22 agosto 2012

Marcinelle e la memoria corta



Da alcuni anni, l’8 agosto si celebra la Giornata del sacrificio e del lavoro italiani nel mondo. In realtà da celebrare non c’è nulla, da commemorare e ricordare molto, a cominciare dalla tragedia di Marcinelle (Belgio) dell’8 marzo 1956, che stroncò la vita a 262 lavoratori, fra cui 136 italiani. Questa Giornata fu istituita, tuttavia, per dare l’occasione, almeno una volta l’anno, di una riflessione individuale e collettiva sull’emigrazione più o meno forzata di milioni di italiani, molti dei quali morti sul lavoro in terra straniera.

Ricordare è importante per la memoria collettiva, fatta di dati e di emozioni tramandati e da tramandare. La tragedia di Marcinelle, nella miniera di carbone di Bois du Cazier, è un punto di riferimento insostituibile perché quella tragedia fu vissuta praticamente in diretta nel mondo intero grazie ai mezzi di comunicazione di massa già allora molto sviluppati. Per questo, a giusta ragione, quella miniera, conservata quasi allo stato in cui si trovava nel 1956, è dal 1° luglio di quest’anno patrimonio della umanità dell’Unesco. E’ sacrosanto, dunque che la Giornata del sacrificio e del lavoro italiani nel mondo parta di lì.
Il contributo della stampa italiana anche quest’anno è stato notevole nel rievocare quella tragedia, assurta ormai a simbolo delle mille tragedie, fortunatamente meno gravi di quella di Marcinelle ma pur sempre drammatiche, occorse a migliaia di lavoratori italiani all’estero. Tra i vari discorsi e messaggi commemorativi spiccano anche quest’anno quelli istituzionali del Capo dello Stato e dei presidenti delle due Camere e quelli ormai consuetudinari di alcuni deputati eletti all’estero, per i quali guai non essere «presenti» in certe circostanze.

Sacrosanto ricordare… tutto!
Giusto e sacrosanto, ricordare le vittime e le disgrazie, ma il ricordo, per essere obiettivo e condiviso dovrebbe essere anche completo. Invece ciò che manca, sistematicamente, in queste commemorazioni, mi verrebbe da dire d’ufficio, è proprio la completezza. Non mi riferisco alla mancata menzione di altre gravi disgrazie, soprattutto a quelle capitate in Svizzera, da quella del Lötschberg o quella di Mattmark (il cui triste anniversario cade proprio alla fine di questo mese), perché l’elenco sarebbe ovviamente lunghissimo. Mi riferisco alla sistematica dimenticanza, non saprei dire se consapevole (e sarebbe gravissimo!) o inconsapevole delle responsabilità della politica, ossia della famosa «casta» a cui appartengono i vari mentori della tragedia di Marcinelle.
A prescindere da eventuali responsabilità personali, difficili da individuare e documentare, è innegabile che la politica italiana in generale è sempre stata carente e negligente nella gestione del fenomeno migratorio. Non c’è dubbio che soprattutto nei primi decenni del dopoguerra i vari governi della Repubblica, a cominciare da quello di De Gasperi, non hanno saputo contemperare le esigenze della nazione e il dovere di garantire i diritti fondamentali dei cittadini italiani emigrati.

La responsabilità della politica
In questa Giornata avrei voluto leggere qualche parola critica proprio nei confronti dell’accordo tra l’Italia e il Belgio del 23 giugno 1946, il famoso (o famigerato?) Protocollo di Roma, firmato da De Gasperi (col benestare di Togliatti e Nenni!) e il ministro belga Van Hacker. In esso si formalizzava lo scambio tra carbone e manodopera. L’Italia s’impegnava a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di circa 50.000 lavoratori, duemila ogni settimana, e il Belgio a vendere mensilmente all’Italia almeno 2500 tonnellate di carbone per ogni mille operai inviati.
Si gridò allora allo scandalo perché, si diceva, cittadini italiani erano «venduti per un sacco di carbone». Quel sentimento era ampiamente condiviso tra la popolazione, soprattutto dopo i racconti delle condizioni di lavoro, di alloggio e di vita dei primi minatori. Ufficialmente, invece, l’Italia stava combattendo la «guerra del carbone» necessario per la ripresa economica.
Si partiva, è vero, su base «volontaria» perché molti italiani, soprattutto disoccupati, si lasciarono sedurre da una propaganda ingannevole – il famoso «manifesto rosa» diffuso in tutta Italia dalla Federazione carbonifera belga di Bruxelles – che prometteva «condizioni particolarmente vantaggiose» a chi andava a svolgere «il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe». Nessuno, né del governo né dell’opposizione, diceva loro che le condizioni di sicurezza in quelle miniere erano scarse, che gli incidenti sul lavoro era molto frequenti e spesso mortali, che le condizioni di alloggio erano miserevoli, che spesso gli operai «erano trattati come bestie o poco più», che a causa del lavoro in miniera si moriva, spesso, anche dopo aver smesso di lavorare, per silicosi.

Questo e magari altro ancora non andrebbe cancellato dalla memoria collettiva quando si commemorano certe ricorrenze, riguardanti l’emigrazione italiana. Anche questo è storia.

Giovanni Longu
Berna 22.08.2012

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