01 novembre 2009

Immigrazione italiana tra catastrofismo e integrazione

Nei giorni scorsi, la stampa italiana ha dato risalto al rapporto 2009 della Caritas/Migrantes in cui si parla fra l’altro della presenza in Italia di oltre 4 milioni e mezzo di stranieri (7,2%) e della previsione di oltre 12 milioni nel 2050.
Come al solito, su questo rapporto e in genere sulla politica migratoria italiana, le opinioni si dividono. Per gli uni, gli immigrati sono una risorsa e la loro presenza è e sarà «necessaria per il funzionamento del Paese», per gli altri rappresentano un pericolo: «dodici milioni di stranieri nel 2050 sono una catastrofe sociale, demografica, geografica» (Il Giornale, 29.10.2009).
In realtà il «problema degli stranieri» non è solo un problema di statistica demografica o di convivenza civile, ma qualcosa di molto più complesso, un problema di civiltà al quale l’Italia non può sottrarsi. Il catastrofismo non aiuta a risolverlo.
Quanto alle cifre, credo che la previsione della Caritas (e dell’Istat) sia un tipico scenario possibile ma improbabile, perché basato su una premessa che generalmente non si verifica, ossia che il tasso di accrescimento degli stranieri continui ai ritmi attuali in un contesto identico o molto simile a quello odierno.
Basandosi su una tale premessa, alla vigilia della prima guerra mondiale, in Svizzera era stato previsto che attualmente ci sarebbero stati più stranieri che svizzeri. Agli inizi del Novecento, l’aumento del numero di stranieri sembrava inarrestabile. Si era passati dal 7,5% del 1888 al 14,7% nel 1910. Un semplice calcolo aveva indicato che se il tasso di crescita fino ad allora registrato fosse continuato per circa 80 anni (ossia fin verso il 1990), la proporzione degli stranieri avrebbe raggiunto il 50%. Di fatto, la proporzione degli stranieri, con tutti gli alti e bassi che aveva avuto dalla prima guerra in poi, era ancora del 14,8 nel 1980 e oggi, a quasi un secolo da quella previsione stramba, non arriva al 22%.
In realtà il ritmo di accrescimento di una componente demografica, ad esempio gli stranieri, può variare moltissimo in funzione di numerosi altri fattori che influiscono sull’immigrazione. Basterebbe, ad esempio, che si deteriorassero le condizioni economiche del Paese destinatario e già diminuirebbe l’interesse degli stranieri a stabilirvisi. Inoltre, gran parte degli emigranti rinuncerebbe volentieri a lasciare il proprio Paese se trovasse sul posto condizioni di vita e di lavoro dignitose. E’ quel che è successo all’Italia e alla Svizzera, passati nell’arco di pochi decenni da Paesi di forte emigrazione a Paesi di forte immigrazione. Lo stesso potrebbe succedere con gli attuali Paesi d’emigrazione.
Va inoltre ricordato che l’aumento del numero di stranieri non dipende solo dal numero di nuovi immigrati che si aggiungono a quelli già presenti, ma anche dall’autoincremento, ossia dal numero di figli degli stessi stranieri, che pur non essendo immigrati restano stranieri. Basterebbe però che il tasso di natalità degli stranieri diminuisse e diminuirebbe un elemento fondamentale della crescita degli stranieri. Questo è successo per esempio con gli italiani immigrati in Svizzera nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso ed è probabile che succeda lo stesso fenomeno con gli attuali immigrati in Italia.
Un altro elemento che incide considerevolmente sia sul numero degli stranieri che sul loro tasso di crescita è il tasso di naturalizzazione. In genere, nelle società di accoglimento, sempre più giovani stranieri di seconda e terza generazione acquistano (facilmente) la cittadinanza del Paese ospite, sottraendoli così alle statistiche sugli stranieri. Un esempio lampante è dato proprio dagli italiani in Svizzera. Per un lungo periodo (circa 100 anni), in cui le naturalizzazioni erano poche, il numero degli italiani è andato sempre crescendo (con saltuarie flessioni), fino a superare il mezzo milione negli anni Sessanta del secolo scorso. Dall’inizio degli anni Settanta il numero degli italiani (con la sola nazionalità italiana) è costantemente diminuito (oggi sono rimasti ca. 290.000). Le ragioni della diminuzione (importantissima per la statistica svizzera sugli stranieri) non vanno ricercate solo nei massicci rientri della prima generazione del dopoguerra, ma anche nelle numerose naturalizzazioni (circa 150.000) dal 1970 ad oggi). Tanto è vero che sommando ai soli cittadini italiani quelli con la doppia nazionalità la collettività italiana dovrebbe aggirarsi attorno al mezzo milione, ossia il valore che aveva verso la fine degli anni Sessanta.
Questo per dire che l’allarmismo, per quanto riguarda gli stranieri in Italia è fuori posto. Certamente non significa che la situazione si «normalizzerà» da sola. Occorre che le istituzioni adottino una politica d’integrazione efficiente ed efficace.
Probabilmente la via maestra non è quella di adottare immediatamente una sorta di naturalizzazione automatica (jus soli) per tutti gli stranieri nati in Italia. Ogni tentativo in questa direzione in Svizzera è fallito (il primo è datato 1903, l’ultimo 2004). Da qualche anno, tuttavia, la Svizzera sta portando avanti una politica d’integrazione che comincia a dare i suoi frutti in ambito scolastico, sociale, professionale e persino politico. Sta cominciando a diffondersi, per esempio, il diritto di voto a livello comunale e la partecipazione degli stranieri in molti organismi consultativi.
Probabilmente il primo passo da compiere è a livello culturale e informativo, quello di abbattere i pregiudizi riguardanti gli stranieri. Il secondo e più importante è la pratica dell’integrazione, ricordando che l’integrazione non la fanno le istituzioni, ma queste devono favorirla. Devono integrarsi le persone, le culture, le religioni, rispettandosi reciprocamente in un quadro che è quello giuridico nazionale. E questo richiede una disponibilità e uno sforzo comuni, sia da parte di chi intende integrarsi e sia da parte della società civile che deve essere pronta e aperta all’accoglienza e al sostegno degli stranieri nel rispetto della loro identità personale, culturale, religiosa.
Credo che l’Italia in questo campo sta già facendo molto, ma quel che resta da fare è ancora di più. E’ un buon segno che se ne discuta già tanto, ma è urgente che l’integrazione sia praticata sul serio e senza preconcetti. Tra l’altro un po’ di ottimismo non guasta.

Giovanni Longu
Berna 1.11.2009

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