18 dicembre 2013

Italia: investire in formazione


Da oltre vent’anni i leader politici di ogni orientamento nei loro proclami verbali indicano la necessità di interventi prioritari nel campo della formazione, tanto quella di base quanto quella professionale. Di fatto questi interventi vengono trattati come secondari e rinviati «per mancanza di risorse». Sono convinto che manchino anche le idee, ma soprattutto la consapevolezza che senza un sostanziale miglioramento della formazione l’Italia continuerà il suo declino.
L’ultimo leader italiano di turno, Matteo Renzi, ha anch’egli messo tra i suoi impegni politici prioritari «il rilancio della cultura» e «la formazione» perché, secondo lui, «la scuola è il terreno sul quale si gioca il futuro del nostro Paese». Difficile non dargli ragione. Resta da vedere se, in attesa che venga il suo turno di governo, riesca a superare la fase declamatoria e populista stimolando da subito l’attuale governo Letta a fare meglio di quelli di Monti, Berlusconi, Prodi, Amato, D’Alema, Dini, ecc.

Non è pessimismo
Purtroppo anche il dinamico Renzi e il più moderato Letta dovranno fare i conti con le scarse risorse disponibili, la resistenza di una vecchia burocrazia, insegnanti demotivati e forse poco disponibili all’introduzione di criteri quali produttività e meritocrazia anche nel campo della scuola, programmi di studio poco proattivi, centri di ricerca scarsi e inadeguati. Pertanto anche stavolta, come ho manifestato altre volte in passato, dubito che nel prossimo futuro la scuola italiana possa fare il salto di qualità per divenire quel motore di rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno in un mondo di competitori sempre più agguerriti e competenti.
Intanto i segnali negativi ci sono tutti, a cominciare dagli insegnanti. Secondo un quotidiano italiano, «i nostri docenti spesso non sanno usare un tablet, non conoscono l’inglese, non leggono un quotidiano, non conoscono la Costituzione e chiedono “Cos’è un comma?”».
Non si tratta evidentemente di pessimismo. Basta osservare le classifiche internazionali riguardanti ad esempio la scuola dell’obbligo, la formazione universitaria, la ricerca e l’innovazione, la formazione continua. Ebbene, l’Italia non figura mai ai primi posti e spesso si trova in fondo alla scala.

Allievi italiani sotto la media OCSE
Recentemente sono stati pubblicati risultati concernenti le prestazioni scolastiche degli allievi quindicenni a livello OCSE. In matematica, lettura e scienze naturali, i tre campi in cui gli allievi sono stati esaminati, gli italiani si classificano al di sotto della media OCSE. In matematica, ad esempio, ben 128 punti separano l’Italia dalla prima classificata Cina-Shanghai, in lettura 80 punti, in scienze 86 punti. Giusto per fare un confronto, la distanza che separa la Svizzera sempre dalla prima classificata è rispettivamente di 82, 61 e 65 punti.
Il quadro degli allievi italiani non è tuttavia uniforme. Infatti gli allievi del nord (soprattutto Trentino, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia e Alto Adige) sono decisamente al di sopra della media nazionale, mentre quelli del sud (Molise, Basilicata, Sardegna, Campania, Sicilia, Calabria) ottengono punteggi sotto la media.
La distanza notevole tra nord e sud anche in questa classifica non fa che aggiungere difficoltà a difficoltà nel rinnovamento e nello sviluppo della scuola italiana.

Formazione continua
Va forse meglio la formazione continua? Niente affatto. A livello europeo gli italiani sono tra i meno dediti alla formazione permanente, mentre ad esempio gli svizzeri sono tra i più virtuosi. Questo confronto mi sembra illuminante.
Mentre l’83% delle imprese in Svizzera dichiara di aver sostenuto almeno uno dei propri collaboratori nelle attività di formazione continua nel 2011 (con punte del 95-96% in campo finanziario-assicurativo, dell’amministrazione pubblica, istruzione, sanità e assistenza sociale), le imprese italiane risultano col 56% sotto la media europea (EU-27) dietro a Croazia, Portogallo e altri Paesi, e poco al di sopra di Malta e Lituania.
Queste cifre possono apparire poco significative, eppure stanno a denotare una situazione molto diversa non solo nel concepire l’importanza della formazione continua in azienda e fuori dell’azienda e conseguentemente l’impegno delle aziende a investire nella formazione e nel perfezionamento dei propri addetti. Non deve pertanto apparire strano che oggi, in Europa, le imprese che hanno meno difficoltà sono anche quelle che investono di più non solo nella ricerca e nell’innovazione, ma anche nella formazione del proprio personale.
Riformare la scuola e investire nella formazione dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta d’investire almeno nell’Italia del domani, se proprio per quella di oggi non ci sono più le condizioni.

Giovanni Longu
Berna, 18.12.2013

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