23 agosto 2017

Italianità nel Consiglio federale (seconda parte)


I due primi consiglieri federali italofoni, Franscini e Pioda, contribuirono non solo a stringere buoni rapporti con la vicina Italia che si stava organizzando come Stato unitario, ma anche a creare le basi del futuro sviluppo della Svizzera (coesione nazionale, formazione superiore, relazioni internazionali). I successivi consiglieri federali italofoni, dopo un lungo intervallo di quasi mezzo secolo, ne seguirono la scia contribuendo notevolmente al consolidamento della Confederazione nel panorama incerto europeo.

Il disagio dei ticinesi e le accuse dei confederati
Completata la ferrovia del Gottardo (1882), iniziava la delusione dei ticinesi perché non sembrava apportare il benessere sperato. Profondamente intrisi di italianità e convinti svizzeri, i ticinesi si sentivano svantaggiati nei confronti dei «confederati» che approfittavano della ferrovia per i loro interessi, occupando in Ticino molti posti chiave. Pur essendo una esigua minoranza, si comportavano da padroni: aprivano aziende e alberghi, dirigevano gran parte dei servizi federali dislocati nel Cantone; avevano le loro associazioni, le loro scuole, i loro giornali e non mostravano alcun interesse a integrarsi.
Gli intellettuali ticinesi accusavano la Confederazione di non aver alcun riguardo della terza lingua nemmeno nei servizi federali presenti in Ticino e nella corrispondenza con le autorità cantonali. La Svizzera italiana era vistosamente sottorappresentata nelle direzioni dell’amministrazione federale e assente ormai dal 1864 dal Consiglio federale. Come se ciò non bastasse, i ticinesi venivano accusati dai confederati di essere più sensibili alla propaganda irredentista italiana che ai richiami di Berna.

Giuseppe Motta (1871-1940)

Giuseppe Motta (1871-1940)
In questa situazione, l’elezione in Consiglio federale del ticinese Giuseppe Motta (1911-1940), grande sostenitore dell’italianità del Ticino e della Svizzera, fu provvidenziale. La sua candidatura era stata sostenuta dall’opinione pubblica ticinese e confederata e la sua elezione fu interpretata come un segnale importante dell’attenzione della Confederazione alla Svizzera italiana e come una garanzia di fedeltà di quest’ultima alla patria comune. Motta appariva la personalità più idonea a rassicurare i ticinesi e a stringere i legami tra il Ticino e la Confederazione.
Oltre alle motivazioni di carattere personale e di politica interna, la candidatura di Motta assumeva in quel momento anche un significato di politica internazionale, sottolineato dall’ex consigliere federale e allora Ministro di Svizzera in Italia, G. B. Pioda. Da Roma aveva fatto sapere che l’on. Giolitti intendeva convocare le Camere verso la fine di gennaio o al principio di febbraio 1912 per discutere la convenzione con la Svizzera sulla ferrovia del Gottardo e considerava «la presenza di uno svizzero italiano nel governo federale… di capitale importanza».
In effetti, la lunga presenza di Motta in Consiglio federale è stata preziosa per la Svizzera e per i rapporti a volta difficili con l’Italia soprattutto nel periodo fascista. Comunque si giudichi l’atteggiamento di Motta nei confronti di Mussolini e del fascismo (le opinioni sono controverse), egli ha sicuramente contribuito a rafforzare la «coscienza svizzera» dei ticinesi e il sentimento di «unità nazionale» dei confederati, indebolito dai numerosi contrasti interni nel periodo tra le due guerre mondiali. Morì in carica nel 1940.

Enrico Celio (1889-1980)
Fu chiamato a succedergli un altro ticinese, Enrico Celio (1940-1950) e anch’egli si rivelò un grande difensore dell’italianità e dei buoni rapporti con l’Italia sia come capo del Dipartimento delle poste e delle ferrovie e sia, dopo le sue dimissioni dal Consiglio federale, come Ministro di Svizzera in Italia (1950-1955).
Enrico Celio (1889-1980)
Enrico Celio era convinto che la Svizzera «senza le sue minoranze latine cesserebbe d’essere quello Stato che il mondo osserva, rispetta ed anche ammira». Riteneva che l’apporto della Svizzera italiana all’insieme della Svizzera non andasse valutato solo in termini di «efficienze economiche e numeriche», ma soprattutto in termini culturali («una stirpe, un idioma ed una tradizione che furono al centro della civiltà europea») e per il patriottismo sempre dimostrato dai suoi abitanti.
Celio era anche convinto dell’importanza delle buone relazioni con l’Italia. Favorì l’accordo di immigrazione del 1948 tra la Svizzera e l’Italia e dell’elevazione della Legazione italiana in Ambasciata d’Italia a Berna (1953) e, soprattutto, aveva grande stima degli immigrati italiani. Nel corso di una cerimonia commemorativa dei 15 operai italiani e i 2 svizzeri periti durante la costruzione dei bacini idroelettrici di Robiei-Stabiascio (Canton Ticino) nel febbraio 1966, affermò che «né la galleria ferroviaria del San Gottardo nel 1872, né quella del Sempione (1905), né i ponti riallaccianti i dossi dei valloni nelle nostre valli, né i diversi manufatti su cui si snodano le nostre strade ferrate, automobilistiche, del piano ed alpine, né i muraglioni atti a raccogliere le nostre acque nei bacini delle montagne, né molte opere edili d’eccezionale o anche di minore consistenza sarebbero state materialmente realizzate senza l’apporto di lavoro e di sacrificio della mano d’opera italiana». (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 23.08.2017

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