18 marzo 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 8. «Bambini clandestini»: responsabilità plurima


Dei «bambini clandestini» in Svizzera si è detto negli articoli precedenti che nella stragrande maggioranza non erano figli di genitori stagionali e che il loro numero era di poche migliaia al massimo (se considerati contemporaneamente nel corso di un anno determinato, molti di più sommando tutti i clandestini, anche per periodi brevi, nell’arco di due-tre decenni). Si è anche detto che questi bambini vanno considerati «vittime innocenti di un sistema emigratorio e immigratorio legittimo ma per certi versi disumano». Detto così, si rischia però di rinunciare a un’analisi più approfondita del fenomeno e all’individuazione delle responsabilità. Contro questo rischio s’intende di seguito riconsiderare criticamente il contesto emigratorio/immigratorio del ventennio 1970-1990 e cercare di individuare eventuali responsabilità nei confronti di quelle piccole vittime innocenti. 

Il contesto generale
Nicoletta Bortolotti in «Chiamami sottovoce» (2018)
rievoca la situazione dei «bambini proibiti» soffermandosi
più sugli aspetti psicologici che su quelli storico-sociali.
Il fenomeno dei «bambini clandestini» italiani era noto in alcuni ambienti di immigrati, ma anche ai responsabili politici svizzeri e italiani, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, ma è emerso nella sua drammaticità solo negli anni Settanta. Da allora se n’è continuato a parlare e a scrivere per oltre un ventennio. La domanda che sorge spontanea a questo punto è molto semplice: perché nel frattempo non si è intervenuti per risolvere il problema? La risposta sarà molto meno semplice perché va ricercata nella politica emigratoria italiana, nella politica immigratoria svizzera e nei comportamenti individuali degli immigrati coinvolti.
La politica emigratoria italiana del dopoguerra, per quanto legittimata dalle necessità economiche e sociali del Paese in quel periodo e dal consenso generale di tutte le principali forze politiche, non è stata in grado di tutelare «il lavoro italiano all’estero» (art. 35 Cost.). Di fatto ha solo riconosciuto e persino agevolato (!) la «libertà di emigrazione», ma non ha vigilato attentamente sull’applicazione corretta degli accordi con la Svizzera del 1948 e 1964.
Anche la politica immigratoria svizzera, sia pure fondata sulla Costituzione federale, sulla legge sugli stranieri del 1931 e sugli accordi bilaterali con l’Italia, per decenni è stata asservita agli interessi dell’economia e sorda agli appelli che chiedevano maggiore attenzione alle esigenze dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie. Come Stato liberale, la Svizzera ha ritenuto a lungo di non dover intervenire nel mercato del lavoro se non per evitare grossi rischi economici e sociali e ha tollerato molti abusi, trascurando sistematicamente per decenni una componente essenziale del benessere svizzero ma considerata «straniera», cioè «estranea» alla società svizzera.
Altrettanto legittima è stata la decisione di moltissimi italiani di emigrare in Svizzera per un periodo breve (come stagionali) o lungo (annuali). Con l’emigrazione di massa degli anni Sessanta, però, non tutti si rendevano conto alla partenza dei problemi che avrebbero incontrato all’arrivo e non tutti erano consapevoli che oltre alle condizioni del contratto di lavoro andavano rispettate le leggi e le consuetudini del Paese di destinazione. D’altra parte si sa o si dovrebbe sapere che «la legge non ammette ignoranza» e che violarla può comportare sanzioni anche gravi.

Le responsabilità della politica emigratoria italiana
Le autorità diplomatiche e consolari italiane sapevano certamente che dopo la conclusione dell’accordo italo-svizzero del 1964 c’erano in Svizzera «bambini clandestini» (ossia fatti arrivare illegalmente dai genitori senza aver chiesto e ottenuto preventivamente dalle autorità svizzere il permesso al ricongiungimento familiare). E’ probabile, tuttavia, che non conoscessero direttamente gli interessati e, anche conoscendoli, difficilmente avrebbero potuto intervenire a loro favore.
Le autorità italiane sapevano però quasi certamente che molti «bambini clandestini» non erano figli di stagionali regolari, ma di «falsi stagionali» (che pur avendo uno statuto da stagionali di fatto restavano in Svizzera ben aldilà dei nove mesi consentiti) e di annuali. L’Italia avrebbe potuto e dovuto impegnarsi maggiormente per far eliminare questa falsa categoria di immigrati e trasformare i «falsi stagionali» in regolari annuali col diritto al ricongiungimento familiare, sia pure a determinate condizioni.
Molti figli di annuali subirono la condizione di clandestinità perché ai genitori non veniva concesso il permesso di risiedere in Svizzera con la famiglia non disponendo di un «alloggio adeguato» come previsto dall’accordo italo-svizzero del 1964. Non risulta che le autorità italiane siano state molto attive nella ricerca di abitazioni adeguate nemmeno per quei connazionali che soddisfacevano tutte le altre condizioni per il ricongiungimento familiare. Come non risulta ch’esse siano intervenute spesso nel denunciare alle autorità competenti evidenti abusi nella pratica degli affitti.

Le responsabilità della politica immigratoria svizzera
Sono quelle su cui si è concentrata maggiormente la critica di coloro che si sono occupati del problema, spesso per altro in maniera superficiale e unilaterale. Minimizzare le responsabilità delle autorità svizzere sarebbe tuttavia un errore. Infatti, pur ammettendo la legittimità dello statuto stagionale, esse hanno tollerato per troppo tempo i «falsi stagionali» e ostacolato puntigliosamente nei loro confronti la trasformazione del permesso stagionale in annuale. Bisogna dare atto però alle stesse autorità di aver iniziato a porvi rimedio fin dal 1971.
Ben più complicata si presentava la questione dei «bambini clandestini». Le leggi e gli accordi parlavano chiaro: il ricongiungimento familiare era possibile solo a determinate condizioni. In punto di diritto, nessuno straniero avrebbe dovuto contravvenire alle disposizioni vigenti al riguardo e le autorità esecutive, se a conoscenza della violazione, non avevano altra scelta che provvedere all’espulsione dei contravventori o invitarli entro un tempo ragionevole a mettersi in regola.
Tuttavia, il compito della politica non è solo l’esecuzione delle leggi e degli accordi, senza derogarvi, ma dovrebbe essere anche quello di rimuovere gli ostacoli per evitare ai cittadini scelte drammatiche e disumane. Sotto questo aspetto la politica immigratoria svizzera ha avuto molte responsabilità perché, per esempio, non è stata in grado di attuare una politica dell’alloggio che tenesse conto delle esigenze delle famiglie degli immigrati. Sarebbe bastata, in molti casi, un’intesa tra autorità, datori di lavoro e sindacati, per legare l’assunzione di stranieri con famiglia alla messa a disposizione, a pigioni ragionevoli, di abitazioni adeguate.
Non va tuttavia dimenticato che nel periodo in questione il potere d’intervento della politica nella sfera privata dei rapporti economici tra cittadini era alquanto debole e limitato. Infine, andrebbe riconosciuto a tutte le autorità svizzere, forse con poche eccezioni, che in materia di espulsioni di «bambini clandestini» non sono state vessatorie. Se migliaia di essi hanno potuto restare in Svizzera, sia pure tra notevoli privazioni, lo si deve anche alla tolleranza delle autorità, che di solito intervenivano solo dopo denunce di cittadini sospettosi e intolleranti.

Le responsabilità degli immigrati
Non sarebbe corretto, a questo punto, tacere le responsabilità anche dei genitori dei «bambini clandestini». Si tratta, com’è facile capire, di un tema estremamente delicato, a tal punto che quasi tutti gli autori che hanno trattato della clandestinità infantile non l’hanno nemmeno sfiorato. Hanno preferito, tanto ingenuamente quanto irresponsabilmente, sovraccaricare le responsabilità delle autorità svizzere e, in parte minore, di quelle italiane, senza mai indicare quali avrebbero potuto essere le alternative praticabili.
Recente docufilm di Alessandra Rossi e Mario Maellaro sui
«bambini nascosti» in Svizzera, da cui emerge chiaramente
che quei bambini non dovevano trovarsi in quelle condizioni
Sebbene qui non si tratti di processare i genitori dei bambini tenuti illegalmente in Svizzera, è giudizioso partire dai fatti e verificare successivamente le eventuali responsabilità, tenendo conto di tutte le attenuanti possibili. Da quanto detto finora dovrebbe apparire chiaro che il fenomeno dei «bambini clandestini» era contrario a leggi e trattati, che andavano invece rispettati. A non rispettarli non erano i legislatori svizzeri e italiani, ma alcuni immigrati consapevoli, che sapevano bene di rischiare l’espulsione. Non erano i bambini ad essere «proibiti» (Martina Frigerio Martina, Bambini proibiti), ma l'illegalità, la violazione consapevole delle norme, la clandestinità.
Sarebbe infinita la discussione se i singoli genitori di questi bambini avessero buone ragioni per correre quel rischio, ma non si possono assolvere in blocco invocando i diritti della famiglia, la durezza della legge o «il bisogno di emigrare». Pur ammettendo le buone intenzioni di tutti o di gran parte di quei genitori, sarebbe difficile dimostrare la necessità del ricongiungimento familiare nel momento in cui è avvenuto e l’impossibilità di ritardarlo magari di qualche mese in attesa di soddisfare tutte le condizioni previste, come hanno fatto moltissimi altri genitori.
Resta il fatto che a pagarne le conseguenze sono stati sempre bambini innocenti, costretti a vivere segregati in minuscoli appartamenti e alloggi (spesso mansarde!) inadeguati, privati di molti diritti. Non doveva accadere! Fortunatamente questa brutta esperienza non ha lasciato tracce indelebili nella maggior parte degli ex-clandestini, perché molti di essi sono stati in grado di controbilanciare la solitudine e la tristezza di quella condizione con l’apprezzamento dei piccoli giochi, lo sviluppo della fantasia, il godimento intenso dei momenti di intimità con i genitori al rientro dal lavoro, delle passeggiate del fine settimana, ma anche della solidarietà e della generosità di vicini di casa, stranieri e svizzeri, e di tanti datori di lavoro pronti a «coprire» i loro dipendenti. (Fine)
Giovanni Longu
Berna, 18.03.2020

15 marzo 2020

Ai tempi del coronavirus


La pandemia da coronavirus è allarmante non solo perché ha già fatto tanti morti e non si sa quanti altri ne farà in Europa e nel resto del mondo, ma perché richiama la paura atavica della peste e della decimazione di intere popolazioni. E’ rimasta impressa nella memoria collettiva soprattutto la «spagnola» del 1918-1920 che fece decine di milioni di morti. Altre epidemie più recenti sono state meno micidiali (per esempio l’«asiatica» del 1957 che ancora molti ricordano), per cui è subentrata nella coscienza dei popoli specialmente occidentali una sorta di assopimento di quella paura ancestrale, ma non è stata annientata. Il coronavirus la sta risvegliando?

Pandemia come «castigo di Dio»
Coronavirus - Covid-19
L’umanità, che ha conosciuto epidemie fin dall’antichità, non ha mai accettato l’idea di poter scomparire a seguito di una pandemia universale, anzi ha sempre creduto in una qualche forma di sopravvivenza. Dapprima, scoprendosi impotente di fronte al virus, se n’è assunta per così dire la responsabilità e ha considerato l’epidemia una sorta di «castigo di Dio», da espiare con preghiere e sacrifici. Il ricorso alla divinità è perdurato finché è durato il predominio della fede sulla ragione in molte religioni, compresa quella cristiana.
Ancora ai tempi di San Carlo Borromeo (1538-1584), durante una peste che sconvolse Milano, molti pensarono come lo stesso san Carlo che si trattasse di «un flagello mandato dal cielo» come castigo dei peccati degli uomini e che andasse curato con la preghiera e il digiuno. Il mondo però stava cambiando: la scienza cominciava a rivendicare il primato sulle credenze e già pensava che ogni epidemia poteva essere sconfitta dalla farmacologia.
Poco più di un secolo dopo, nel Seicento, quando un’altra peste micidiale scoppiata in tutto il Nord Italia sembrava divorare l’intera città di Milano, solo qualcuno parlò ancora di «castigo di Dio», mentre molti l’attribuirono a fattori umani, gli «untori». Il cardinale Federico Borromeo, pur non rinunciando a una processione solenne, con l’ostensione delle reliquie di san Carlo Borromeo (che, fra l’altro, non produsse gli effetti sperati perché i decessi invece di diminuire aumentarono) ritenne di aver trovato un valido antidoto alla disgrazia nella solidarietà delle persone sane. Per dare il buon esempio, inviò in prima linea i suoi ecclesiastici perché si prodigassero nella sepoltura dei morti, nella cura degli ammalati e nell’aiuto ai bisognosi. A guidarli c’era lo stesso cardinale, come ha scritto Alessandro Manzoni in alcune stupende pagine dei Promessi Sposi.

Progressi e limiti della scienza
Da allora, comunque, il progresso della scienza e della tecnica è stato incessante, la medicina è diventata preventiva e curativa, la farmacologia ha messo a punto vaccini mirati ed efficaci, malattie micidiali sono state debellate, la statistica annuncia ogni anno l’aumento della speranza di vita dei nuovi nati, la qualità della vita registra ovunque miglioramenti.
Fino a pochi mesi fa, l’umanità sembrava aver dimenticato che una nuova epidemia è sempre in agguato in una qualsiasi parte del mondo e che i vaccini disponibili possono non essere efficaci. Si viveva come in un limbo autoprotettivo garantito da farmaci potenti, sistemi sanitari efficienti, virologi e scienziati attenti a ogni indizio di malattia, industrie farmaceutiche supertecnologiche pronte a intervenire in caso di bisogno. Grazie ai vaccini, le epidemie si ritenevano debellate per sempre. Illusione o sottovalutazione dei rischi? Probabilmente l’una e l’altra.
Infatti l’epidemia, anzi la pandemia, si è ripresentata con insaziabile voracità e l’umanità intera si è scoperta nuda, impreparata, senza barriere protettive, senza vaccini efficaci per contrastarla. Di fronte al pericolo di una sua propagazione incontrollata e micidiale, non potendo isolare e uccidere il virus, molti governi stanno cercando di contenerne la diffusione invitando i cittadini a chiudersi in casa, vietando ogni tipo di assembramento, chiudendo le scuole, i ritrovi, molti luoghi di lavoro, lasciando al fronte solo medici, infermieri, virologi, scienziati, le forze dell’ordine, i responsabili governativi.

Ragione e fede
E’ tornata la paura atavica? Forse. L’epidemia è un «castigo di Dio»? Certamente no, anche se c’è ancora qualcuno che considera il coronavirus «una delle piaghe inviate da Dio sugli uomini per convertirli». No, se per definizione Dio è buono e signore della vita, non minaccia e per convertire gli uomini fa appello solo alla libertà di ciascuno.
Joseph Ratzinger
D’altra parte è innegabile che questa pandemia metta bene in luce la finitezza e la fragilità dell’essere umano, come pure i limiti della scienza, che non riuscirà mai a superare l’ineluttabilità della morte. Appare quindi comprensibile che di fronte al limite della scienza (ragione), l’uomo cerchi attraverso la fede il vero senso della vita anche oltre la morte. L’importante è che tra fede e ragione non ci siano né sovrapposizioni né conflitti, ma complementarietà. Infatti, «la ragione senza fede non guarisce, ma la fede senza la ragione diviene non umana» (Joseph Ratzinger).
Poiché il tempo di ogni epidemia è limitato, l’ottimismo è ragionevole, non solo perché la scienza ha i mezzi per ottenere i vaccini necessari, ma anche perché l’intesa tra ragione e fede sta producendo come ai tempi di Federico Borromeo l’antidoto più umano che possa esistere, la solidarietà interpersonale e intergenerazionale o semplicemente sociale. Se si volesse considerare la pandemia come una «prova» per l’umanità, la si dovrebbe ritenere superata solo nel segno della solidarietà. In questo momento molti segnali fanno ben sperare che i tempi del coronavirus siano ricordati come i tempi di una grande solidarietà sociale.
Giovanni Longu
Berna, 15.03.2020