05 maggio 2009

Casi di malasanità solo in Italia ?

In questi ultimi anni mi è capitato di dover visitare familiari, amici o colleghi in diversi ospedali sia in Italia che in Svizzera. Le mie esperienze, molto limitate e indirette, non mi consentono confronti approfonditi e ancor meno giudizi di valore. Le osservazioni che seguono sono dunque semplici considerazioni soggettive.
In Italia si parla molto di malasanità e le denunce che vengono ampiamente divulgate dai media danno l’impressione che la sanità lasci molto a desiderare. In realtà, le prestazioni al paziente del sistema sanitario nazionale sono considerate, ad esempio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra le più efficienti su scala mondiale. Purtroppo i casi di malasanità gettano ombra sull’intero sistema, che pure vanta numerosi centri di eccellenza a livello internazionale ed è comunque in costante miglioramento.
In Svizzera si ritiene abitualmente che la sanità pubblica sia solo di eccellenza o comunque di alta qualità. In realtà anche in questo Paese non mancano le denunce di malasanità, ma non sono tali da scalfire la fiducia dei cittadini in un sistema sicuramente molto efficiente, ma per certi aspetti collocato su scala internazionale dietro Francia, Spagna e Italia.
Recentemente ho frequentato per alcuni giorni un ospedale di media grandezza, di cui per ovvie ragioni non faccio il nome. Il paziente che visitavo era in una camera comune insieme a due altri degenti, ma ho avuto contatti anche con altri malati e col personale medico e paramedico.
Fin dall’inizio mi ha particolarmente colpito il clima di confidenze che si era creato in quella camera d’ospedale tra i degenti, due dei quali confrontati con operazioni serie. Era come se la malattia li avesse spogliati di quel comune riserbo che caratterizza gran parte dei rapporti interpersonali. Quella camera a tre letti era diventata una specie di confessionale all’aperto. E le confessioni sgorgavano con una naturalezza che non si riscontra solitamente nemmeno tra amici di vecchia data.
Il «mio» paziente era stato sottoposto a una operazione semplice, anche se aveva richiesto l’anestesia totale, e a parere del chirurgo era «ben riuscita». Anche la soddisfazione del malato era totale, perché praticamente non avvertiva nemmeno il dolore delle ferite non ancora rimarginate. Senonché appena un giorno dopo l’operazione si è presentato un «effetto collaterale» fastidioso, del tutto inaspettato. Si dirà che può succedere, e nessuno può affermare il contrario, ma per lo meno il malato avrebbe dovuto essere informato di un tale rischio. Comunque il mio amico non si lamentava, perché in ospedale in genere si sopporta tutto.
Un altro paziente ha raccontato, agli altri degenti ma anche ai loro visitatori, praticamente tutta la sua vita, con i suoi momenti belli e meno belli. Diversamente dagli altri, era molto critico della sanità svizzera. Aveva perso la fiducia da quando sua moglie era morta, anzi, era stata uccisa alcuni anni prima. Sì, ripeteva, l’hanno uccisa perché il medico di famiglia prima e l’ospedale in cui era stata ricoverata poi non avevano individuato prontamente il male che l’aggrediva e l’avevano curata per una malattia che non aveva. Dimessa dopo otto mesi di cure sbagliate, forse perché aveva dato qualche apparente segno di miglioramento, pochi giorni più tardi il povero marito ha dovuto farla ricoverare nuovamente, ma in un altro ospedale e in un’altra città. Purtroppo vi era giunta troppo tardi. Sta di fatto, secondo il racconto del poveruomo, che i medici rinunciarono a curarla e in una stanza isolata la lasciarono morire. Con la sua morte, ripeteva, anche lui in qualche modo aveva cessato di vivere e a tenerlo in vita restavano solo i figli e i nipoti molto affezionati.
Un altro paziente, molto giovane, raccontò di essere venuto per tentare un’operazione che era stata sbagliata in un altro ospedale. Gli chiesi: come sarebbe a dire? Sì, rispose, mi hanno operato pochi mesi fa con un sistema che non si usa più da molto tempo e mi ha provocato continue infezioni senza risolvere il problema. Ma l’avete denunciato quell’ospedale? Sì l’abbiamo già fatto. Ora è stato sottoposto a una nuova operazione, a quanto sembra riuscita.
In genere, comunque, tutti i pazienti con cui ho potuto intrattenermi mostravano una cieca fiducia nei «loro» professori. Questo atteggiamento non mi meraviglia, perché quando un malato entra in ospedale vuole uscirne guarito, grazie alla mano esperta di anestesisti, chirurghi e altro personale sanitario. Nessun malato pensa veramente ai rischi. Ma i rischi, purtroppo, sono sempre in agguato, magari nel decorso postoperatorio, ed è per questo che normalmente chirurghi e anestesisti ne informano i pazienti prima di qualsiasi intervento facendosi rilasciare una specifica dichiarazione di avvenuta informazione.
Queste esperienze in Italia e in Svizzera mi hanno fatto riflettere su un aspetto della malasanità su cui non mi ero mai soffermato. In genere vengono esasperati episodi particolari che non dovrebbero succedere, ma che in fondo possono essere visti come l’eccezione che conferma la regola. Ciò che invece andrebbe sottolineato della malasanità è soprattutto il divario, talvolta abissale, tra la fiducia quasi assoluta del paziente nel suo medico e l’incapacità di questo di rispondere adeguatamente alle attese. Anche quando il medico o il chirurgo sanno che la guarigione non potrà essere garantita, quel rapporto di dipendenza e fiducia col paziente dovrebbe essere ugualmente salvaguardato con spiegazioni semplici e comprensibili, escludendo nella maniera più assoluta la presunzione dell’inutilità delle spiegazioni «perché tanto il malato non capirebbe».
Questo rapporto speciale paziente-medico vale, nelle debite proporzioni, anche nei confronti del personale paramedico, da cui il degente si attende una disponibilità quasi esclusiva. So che si tratta di una pretesa quasi assurda, ma non si può rispondere in malo modo a un malato di trattenersi dal suonare il campanello perché «non è mica l’unico paziente del reparto». Ogni malato è portato a vedere unicamente il proprio male, ma basterebbe assicurargli, gentilmente, che il suo problema sarà risolto appena possibile. Purtroppo la gentilezza non è una qualità che si apprende facilmente, ma soprattutto negli ospedali con malati gravi, il personale paramedico e ausiliario dovrebbe essere meglio preparato anche ad affrontare situazioni di stress.
Certo, rispetto a qualche decina di anni fa, la situazione è notevolmente migliorata. Oggi capita anche di sentire infermieri e assistenti che si scusano col malato per qualche involontaria disattenzione. A un paziente al quale era stata portata via dal suo armadietto, per errore, una giacca contenente portafoglio e documenti personali, una volta ritrovata gliela hanno restituita con tante scuse e un piccolo omaggio. Alcune volte basta poco per soddisfare il malato, che ha soprattutto bisogno di essere considerato e rispettato.
Con l’allungamento della vita e i numerosi problemi sanitari connessi, credo che tutti i sistemi sanitari dovranno investire maggiormente nei servizi paramedici e psicologici per i pazienti, i quali, si sa, sono senza eccezione impazienti di guarire.
Giovanni Longu
Berna, 23.3.2009

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