10 marzo 2010

La Svizzera ridiscute la sua politica migratoria

Non so se l’attuale politica migratoria svizzera può rappresentare un modello per altri Stati, ma alla Svizzera va riconosciuto di essere riuscita, ormai da decenni, a fare del problema migratorio un problema nazionale, di cui l’intera collettività deve farsi carico. Per questo il popolo svizzero è chiamato ogni tanto a pronunciarsi su temi generali e specifici e per questo il Parlamento e il Governo devono spesso rispondere alle sollecitazioni dei rappresentanti del popolo.
La scorsa settimana il Consiglio nazionale (corrispondente alla Camera dei deputati italiana) ha dedicato alla problematica migratoria addirittura una sessione speciale per discutere e decidere circa 140 tra interpellanze, mozioni e postulati, in un dibattito fiume che un grande quotidiano zurighese non ha esitato a definire «epico» (epische Migrations-Debatte). Segno evidente che l’immigrazione continua ad essere un tema scottante dell’attualità svizzera e sul quale le convergenze sono spesso risicate.
Sono anzitutto i grandi numeri che esigono una particolare attenzione al fenomeno migratorio, perché gli stranieri continuano ad aumentare, sono ormai quasi 1.800.000 e costituiscono circa il 23% della popolazione. Ma è soprattutto il problema dell’integrazione (e della non integrazione) che interessa l’opinione pubblica e provoca il dibattito parlamentare. Anche la settimana scorsa molti interventi dei parlamentari vertevano sia sulla capacità della Svizzera ad integrare così tanti stranieri e sia sul dovere tanto dello Stato quanto degli interessati ad impegnarsi maggiormente sulla strada dell’integrazione.
Si è voluto ad esempio far carico allo Stato (specificamente ai Cantoni) di far registrare formalmente dopo la nascita anche i bambini nati da genitori «sans papiers», ossia clandestini. Non solo, a questi bambini dev’essere reso possibile l’accesso alla scuola normale, ma anche l’accesso alla formazione professionale, allo scopo di consentire loro, se rimarranno in Svizzera, una migliore integrazione professionale. D’altra parte, i deputati sono stati pressoché unanimi nel pretendere dallo Stato di essere più esigente con coloro che intendono domiciliarsi in Svizzera o divenire cittadini svizzeri. Oltre a richiedere loro un impegno chiaro a rispettare le leggi del Paese, da essi si deve esigere la conoscenza a sufficienza di almeno una lingua nazionale (tedesco, francese, italiano o romancio).
Naturalmente, con grande senso pratico, il Consiglio nazionale ha dovuto ammettere che come spesso accade in altri campi anche riguardo alle regole che vigono nella politica verso gli stranieri possono esservi eccezioni. Così, ad esempio, si può derogare alla norma sulla conoscenza della lingua nazionale quando si tratta di grandi specialisti o manager ai quali è maggiormente richiesto l’inglese più di qualunque altra lingua. Un’altra eccezione è stata chiesta e ottenuta per gli studenti stranieri che hanno conseguito un diploma universitario in Svizzera. Anche se il loro permesso di soggiorno scade col termine degli studi, può essere prolungato di sei mesi per consentire loro di trovare un lavoro corrispondente al titolo conseguito, «perché non è giusto sprecare i soldi dei contribuenti investiti nella formazione».
Il Consiglio nazionale non ha invece voluto accogliere nessuna proposta intesa a denunciare gli accordi bilaterali con l’Unione europea sulla libera circolazione. La Svizzera non ne avrebbe nessun tornaconto anzi solo danni, perché, come ha affermato la deputata ecologista zurighese Marlies Bänziger «abbiamo bisogno di lavoratori qualificati dell’UE per tener in piedi la nostra economia e far funzionare il nostro Paese». Meglio dunque investire maggiormente nell’accoglienza, nella formazione e nell’integrazione, come ha sostenuto la maggioranza dei consiglieri nazionali.
Giovanni Longu
Berna, 10.03.2010

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