19 febbraio 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 5. La situazione iniziale


Per poter seguire il percorso dell’immigrazione italiana in Svizzera nel ventennio 1970-90, è indispensabile osservare da vicino la situazione iniziale, indicando alcune cifre significative, ma anche alcune caratteristiche socio-professionali degli immigrati italiani. E’ altresì importante sottolineare che dal 1970 sia la politica immigratoria svizzera e sia la politica emigratoria italiana tendono a modificarsi radicalmente. Di questi mutamenti, come si vedrà, gli immigrati sono raramente protagonisti, ma sul lungo periodo – perché si tratterà di un processo lento – saranno anch’essi e soprattutto i loro figli e nipoti a beneficiarne. Sarà tuttavia la Svizzera la principale beneficiaria del ricchissimo contributo immigratorio. 

Cifre e distinzioni fondamentali
Nel 1972 il presidente della Confederazione Nello Celio (al centro) valutò
molto positivamente l'immigrazione in Svizzera (foto Cisap)
Quando si parla di immigrati, non solo italiani, si dimenticano molto spesso alcune distinzioni fondamentali che non andrebbero mai dimenticate, pena una grande confusione e visioni distorte della realtà. Concentrando l’attenzione sugli italiani, si dimentica spesso di ricordare che l’immigrazione italiana in Svizzera, sia quella degli ultimi decenni dell’Ottocento che quella dei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale, era soprattutto (ma non esclusivamente) temporanea e stagionale.
La legge sugli stranieri del 1931 aveva introdotto per il soggiorno degli stranieri una serie di permessi, concepita da una parte per impedire ad individui «indesiderabili» (per qualsiasi ragione) di entrare e rimanere in Svizzera e dall’altra per permettere alle autorità federali di esercitare un influsso regolatore sul mercato del lavoro e di lottare contro il pericolo di «inforestierimento», ostacolando in vari modi l’ottenimento del permesso di domicilio, di durata illimitata (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2017/04/italiani-in-svizzera-11-la-legge-sugli.html).
Nel 1970 gli italiani presenti buona parte dell’anno in Svizzera erano complessivamente 711.153, dei quali 339.339 erano domiciliati, 244.516 residenti annuali, 101.555 stagionali e 25.743 frontalieri. Qualora l’iniziativa Schwarzenbach fosse stata accolta, ben difficilmente avrebbe potuto riguardare i domiciliati, perché protetti dal Trattato italo-svizzero del 1868. I più minacciati sarebbero stati i residenti annuali e gli stagionali vicini alla trasformazione del loro permesso di soggiorno da stagionale ad annuale. Del resto, i domiciliati, equiparati agli svizzeri nel campo dei diritti sociali (con l’esclusione quindi dei diritti politici) venivano considerati «integrati» e quindi non costituivano una minaccia d’inforestierimento.

Provenienza e «meridionalizzazione»
Un altro aspetto importante da tener presente nel periodo considerato è la provenienza degli italiani, perché essa ha avuto un diverso impatto sulla popolazione svizzera. I domiciliati, ritenuti generalmente «integrati», erano facilmente accettati, perché si erano in certa misura assimilati. Quasi tutti erano arrivati nel secondo dopoguerra dal Nord Italia.
Dall’inizio degli anni Sessanta, invece, la maggior parte degli immigrati italiani proveniva dal Sud Italia e agli occhi di molti datori di lavoro e dell’opinione pubblica erano «diversi» dai settentrionali. Per esempio, avevano un più basso livello d’istruzione (molti erano addirittura analfabeti), conoscenze linguistiche scarse, preparazione professionale specifica inesistente o non adeguata ai parametri svizzeri, minore propensione all’integrazione.
La progressiva «meridionalizzazione» dell’immigrazione italiana con quelle caratteristiche creava non pochi problemi nella vita quotidiana degli svizzeri, allarmava i sindacati (il tasso di sindacalizzazione dei meridionali era bassissimo, i conflitti sul lavoro tendevano a crescere), preoccupava anche i governi federale, cantonali e comunali perché sembrava rendere più difficili i contatti e l’integrazione.
D’altra parte, la paura dell’isolamento e della marginalizzazione spingeva i meridionali a costituirsi in associazioni, famiglie, gruppi autonomi. Negli anni Sessanta e Settanta si ebbe il boom dell’associazionismo italiano. Persino le Colonie libere italiane, risalenti addirittura a prima della guerra, reclutavano ormai gran parte dei loro membri tra i meridionali (nel 1971 la CLI di Zurigo, una delle più numerose, era costituita per oltre il 70% da soci provenienti dall’Italia meridionale e dalle isole). Non sempre tra settentrionali e meridionali regnava l’armonia e la solidarietà. In generale le due componenti preferivano ignorarsi reciprocamente.

Disagio tra la popolazione svizzera
Con la sconfitta di Schwarzenbach, il disagio di molti svizzeri di fronte a una popolazione di stranieri in forte crescita si attenuò appena, ma non scomparve. L’arrivo incessante di stranieri (di italiani in particolare) preoccupava perché sembrava inarrestabile. Nel 1970 erano già oltre un milione, su una popolazione totale di poco superiore ai sei milioni di abitanti. Anche se allora non c’erano disoccupati, nessuno credeva che l’alta congiuntura sarebbe continuata all’infinito, che il benessere raggiunto fosse garantito per sempre, che un’eventuale crisi avrebbe colpito solo gli stranieri e risparmiato gli svizzeri.
Permessi di soggiorno svizzeri
Quando si parla della necessità d’integrare almeno gli stranieri residenti, di migliorare le loro condizioni di vita e di abitazione, di pensare seriamente all’avvenire della seconda generazione, sorgevano subito le obiezioni. Per alloggiare adeguatamente tutta la popolazione straniera, predisporre per tutti servizi efficienti, assicurare a tutti le medesime possibilità, ecc. sarebbe stato necessario far venire ancora altri stranieri per costruire case, ospedali, scuole, chiese, centri ricreativi, ecc. Sarebbe stato accettare che il problema era irrisolvibile.
Gli xenofobi cavalcheranno a lungo queste preoccupazioni e ritenteranno più volte di introdurre nella Costituzione articoli che obbligassero la Confederazione a interrompere con drastiche misure il circolo vizioso, a costo, magari, di ridimensionare certe aziende e di accontentarsi di un livello di benessere inferiore.
A interpellare la coscienza di molti svizzeri c’era però anche la domanda umanissima che serpeggiava qua e là nei discorsi pubblici: ma come si fa a rinviare al proprio Paese decine di migliaia di persone che prima sono state fatte venire, hanno lavorato versando sudore e talvolta anche sangue, hanno contribuito al benessere della Svizzera e a un certo punto si dice loro «non ci servite più»?
Si sa che in una popolazione fondamentalmente sana il buon senso finisce sempre per imporsi e molti, dopo il 1970, si convinsero che anche questo Paese avrebbe saputo conciliare tradizione e progresso, politica ed economia, umanità e prosperità. In fondo sarebbe bastato poco: superare i pregiudizi, cominciare a dialogare con l’altro, il diverso, lo straniero. Uniti, rinunciando magari a qualcosa da entrambe le parti, si sarebbe potuto andare avanti meglio di prima, in un mondo che esigeva aperture e non chiusure. Le resistenze a considerare l’immigrazione un fattore di crescita della Svizzera saranno tuttavia ancora tante.

Disagio degli italiani
Nonostante la bocciatura dell’iniziativa Schwarzenbach, nel 1970 il disagio degli immigrati italiani era palpabile. Mai si sarebbero aspettati una così alta percentuale di svizzeri (il 46% dei votanti) favorevole a una riduzione drastica del numero di stranieri, come se, invece di considerarli contributori netti del benessere della Svizzera, li ritenessero un peso per l’economia e per la socialità.
Il disagio degli emigrati contribuì ad accrescere il disagio che provava sempre più anche il governo italiano, non solo per i frequenti attacchi delle sinistre (cfr. articolo precedente), ma anche perché si rendeva conto che la soluzione ai problemi sociali che spingevano all’emigrazione andava cercata in Italia, soprattutto creando occupazione.
Ad un convegno organizzato a Milano nel 1971, Giovanni Falchi, della Direzione generale dell'emigrazione e degli affari sociali del Ministero degli esteri, disse: «Il fine ultimo della politica in questo campo deve essere quello di annullare la necessità di emigrare, assicurando ad ogni lavoratore la libertà di scegliere. Nell'attesa, però, occorre agire perché le sofferenze e le frustrazioni, inevitabilmente connesse con l'emigrazione, vengano alleviate».
Effettivamente, da allora, nei limiti del possibile, tutti i governi italiani si attivarono per migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli emigrati italiani e facilitare l’inserimento scolastico e professionale soprattutto della seconda generazione. Di fatto, dal 1970 il saldo migratorio italiano (arrivi dall’Italia meno partenze dalla Svizzera) è risultato quasi sempre negativo e le condizioni generali degli italiani sono migliorate costantemente.

L’influsso europeo
In questo contesto non va tuttavia dimenticato l’influsso che ha avuto sia nella politica immigratoria svizzera e sia nella politica emigratoria italiana l’Unione europea, allora Comunità economica europea (CEE) o Mercato comune europeo (MEC). La CEE seguiva attentamente la questione migratoria svizzera, perché la Svizzera era molto interessata ad un’associazione alla CEE, per usufruire delle grandi opportunità che rappresentava il MEC.
La Svizzera, però, sapeva bene che l’intesa non sarebbe stata possibile se non si fosse migliorata, sul piano generale, la questione dei lavoratori stranieri e soprattutto di quelli italiani. Sebbene, durante le trattative per l’associazione, non abbia accettato integralmente le quattro libertà fondamentali applicate nel MEC (libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali), è innegabile che in tutte le trattative tra l’Italia e la Svizzera la situazione all’interno del MEC sia stata tenuta sempre presente. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 19.02.2020