15 ottobre 2014

Accordo di emigrazione del 1964: 4. Verso la ratifica di un accordo molto contestato


Quando il 10 agosto 1964 Max Holzer (direttore dell’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro) per la Svizzera e Ferdinando Storchi (sottosegretario per gli Affari esteri) per l’Italia firmarono l’Accordo finalmente raggiunto devono aver tirato un sospiro di sollievo. Fino a pochi mesi prima il negoziato era ancora in alto mare, totalmente bloccato. Erano invece bastati pochi incontri nella prima metà dell’anno per raggiungere quel compromesso che per anni sembrava impossibile.

Prima di entrare nel merito dell’accordo raggiunto giova forse soffermarsi sui motivi che hanno contribuito all’accelerazione finale. E’ probabile che le due delegazioni e i rispettivi governi si siano resi conto, sul finire del 1963, che per non far naufragare il negoziato sarebbe bastato ridimensionare le pretese e le attese puntando a un accordo, magari al ribasso, che garantisse comunque agli italiani immigrati in Svizzera miglioramenti immediati e futuri e contribuisse a stemperare il clima conflittuale che stava montando tra popolazione indigena e popolazione straniera.

Centrosinistra italiano favorevole ad un accordo
Per comprendere la maggiore disponibilità della delegazione italiana a ridurre le pretese iniziali occorre ricordare alcune circostanze intervenute nella politica italiana nel corso del 1963.
Aldo Moro (1916-1978)
Nell'aprile 1963, in Italia, si erano svolte le elezioni politiche che, pur confermando la Democrazia Cristiana (DC) quale primo partito, ne attestarono il forte calo rispetto alle elezioni precedenti, mentre registrarono l’avanzata del Partito comunista italiano (PCI), molto critico nei confronti del centralismo democristiano. La DC, per conservare la propria egemonia di governo, doveva cercare nuove alleanze, non più solo al centro come in passato ma anche a sinistra, in particolare con i socialisti, che avevano interrotto i propri rapporti col PCI dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria (1957). Dopo un breve «governo ponte» centrista di Giovanni Leone, toccò ad Aldo Moro costituire il primo governo di «centro-sinistra», insediato il 4 dicembre 1963.
Il nuovo governo, che non voleva essere da meno dei comunisti nella difesa degli interessi dei concittadini emigrati, diede sicuramente una forte spinta alla ripresa del negoziato con la Svizzera. Già prima del suo insediamento, un alto funzionario del Ministero affari esteri italiano, Eugenio Plaja, era intervenuto a Berna per «perorare con insistenza» (secondo fonti diplomatiche svizzere) una rapida ratifica della Convenzione sulle assicurazioni sociali (già firmata alla fine del 1962). Con l’«apertura a sinistra», avrebbe detto, «i problemi sociali hanno acquistato maggiore importanza per il governo», lasciando intendere che Roma avrebbe apprezzato «infinitamente» la ratifica della Svizzera e ne avrebbe tenuto ampiamente conto in seguito.

Esclusione dei comunisti dalle trattative
Per comprendere meglio il nuovo clima che si stava affermando in Italia dopo le elezioni di aprile, andrebbe anche aggiunto che il governo aveva cercato di minimizzare la portata «politica» delle espulsioni di lavoratori italiani nella primavera-estate 1963 come pure l’interdizione ad entrare in Svizzera ad alcuni parlamentari comunisti che in vista delle elezioni avevano svolto sul territorio svizzero propaganda politica «illecita».
In breve, il nuovo governo italiano intendeva occuparsi direttamente della questione migratoria e anche per questo non era favorevole alla partecipazione al negoziato di sindacalisti italiani (presumibilmente comunisti) o rappresentanti dell’associazionismo italiano in Svizzera (presumibilmente appartenenti alle Colonie libere italiane, ritenute filocomuniste). Anche per questo intendeva concludere al più presto il negoziato con la Svizzera.

Interesse della Svizzera a concludere il negoziato
Bisogna dire a questo punto che anche la Svizzera intendeva concludere quanto prima l’accordo d’emigrazione con l’Italia ed era pronta a riprendere le trattative da tempo a un punto morto. Un segnale che il momento propizio si stava avvicinando fu dato proprio dalla richiesta del ministro Plaja di ratificare rapidamente la Convenzione sulla sicurezza sociale. In quell’occasione infatti Berna aveva ribadito quel che aveva sostenuto fin dall’inizio e cioè che la ratifica della Convenzione sarebbe avvenuta solo contestualmente alla conclusione dell’accordo generale d’emigrazione. In effetti, poco più di un mese dopo quella visita, le trattative ripresero su nuove basi, meno rigide e meno esigenti.
La Svizzera aveva tuttavia ben più importanti motivi per concludere l’accordo con l’Italia. La forte presenza di lavoratori stranieri stava mettendo in agitazione non solo l’opinione pubblica, ma anche ambienti economici, sindacali e politici. Molta irrequietezza si osservava da tempo anche all’interno della comunità italiana, dove presunti agitatori e attivisti comunisti sembravano mettere in pericolo addirittura la pace sociale (di qui le espulsioni del 1963 e le innumerevoli schedature di attivisti politici e sindacali proseguite fino agli anni ’80 quando lo scandalo venne alla luce).
Gli ambienti economici cominciavano a preoccuparsi delle difficoltà crescenti che incontravano con la burocrazia italiana nel reclutamento della manodopera di cui avevano bisogno, ma anche delle difficoltà che avrebbero potuto incontrare se le concessioni svizzere nelle trattative fossero risultate per loro sfavorevoli.
Da quasi un decennio, inoltre, ambienti della sinistra politica e sindacale (v. articolo precedente su L’ECO n. 41 dell’8.10.2014) andavano segnalando all’attenzione del governo che la crescita inarrestabile dei lavoratori stranieri poteva rappresentare un pericolo per l’economia svizzera (soprattutto per la sua autonomia) e per la società (a causa dei crescenti conflitti sociali per questioni salariali, abitative, comportamentali, ecc.).

Pericolosità della xenofobia crescente
Dall’inizio degli anni ’60, proprio in seguito all’arrivo massiccio di italiani ormai provenienti prevalentemente dal sud e alla crescente conflittualità con la popolazione indigena (e in parte persino con la collettività dei primi emigrati dal nord), si stavano sviluppando, soprattutto nella Svizzera tedesca, movimenti dichiaratamente antistranieri. Oltre ad agitare l’opinione pubblica in senso xenofobo, esercitavano ogni sorta di pressione sul governo per interventi forti contro l’«inforestierimento».
Il Consiglio federale, che non sottovalutava la pericolosità di quei movimenti e specialmente di quello che sarebbe divenuto l’Azione Nazionale di Schwarzenbach, il 1° marzo 1963 era intervenuto con un decreto, valido un anno, per limitare l’ammissione di lavoratori stranieri entro il livello della manodopera estera raggiunto nel dicembre 1962. Poiché l’effetto fu assai modesto, l’anno seguente, il 21 febbraio 1964, il Consiglio federale intervenne con un nuovo decreto, adottando misure ancor più restrittive. Anche questo decreto, però, non diede i risultati sperati, contribuendo a rafforzare ulteriormente la destra xenofoba.
Già da questi accenni è facile comprendere come anche la Svizzera sentisse l’urgente bisogno di concludere quanto prima l’accordo con l’Italia. Da un dibattito interno in seno al Consiglio federale e una parte dell’amministrazione federale era anche emerso che sarebbe stato giusto fare concessioni significative in materia di ricongiungimenti familiari. Di qui l’accelerazione impressa alla trattativa e alla firma dell’Accordo fra la Svizzera e l'Italia relativo all'emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera il 10 agosto 1964 a Roma.

Punti principali dell’Accordo
L’Accordo si compone essenzialmente di due parti, l’Accordo vero e proprio (costituito da un preambolo e 23 articoli) e il Protocollo finale. Entrambi i testi possono essere consultati in Internet alla pagina: http://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19640159/index.html, oppure: http://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19640159/196504220000/0.142.114.548.pdf.
Oltre al preambolo, che dà il senso generale dell’Accordo, altri punti qualificanti sono le condizioni di lavoro e di soggiorno, soprattutto il diritto al ricongiungimento familiare, la parità di trattamento con i lavoratori indigeni rispetto al salario, alla sicurezza sociale, alle condizioni d’abitazione e l’istituzione di una «Commissione mista» per l’esame e la risoluzione delle difficoltà che potessero sorgere nell'interpretazione e nell'applicazione dell’Accordo.
Nel preambolo viene anzitutto sottolineato da parte sia della Svizzera che dell’Italia il desiderio di «adeguare alla situazione attuale le disposizioni che regolano il tradizionale movimento migratorio dall'Italia alla Svizzera, considerando la necessità di rendere più semplici e più rapide le modalità del reclutamento dei lavoratori italiani e la procedura relativa all'emigrazione dei lavoratori stessi in Svizzera», ma forse soprattutto il desiderio di «migliorare le condizioni di soggiorno dei lavoratori italiani in Svizzera e di assicurare loro lo stesso trattamento dei nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro».
In realtà l’ambizione generale dei negoziatori e dei rispettivi governi non è solo quella di regolare su basi più attuali tutte le procedure relative ai flussi migratori, ma soprattutto quella di garantire condizioni di convivenza e di sviluppo della collettività italiana tali da limitare al minimo i conflitti sociali e consentire al massimo le possibilità d’integrazione (anche se il termine non figura mai nell’Accordo) nella società di accoglienza.
Alcuni dei punti qualificanti dell’Accordo furono oggetto di aspre discussioni prima della ratifica finale e meritano pertanto una considerazione particolare nel prossimo articolo. (Continua)
Giovanni Longu
Berna 15.10.2014


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