24 febbraio 2010

Naturalizzazione agevolata e partecipazione

Non dovrebbero più esservi difficoltà per riconoscere agli stranieri di terza generazione quel che da oltre un secolo si rivendica in generale per tutti gli stranieri nati in Svizzera (seconda generazione) e che hanno di fatto adottato questo Paese come loro vera patria.
Quando nel 2004 il popolo svizzero fu chiamato a pronunciarsi su due progetti distinti, concedere ai giovani di seconda generazione la naturalizzazione agevolata e ai giovani di terza generazione la naturalizzazione automatica, speravo (v. L’ECO del 22.9.2004) in un’approvazione netta di entrambe le richieste. Il sì avrebbe risolto in maniera definitiva un problema ormai più che secolare. Le richieste mi parevano assolutamente giustificate e ritenevo un errore rimandare ulteriormente una decisione che a molti, anche in seno al governo e al parlamento, appariva matura.
Questi giovani, ritenevo, andrebbero considerati in linea di principio pienamente integrati linguisticamente, scolasticamente, culturalmente e socialmente. Per dirla con il Consigliere federale Moritz Leuenberger essi sono solo «stranieri di carta» (Papier-Ausländerinnen und –Ausländer), di fatto sono svizzeri e tali si sentono. Negar loro la cittadinanza dovrebbe apparire dunque a chiunque illogico e ingiusto.
Purtroppo la storia non segue sempre il filo della logica, né tutto quel che è auspicabile si realizza. Di fatto, l’elettorato respinse entrambi i progetti, decretando così l’esclusione a tempo indeterminato di qualsiasi tentativo d’introdurre nella legislazione svizzera la naturalizzazione «automatica».
Nel 2008, tuttavia, la consigliera nazionale italo-svizzera Ada Marra (PS/VD) ritenne che esistesse ancora uno spiraglio per la naturalizzazione agevolata se non per i giovani di seconda generazione almeno per quelli di terza generazione. A tale scopo, nel giugno 2008 presentò al Consiglio nazionale una iniziativa, sottoscritta da altri 49 consiglieri, precisando che «la terza generazione di stranieri stabilitisi in Svizzera deve poter ottenere la cittadinanza su richiesta dei genitori o dei diretti interessati». In tal modo, superato l’ostacolo dell’automatismo (escluso dal voto popolare nel 2004), la naturalizzazione avrebbe potuto avvenire a semplice richiesta, sia pure a determinate condizioni generalmente soddisfatte dai giovani di terza generazione.
L’iniziativa parlamentare ha seguito il suo iter usuale nelle apposite commissioni parlamentari e nella procedura di consultazione, appena conclusasi, ottenendo ad ogni tappa i più ampi consensi. Solo un partito si è dichiarato in disaccordo, la solita Unione Democratica di Centro (UDC). D’ora in avanti la procedura di trasformazione dell’iniziativa in legge dello Stato previo adeguamento della Costituzione non dovrebbe più incontrare ostacoli, anche se i tempi sembrano ancora lunghi e specialmente in questa materia non si può mai dare nulla per scontato.
Tanta cautela potrebbe apparire esagerata, ma è giustificata alla luce della storia. Non è infatti da pochi anni o da qualche decennio che si parla di naturalizzazione agevolata, sebbene a molti, soprattutto ai giovani, può addirittura apparire anacronistico che si parli ancora di difficoltà a naturalizzare giovani di terza generazione, ossia persone nate e cresciute in questo Paese da genitori a loro volta nati, cresciuti e integrati in questo Paese. Qual è dunque la difficoltà a riconoscerli svizzeri anche «di diritto»?
Problema ultracentenario
Comunque si guardi il problema, l’interrogativo resta, tanto più che in diverse forme è già stato posto da oltre cent’anni e ancora non ha trovato una risposta adeguata. La storia svizzera è costellata di tentativi falliti. Eppure, a ben vedere, gli argomenti che da oltre un secolo a questa parte sono stati continuamente addotti per giustificare la naturalizzazione facilitata o addirittura automatica, non sono privi di logica, anzi tutt’altro.
Già nel 1880, un commento istituzionale ai dati del censimento di quell’anno diceva testualmente: «Il nostro Paese sarà forte soltanto se saprà essere “un popolo unito di fratelli”. Un elemento fondamentale di questa unità è mantener fede a questo principio: a uguali doveri devono corrispondere uguali diritti. Orbene, in Svizzera abbiamo un numero crescente di stranieri che portano gli stessi nostri pesi e (se non vi sono esentati grazie a qualche trattato internazionale) pagano persino la tassa militare, eppure essi restano esclusi da qualsiasi forma di partecipazione all’amministrazione dello Stato e del Comune…».
Nel 1900, un funzionario dell’amministrazione comunale di Zurigo riteneva «deplorevole l’esigua frequenza della naturalizzazione, mentre la nostra cittadinanza ha così urgente bisogno di un regolare maggior aumento». Lamentava che si facesse troppo poco per «promuovere un’aggregazione ancora più stretta col nostro corpo di cittadinanza» e si continuasse a «parlare di “colonie” di tedeschi, italiani ecc., ossia di tanti stranieri che pure sono un elemento integrante della popolazione, di cui non vogliamo né possiamo farne senza». Sosteneva anche che era nell’interesse dei Cantoni facilitare la naturalizzazione di un maggior numero di stranieri tenendo presente «la dimora più lunga, l’esser nato nel Cantone e l’essere ammogliato con un’indigena». Infatti «sarà nell’interesse ben inteso del Cantone di guadagnare alla cittadinanza dette categorie, che sembrano già fortemente acclimatizzate per le suddette circostanze e offrono garanzia di diventare veri cittadini».
All’inizio del secolo scorso, lo stesso Consiglio federale parlò di «rapporto anormale quando una notevole percentuale di un Paese è costituita da stranieri che a causa di questa caratteristica restano esclusi dall’istituzione pubblica».
Fu in quel periodo che venne proposta per la prima volta la soluzione di una sorta di «jus soli» (diritto del suolo in cui si nasce), ossia la concessione automatica della naturalizzazione per tutti i figli di stranieri nati in Svizzera da genitori domiciliati. La proposta fu respinta, o meglio fu lasciato alla discrezione dei Cantoni farne l’uso che volevano, ma nessun Cantone ne approfittò. Da allora si continuò discutendo, tentando e ritentando praticamente fino ai giorni nostri, senza che al problema divenuto nel frattempo ultrasecolare venisse mai data una soluzione equa e definitiva.
Il diritto di voto non è tutto
Che con la proposta Marra sia la volta buona? C’è da augurarselo. A questo punto non resta che aspettare il prosieguo dell’iter legislativo. L’attesa, tuttavia, non deve trasformarsi in un alibi o peggio una scusa per smettere di interessarci al problema di fondo, ossia la partecipazione degli stranieri, di tutti gli stranieri residenti anche di prima e seconda generazione, alla cosa pubblica di questo Paese.
Soprattutto la parte straniera più consistente e più «antica», la componente italiana, non può non rendersi conto che è soprattutto su questo versante che deve impegnare la propria riflessione e le proprie energie. Oltre che discettare d’italianità e brigare per il tipo di rappresentanza in organismi che hanno i loro referenti a Roma, sarebbe forse più opportuno interessarsi ai problemi concreti e risolvibili sul posto e partecipare a quegli organismi e istituzioni che si occupano delle questioni locali nei Comuni e nei Cantoni.
Mi si obietterà che a certi livelli lo straniero non ci può arrivare se non ha la cittadinanza e quindi il diritto di voto. Mi viene facile la risposta: è vero, a qualche livello non può arrivare, ma a molti altri sì. A questi numerosi altri livelli anche lo straniero, tanto più se radicato nel tessuto locale, può dare impulsi e contributi di idee e di azione. Basterebbe pensare ai settori dell’economia, della stampa, della scuola, della ricerca, dell’assistenza, dell’associazionismo. In un Paese fondato sulla libertà d’iniziativa e sul principio di sussidiarietà, almeno al primo livello non ci sono praticamente limiti all’intraprendenza individuale e collettiva, a prescindere dalla nazionalità.
Questo, sia chiaro, non è un invito a dimenticarsi della rivendicazione del diritto di voto amministrativo, a prescindere dalle generazioni e dalle nazionalità. Tutt’altro, è anzi uno di quei terreni su cui conviene tenere sempre alta l’attenzione. Occorre però non enfatizzare il diritto di voto, che del resto nelle società evolute tende a perdere importanza. Per rendersene conto basterebbe chiedere agli italiani residenti in Svizzera quanta importanza attribuiscono davvero al diritto di voto all’estero per l’elezione diretta di alcuni rappresentanti nel parlamento nazionale. Alla luce dei risultati raggiunti, in un’ipotetica scala da 0 a 10, sicuramente tale valore si collocherebbe più vicino allo zero che a 10. Non va inoltre dimenticato che il diritto di voto non è un fine ma un mezzo, uno fra altri, per raggiungere i risultati di una pacifica società alla ricerca del costante benessere.
Giovanni Longu
L'ECO (Berna, 24.02.2010)

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