E chi, in Italia, può ritenersi soddisfatto della lentezza della giustizia, delle disfunzioni della sanità, della complicazione burocratica?
Invece di tante polemiche, inutili e deleterie, non sarebbe meglio dare ascolto e seguito alle reazioni dei cittadini, che vorrebbero solo un governo in grado di intervenire prontamente e autorevolmente per risolvere i problemi? I cittadini si aspettano sì buone leggi, ma soprattutto che vengano rispettate, che i processi si svolgano in tempi rapidi, che la giustizia sia garantita, che gli ospedali e le scuole funzionino, che la disoccupazione diminuisca invece di crescere, che si possa vivere in pace e dignitosamente, ecc.
Giovanni Longu
Berna, 2.3.2009

«Liberi e Svizzeri, siam Ticinesi», ma … l’Europa avanza!

Votando NO all’estensione della libera circolazione delle persone all’intera Unione Europea, compresi i due nuovi Stati membri Bulgaria e Romania, il Ticino conferma ancora una volta la sua difficoltà storica a convivere tra due entità forti, la Svizzera tedesca a nord e l’Italia, in particolare la Lombardia, a sud.
Il disagio dei ticinesi è soprattutto interiore, perché fanno talvolta fatica a conciliare nel loro cuore i «due santi affetti» di cui sono plasmati, la loro «svizzeritudine» e la loro «italianità» di cui sono impastati. Nei momenti di difficoltà o di pericolo, come quelli che stiamo vivendo a causa di una grave crisi internazionale, è comprensibile che i timori prevalgano sugli amori. In questi momenti, persino l’Inno del Cantone Ticino sembra somigliare più a un’invocazione che a un’affermazione di fierezza e d’indipendenza:
«Liberi e Svizzeri, siam Ticinesi! Ci diè natura ridente suol, d'Elvezia il palpito, col caldo Maggio in noi ravviva d'Italia il sol. Così da fiamma gagliarda accesi, due santi affetti ci stanno in cor: ci dà l'Elvezia l'odio al servaggio, d'Italia all'arte ci dà l'amor».
Il Ticino ha sempre respinto, in votazione popolare, tutte le iniziative aventi per oggetto un maggior coinvolgimento della Svizzera nel mondo, dall’adesione allo Spazio Economico Europeo (1992), all’ingresso della Svizzera nell’Organizzazione delle Nazioni Unite (2002) fino agli Accordi bilaterali I (2000)e a quelli di Schengen (2005). Mai come nelle recenti votazioni si è tuttavia schierato così massicciamente dalla parte degli oppositori.
Ticinesi conservatori in politica estera
Nel 1992 il Ticino contribuì col 61,5% di no ad affossare il tentativo della Svizzera di entrare nello Spazio Economico Europeo (SEE). Nel 2000 fu tra i più strenui oppositori agli Accordi bilaterali I tra la Svizzera e l’Unione Europea (UE) sulla libera circolazione delle persone (57% di no). Nel 2001 contribuì ad affossare l’iniziativa popolare «Sì all’Europa» con l’84,2% di no. Nel 2002, col 58,7% di no fu tra i Cantoni che votarono contro l’adesione della Svizzera all’ONU (approvata invece dalla maggioranza del popolo e dei Cantoni). Nel 2004 la Svizzera e l’UE hanno firmato gli Accordi bilaterali II e gli Accordi di Schengen, ma il Ticino li ha sempre osteggiati. Nella votazione popolare del 2005 bocciò a larghissima maggioranza (quasi 70% di no) gli Accordi di Schengen (approvati invece dal 54,6% dell’elettorato svizzero) e si oppose con quasi il 64% dei votanti all’estensione della libera circolazione delle persone ai nuovi Paesi dell’UE (approvata sul piano nazionale col 56% di sì). Nel 2006 votò contro la cooperazione della Svizzera con i Paesi dell’Est europeo (quasi il 63% di no). L’8 febbraio 2009 ha segnato per il Ticino il record di opposizione all’ampliamento della libera circolazione delle persone a Bulgaria e Romania con il 65,8% (approvato invece a livello nazionale col 59,6% ).
Ciò che maggiormente ha spinto finora i ticinesi a votare costantemente (con pochissime eccezioni) contro ogni tipo di apertura e di collaborazione della Svizzera in campo internazionale non è probabilmente un vago sentimento di paura nei confronti degli stranieri, ma la paura precisa di una loro «invasione» dal Sud. Anche all’inizio del secolo scorso il ceto medio-basso dei centri urbani della Svizzera tedesca aveva la stessa paura. Ma a differenza di allora oggi dovrebbe essere facile rendersi conto che è stato anche grazie a quella «invasione» che la Svizzera è cresciuta divenendo uno dei Paesi più progrediti del mondo e comunque oggi esistono delle protezioni che allora non esistevano.
Paure infondate
Sarebbe facile dimostrare che dopo l’entrata in vigore dei Bilaterali I non c’è stata, in Ticino e nel resto della Svizzera, quella temuta «invasione» della vigilia ed è impossibile che ciò avvenga dopo questa votazione. Non è nemmeno vero che i lavoratori stranieri sono disposti a tutto e a qualunque prezzo, semmai ci potrà essere qualche padroncino disposto ad approfittarne, ma i sindacati e le autorità sono lì anche per vigilare che ciò non avvenga. I lavoratori, anche quelli stranieri, non sono per l’abbassamento dei salari, al contrario puntano sempre verso il loro innalzamento. Chi vorrebbe deprimere i salari sono altri ed è pertanto ingiusto accusare gli stranieri di prestarsi al gioco. Da controllare non è tanto la disponibilità dei lavoratori ad accettare un salario magari ingiusto, ma la politica salariale in generale, che non deve discriminare gli stranieri.
Anche la paura di un aumento della criminalità a causa degli stranieri va decisamente ridimensionata. Lo straniero che si sente bene accolto, ha un lavoro ed è soddisfatto del salario che percepisce non ha alcuna intenzione di delinquere. Non è mai stato dimostrato che questo tipo di stranieri è più propenso alla delinquenza dei nativi, semplicemente perché non è mai stato vero. Tutte le statistiche serie dimostrano che il tasso di delinquenza degli stranieri residenti regolarmente è del tutto comparabile a quello della popolazione locale. Perché dunque insistere su questo argomento puramente strumentale e oggettivamente falso?
Inutile dire che queste paure sono frutto di pregiudizi perché i dati oggettivi confermano che finora nessuna di queste situazioni si è verificata. Eppure queste paure, rappresentate in un manifesto dell’Unione democratica di centro (contraria all’estensione della libera circolazione delle persone) con tre corvi neri pronti ad abbattersi sulla Svizzera, sono ancora presenti nella maggioranza dell’elettorato ticinese.
Per cercare di comprendere un tale comportamento, è necessario chiedersi a questo punto chi sono per i ticinesi gli stranieri e perché fanno loro paura. Non è difficile rispondere che gli stranieri sono soprattutto gli italiani. A far paura, in un Ticino che fra l’altro sa bene integrare gli stranieri, non sono tanto i rumeni, i bulgari o i polacchi ma gli italiani e semmai i bulgari e i rumeni provenienti dall’Italia.
Il pericolo viene dal sud?
A prima vista questo può apparire strano perché gli italiani non sono «estranei» al Ticino. Con loro i ticinesi condividono non solo una frontiera, ma anche la lingua, la cultura e una lunga storia. Con loro si sono stabiliti nel tempo rapporti intensi ed è difficile immaginare il Ticino di oggi svincolato da questi rapporti linguistici, culturali, artistici, finanziari, economici con l’Italia e in particolare con la Lombardia. Eppure sono proprio gli italiani, i vicini di casa. gli «stranieri» di cui la maggioranza dei Ticinesi sembra aver paura.
Un tempo, all’epoca dei grandi lavori ferroviari, essi erano i benvenuti. Ancor oggi decine di migliaia di frontalieri lavorano per le aziende ticinesi. In un regime di libera circolazione dei lavoratori, è comprensibile che gli italiani possano essere attratti dal mercato svizzero-ticinese a causa della differenza dei salari tra l’Italia e la Svizzera. Col tempo però gli italiani del nord Italia, in particolare i lombardi, sono diventati anche competitivi sul mercato del lavoro e la paura dei ticinesi è che per colmare il divario salariale possano «invadere» il Ticino.
Ma se questo non è accaduto finora in seguito ai Bilaterali I, perché dovrebbe succedere adesso aprendo le frontiere ai bulgari e ai rumeni? In realtà non c’è nessuna logica. Il Ticino è fatto così: si sente una regione pienamente svizzera e al tempo stesso profondamente italiana, ma non sufficientemente forte per difendere questa sua caratteristica unica in Svizzera. Inserito in una Confederazione a predominio germanofono, il Ticino si sente (spesso) poco considerato da Berna, mentre rivendica il diritto di appartenenza a pieno titolo e con la stessa dignità degli altri Cantoni allo Stato federale. D’altra parte, come unico Cantone italofono, sa bene di non poter fare a meno della vicina Italia. Questa sorta di doppia dipendenza spaventa molti ticinesi e approfittano anche delle votazioni in materia di politica estera per manifestare questo disagio.
D’altra parte, in un sistema globalizzato e d’interdipendenza economica e finanziaria a cui si è aggiunto da alcuni anni un regime di libera circolazione delle persone sempre più allargato, la vicinanza a un polo di attrazione potentissimo come quello di Milano e della Lombardia crea nei ticinesi una forte apprensione per la loro struttura economico-finanziaria debole, per il loro benessere e la loro vocazione a rappresentare una sorta di anello di congiunzione tra nord e sud.
Ticino, anello debole tra nord e sud?
Questa situazione particolare del Ticino spiega l’atteggiamento conservatore dei ticinesi in politica estera e spiega anche perché il Ticino voti spesso in maniera differente dagli altri Cantoni periferici, non solo quelli romandi ma anche quelli germanofoni. Nessuno di essi si sente «minacciato» anche perché sanno di poter contare sul sostegno di altri Cantoni dello stesso ceppo culturale e linguistico. Solo il Ticino non ha tra i Cantoni vicini parenti che gli somigliano e lo sostengono. Nessun altro Cantone confina col bacino d’influenza di una grande metropoli straniera. I romandi hanno la loro metropoli in Ginevra e non in Parigi, gli svizzeri tedeschi hanno Zurigo e Basilea, solo i ticinesi hanno nelle vicinanze un potente centro gravitazionale estero come Milano.
Per recarsi a Berna o a Zurigo, i ticinesi devono mettere in conto lunghi tragitti attraverso le montagne, mentre Milano è a due passi, ne subiscono il fascino e l’attrazione, ma non vogliono esserne una periferia. Per questo il Ticino non perde di vista Berna e Zurigo, garanti dell’integrità e sovranità della Repubblica e Cantone Ticino, ma nemmeno della Confederazione vuol essere una periferia.
Questo stare nel mezzo, quale Cantone cerniera, tra due culture, due mondi, due economie, due politiche di sviluppo, ha procurato da sempre al Ticino grandi difficoltà. Solo da qualche decennio ha intravisto nella sua posizione di confine un’opportunità, una funzione strategica di collegamento e di ponte, ma una sua debolezza strutturale gli impedisce di esercitarla fino in fondo.
Il NO dei ticinesi in queste come in altre simili votazioni è un segnale di paura (inviato soprattutto a Berna) di perdere le posizioni acquisite e di non poter resistere, da soli, ai «pericoli» rappresentati dalla concorrenza lombarda, dal possibile afflusso massiccio di immigrati, attratti dalle migliori condizioni salariali offerte dal Ticino, dalla difficoltà di quest’ultimo di creare col potente vicino rapporti di effettiva reciprocità, ad esempio nei bandi di concorso pubblici.
Messaggio a Berna
Prima di questa votazione, Moreno Bernasconi, editorialista del Corriere del Ticino, forniva (CdT 23.21.2009) una chiave interpretativa pienamente condivisibile dell’atteggiamento conservatore dei ticinesi in questa materia, ossia il cedimento pressoché costante di una parte del Ticino politico alla tentazione di «incoraggiare il no a tutto quanto riguarda i nostri rapporti con l’Europa per far capire a Berna che deve aprire il portafoglio e compensare il Ticino delle sue difficoltà strutturali di Cantone di frontiera». L’interpretazione di Bernasconi mi sembra pienamente condivisibile.
Non c’è sicuramente odio verso l’Italia o l’Europa, c’è anzi attrazione, ma probabilmente manca ancora nella maggioranza dei ticinesi la consapevolezza che ormai, volenti o nolenti, alla globalizzazione non c’è alternativa. Soprattutto non c’è alternativa all’integrazione europea. E’ giusto continuare a sentirsi ticinesi, perché le regioni non scompaiono e il senso di appartenenza alla propria regione d’origine resterà fortissimo, ma sempre più l’ambiente vitale, economico e culturale, in cui ci muoveremo tutti è quello delle grandi regioni e dell’Europa.
Il villaggio diventa sempre più grande. Le nostre radici e le radici dei nostri figli saranno sempre meno regionali, cantonali, nazionali e sempre più europee.
Per facilitare questa apertura e questo sentimento di appartenenza all’Europa sarà inevitabile che tutti, entità statali e regionali, associazioni e individui, contribuiamo all’abbattimento di ogni tipo di steccato, economico, finanziario, fiscale, culturale, valoriale, politico, religioso ecc.
La libera circolazione delle persone accolta favorevolmente dalla maggioranza del popolo svizzero non è ancora il punto di arrivo, ma è sicuramente un ottimo indicatore della buona strada intrapresa. Non resta che percorrerla con lena e senza rimpianti.
Giovanni Longu
(L’ECO 11.02.2009