14 novembre 2009

No ai crocifissi, no ai minareti?

La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che impone all’Italia di rimuovere i crocefissi dalla aule scolastiche, non solo fa discutere ma giustamente preoccupa.
Premetto che è difficile per un credente, di qualsiasi fede, affrontare obiettivamente la problematica dei simboli della propria religione. Per chi crede, infatti, il simbolo non è mai un pezzo di legno o un edificio, ma è qualcosa di strettamente legato al significato che rappresenta. Ne parlo pertanto sforzandomi di prescindere dal mio credo per soffermarmi su alcuni aspetti poco convincenti delle motivazioni addotte dalla Corte di Strasburgo.
E’ anche sicuramente vero che in un mondo sempre più complesso, multietnico e multiculturale uno dei collanti insostituibili della convivenza sociale è la tolleranza reciproca, anche in materia religiosa. Non è più il tempo delle crociate e dell’indottrinamento forzato. L’Italia è sicuramente un Paese in cui già ora convivono etnie, culture e religioni diverse e pertanto è chiamata a dar prova di tolleranza e di capacità d’integrazione.
Valori religiosi irrinunciabili
Il processo integrativo è tuttavia lungo e difficile, eppure possibile, a condizione però che i valori fondamentali degli autoctoni e dei nuovi arrivati non vengano negati o calpestati. I valori religiosi, diceva il filosofo tedesco Jaspers, sono talmente irrinunciabili che per essi si può anche morire. Non vanno quindi trattati mai alla leggera.
Sotto questo profilo, non condivido la decisione della Corte europea di Strasburgo perché interviene in una materia che attiene più alla civile convivenza che alla giurisprudenza e merita più un incoraggiamento che un divieto.
Ritengo inoltre inconsistenti le ragioni addotte, secondo cui – sintetizzo – i crocifissi nelle aule scolastiche costituirebbero «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e sarebbero contrari alla «libertà di religione degli alunni».
Non credo che in alcuna scuola italiana si obblighino gli allievi a professarsi cristiani o a fare atto di sudditanza nei confronti della religione cattolica o a subire una sorta d’indottrinamento religioso. Se ciò avvenisse sarebbe riprovevole, perché spetta comunque all’individuo farsi liberamente i propri convincimenti sull’appartenenza religiosa, indipendentemente dai simboli che incontra a scuola, nelle piazze o agli angoli delle strade.
E’ vero che un simbolo come il crocifisso può suscitare in bambini di religioni non cristiane interrogativi sul suo significato e la sua storia, ma non turbamento a un punto tale da pregiudicare la loro «libertà di religione» o privare i genitori della libertà di educare i figli come meglio ritengono. Mi sembrano francamente affermazioni senza fondamento, che denotano semmai l’incapacità di molti genitori non cristiani di affrontare con i loro figli il tema religioso con quello spirito di apertura e tolleranza che sta alla base della convivenza di qualsiasi Stato democratico.
Del resto, se l’argomento della Corte di Strasburgo fosse solido non vedo come bambini stranieri non cristiani con vocazione a diventare cittadini italiani potrebbero seguire nelle scuole italiane di ogni ordine e grado lezioni di storia, di geografia, di arte, di letteratura e persino di scienza. Ovunque, infatti, il simbolo della croce compare ed è inimmaginabile senza di esso la storia e la cultura dell’intero Occidente.
La decisione della Corte di Strasburgo, se venisse applicata, potrebbe addirittura provocare un effetto perverso perché rischierebbe di alimentare sentimenti di intolleranza ancor più consistenti di quelli che vorrebbe eliminare. Non si può infatti escludere che la maggioranza finisca per trovare insopportabile di essere condizionata dalla minoranza proprio nella sfera religiosa tradizionale.
Qualora, com’è prevedibile, la sentenza dei giudici di Strasburgo non trovi applicazione, dovrebbe tuttavia indurre tutti, istituzioni e cittadini, ad avviare un grande sforzo d’integrazione nel pieno rispetto delle persone, delle culture e delle religioni.
No ai minareti?
Se in Italia c’è stata una levata di scudi quasi unanime contro la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo intesa a vietare un simbolo religioso, in Svizzera è in corso da mesi una vivace discussione se vietare un altro simbolo religioso o quantomeno attinente ad una religione non cristiana. Si voterà infatti il 29 novembre su una iniziativa della destra intesa a vietare la costruzione di minareti.
Mi auguro che l’iniziativa venga respinta, per gli stessi motivi per cui non condivido la sentenza di Strasburgo nei confronti dell’Italia. Se il minareto è un simbolo religioso e non contrasta né col sentimento religioso degli svizzeri né con le leggi vigenti in materia di libertà religiosa o altre leggi federali o cantonali, non vedo perché i mussulmani non possano erigere i loro minareti. Oltretutto non sono mai i simboli che fanno danni, ma le persone che eventualmente se ne servono male.
In questa materia è preferibile centomila volte una situazione di tolleranza che d’intolleranza. L’accettazione dell’iniziativa significherebbe un passo indietro sul terreno dell’integrazione, mentre il suo rifiuto potrebbe contribuire ad accelerarla.
E’ interessante notare che già in passato gli stranieri avevano provocato un dibattito culturale-religioso. Basti pensare agli anni Sessanta e Settanta quando la confessione cattolica di italiani e spagnoli immigrati sembrava minacciare l’equilibrio religioso esistente allora in Svizzera. Ma non vi fu una guerra di religione e i cattolici poterono tranquillamente costruire migliaia di chiese, anche nelle città e nei cantoni a prevalenza protestante. E non si può dire che il discorso interreligioso ne abbia sofferto.
Sarà interessante osservare nei prossimi anni se la presenza in Svizzera di tanti simboli religiosi e tante religioni sconvolgerà sostanzialmente il panorama religioso attuale e se, contrariamente alle paure di certuni, proprio il discorso interreligioso non rappresenti un forte contributo all’integrazione e alla convivenza pacifica di comunità di origini e culture diverse. Una risposta potrà darla già il prossimo censimento del 2010, sempre che la domanda sull’appartenenza religiosa continui a figurare nel questionario di base.
Giovanni Longu
Berna, 14.11.2009

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