15 maggio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 14. Associazioni come rifugio e salvezza



Nel dopoguerra, man mano che gli immigrati italiani aumentavano, crescevano anche la xenofobia e le difficoltà della convivenza con la popolazione indigena. Le differenze culturali erano enormi, le regole sembravano fatte apposta per accrescere la distanza, le istituzioni non favorivano il dialogo. L’associazionismo rappresentava per molti immigrati un rifugio e la salvezza dallo sconforto e dalla depressione, ma per lungo tempo non favorì né il dialogo tra le due comunità né l’integrazione. Solo dalla metà degli anni Sessanta si cominciò a percepire da entrambe le parti l’esigenza di un avvicinamento, di conoscersi meglio, di superare i tanti luoghi comuni che ostacolavano il dialogo e la collaborazione.

Anzitutto associazioni assistenziali
La Casa d’Italia è sempre stata un grande centro d’incontro.
La Svizzera è una terra in cui l’associazionismo è considerato fin dal Medioevo una realtà importante e ha contribuito alla trasformazione dell’economia e della società. Basti pensare agli sviluppi delle corporazioni delle arti e mestieri (Zünfte) divenute associazioni professionali e sindacali determinanti per la crescita economica del Paese o alle associazioni patriottiche e culturali dell’Ottocento, che hanno contribuito a creare la coscienza nazionale.
In questa terra sono fiorite fin dalla seconda metà dell’Ottocento anche innumerevoli associazioni di immigrati italiani. Sorgevano soprattutto nelle città industriali principalmente per un’esigenza di assistenza alle famiglie in caso di infortunio, disoccupazione, malattia, morte di un loro congiunto (le famose società di mutuo soccorso).
Dall’inizio del secolo scorso, a queste associazioni se ne aggiunsero altre ancora a scopo assistenziale ma di altro tipo: Missioni cattoliche e segretariati dell’Opera del vescovo monsignor Bonomelli per l’assistenza soprattutto spirituale ma anche sociale e materiale degli immigrati, associazioni musicali e filodrammatiche, associazioni culturali per la difesa dell’italianità come le Società Dante Alighieri, associazioni ricreative e sportive per la gestione del tempo libero e altre.
Sotto il fascismo, anche le varie Case d’Italia, create nelle principali città (Zurigo, Berna, Losanna, Lucerna, ecc.) dove la presenza italiana era significativa, avevano una finalità di assistenza varia e di sostegno alla collettività italiana.

Associazionismo nel dopoguerra
Nel dopoguerra, quando la collettività italiana immigrata assunse proporzioni sempre più consistenti e la convivenza con la popolazione svizzera divenne sempre più problematica, le associazioni italiane si moltiplicarono per offrire, ciascuna a modo suo, sostegno, assistenza, opportunità per il tempo libero (attività sportive, artistiche, culturali, ecc.). Il boom dell’associazionismo si è avuto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando la distanza, l’incomprensione e l’incomunicabilità tra le due popolazioni erano maggiori.
Così descriveva la situazione un contemporaneo: «Non esistono praticamente rapporti tra italiani e svizzeri, se si escludono quelli puramente formali derivanti dai contatti quotidiani sui luoghi di lavoro, e dal vivere nella stessa città. Italiani e svizzeri, pur lavorando nelle medesime fabbriche, abitando talvolta fianco a fianco, usando gli stessi servizi e infrastrutture, si ignorano reciprocamente, svolgendo vite parallele, ma completamente separate. […] Le discriminazioni non avvengono con limitazioni e prescrizioni, ma piuttosto in modo automatico, per cui alcuni quartieri, locali, abitazioni diventano “per italiani” e non vengono frequentati dagli svizzeri e viceversa. Da ambo le parti si riscontra la tendenza a mantenere le proprie caratteristiche ed abitudini, senza sentire l’esigenza di un interscambio ed anzi l’un gruppo etnico guardando con un certo senso di fastidio l’altro» (Da Ros, 1975).
Attuale sede della MCI di Berna
Le associazioni rappresentavano un ambiente «ricreativo» nel senso proprio del termine per il corpo e per lo spirito. Erano una sorta di luogo protetto e sicuro dove si giocava, si scherzava, si organizzavano feste, ma soprattutto si dimenticavano almeno per qualche ora le frustrazioni e le pene quotidiane del lavoro, della fatica e dei contrasti con gli svizzeri. Le associazioni con una propria sede, soprattutto se dotate di servizio ristorante e sale da gioco, erano divenute i principali ritrovi degli italiani, a cominciare dalle Missioni cattoliche e dalle Case d’Italia. A molti immigrati l’associazionismo ha garantito la sopravvivenza dal rischio, alquanto diffuso, di cadere in depressione e di abbandonarsi allo sconforto.

Altri rischi a lungo trascurati
Purtroppo altri rischi furono trascurati o non vennero percepiti come tali. La voglia di respirare aria di casa propria, parlare la stessa lingua (molto spesso lo stesso dialetto), praticare le stesse usanze spingevano molti immigrati a rifugiarsi solo o prevalentemente in quelle associazioni frequentate specialmente da compaesani o corregionali con la conseguenza di aggravare inconsapevolmente la situazione di isolamento e di chiusura.
La maggior parte delle associazioni svolgeva, magari egregiamente, un ruolo consolatorio, ma non aveva visioni per il futuro, non riusciva ad immaginare che bisognava rompere il cerchio dell’isolamento, imparare la lingua del posto per entrare in sintonia con la popolazione svizzera. In alcuni ambienti era diffusa l’illusione di poter risolvere i problemi degli immigrati con le proprie forze, soprattutto protestando. Alcune associazioni ritenevano addirittura che i problemi si potessero risolvere con la lotta senza passare per il dialogo e la collaborazione.
Anche le Colonie libere italiane (CLI), le associazioni più diffuse nel dopoguerra, si resero conto solo tardivamente della irrealizzabilità di tante loro proposte e dell’improprietà dei metodi di lotta per la difesa degli interessi degli immigrati. Sviluppatesi in Svizzera tra gli esuli italiani dopo la caduta del fascismo con intenti politici, aspiravano ad assumere «la rappresentanza unitaria di tutti gli italiani dimoranti in Svizzera» sia verso l’Italia che verso la Confederazione, ignorando altri tipi di rappresentanza (per esempio i sindacati locali) e i tradizionali metodi di mediazione svizzeri. Dagli anni Sessanta, tuttavia, anche le CLI cominciarono ad aprirsi maggiormente alla collaborazione e a moderare le rivendicazioni senza lasciarsi dominare da presunte (nell’ottica svizzera) forze eversive (comuniste).
Negli anni Sessanta e Settanta vennero sprecate in sterili lotte di stampo ideologico tante energie, che avrebbero prodotto ben altri risultati se si fossero investite nella cultura, nella formazione, nell’apprendimento linguistico, nell’accompagnamento scolastico mirato dei figli degli immigrati, nell’integrazione. Purtroppo in molte associazioni mancavano idee chiare sul futuro dell’immigrazione e dello stesso associazionismo.

Eccezioni benemerite
Ci furono tuttavia associazioni che attorno alla metà degli anni Sessanta cominciarono a rendersi conto che la soluzione di tanti problemi passava necessariamente attraverso il coinvolgimento di istituzioni diverse, italiane e svizze

Sede del CISAP (1972)
re, e forme di collaborazione finalizzate al raggiungimento di obiettivi utili ad entrambe le parti. Già le associazioni sportive di maggior rilievo davano prova che attraverso la pratica dello sport era possibile favorire l’incontro e la collaborazione tra giovani appartenenti a nazioni e culture diverse. Sui campi di calcio o nei club ciclistici tutti indistintamente dovevano contribuire alla vittoria della squadra. Alcuni campioni sono diventati grandi esempi d’integrazione riuscita.
Un’istituzione tra quelle che meglio si sono inserite in questo filone, assumendo dalla seconda metà degli anni Sessanta un’importanza notevole nel campo dell’integrazione sociale e professionale degli immigrati, è stata il CISAP, sorta nel 1966 a Berna come centro italo-svizzero di formazione culturale e professionale. Il suo esempio è rilevante nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera del secondo dopoguerra perché ha fatto capire che, in questo Paese molti problemi importanti sono risolvibili solo partendo da una solida formazione scolastica e professionale e attraverso un’ampia collaborazione istituzionale.
Il CISAP, di cui si parlerà diffusamente in altro articolo, fu il maggior esempio di riuscita nel campo della formazione professionale per adulti perché individuò chiaramente il percorso più idoneo per raggiungere determinati obiettivi professionali, economici e sociali e fondò la sua forza nella collaborazione diffusa e responsabile tra autorità italiane e svizzere, organizzazioni professionali sindacali e padronali, associazioni e singole persone interessate.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando il discorso dell’integrazione specialmente delle seconde generazioni si fece più chiaro e convincente, anche i media (stampa, radio e televisione) diedero un grande contributo al superamento di numerose forme d’incomprensione e d’intolleranza, mettendo in evidenza i vantaggi delle sinergie, del dialogo, della collaborazione anche allo scopo di neutralizzare meglio le forze xenofobe sempre in attività. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2019