05 febbraio 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 3. Segnali di cambiamento


Gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso sono stati per la Svizzera un lungo periodo di forte espansione economica, che ha richiesto l’impiego stagionale o annuale di milioni di lavoratori stranieri. Nella seconda metà degli anni Sessanta il Governo federale dovette intervenire con misure restrittive per limitarne la crescita incontrollata, che cominciava a preoccupare molti cittadini, gli ambienti sindacali e alcune forze politiche di destra e di sinistra. Tuttavia, poiché il ricorso a forze di lavoro supplementari straniere sembrava irrinunciabile e gli ambienti economici opponevano forti resistenze, il Consiglio federale dovette impegnarsi non poco per imporre una nuova politica immigratoria che tenesse conto non solo dei bisogni dell’economia, ma anche degli interessi generali del Paese, degli accordi internazionali e delle esigenze degli stranieri. In sostanza, da una politica dominata dagli interessi economici si doveva passare, gradualmente, a una politica di stabilizzazione e d’integrazione degli stranieri. 

Dalla rotazione alla stabilizzazione
Gli anni '70 segnarono una svolta nell'immigrazione italiana: molti
scelsero di restare in Svizzera e integrarsi, altri di rientrare in patria.

Fino ad allora l’economia svizzera aveva potuto espandersi a suo piacimento perché la politica aveva sempre assecondato le sue richieste. Pretendere di invertire i ruoli, nel sistema liberale svizzero, dovette apparire quantomeno azzardato a molti imprenditori. Di fatto, tutti i provvedimenti (ordinanze) decisi dal governo per limitare il ricorso a manodopera estera supplementare risultavano a tal punto inefficaci, da convincere soprattutto i movimenti xenofobi in forte crescita che fosse necessario modificare la Costituzione per limitare la popolazione straniera residente.
Ad opporsi alle misure decise dal governo erano soprattutto le imprese che faticavano ad approvvigionarsi sul mercato del lavoro svizzero (negli anni Sessanta c’era la piena occupazione e i disoccupati erano poche centinaia in tutta la Svizzera), tanto più che molti datori di lavoro cominciavano ad avere difficoltà di reclutamento anche all’estero (il boom economico italiano, specialmente al nord, assorbiva per esempio gran parte della disoccupazione e richiamava molta manodopera dal sud).
Il «sistema di rotazione» della manodopera straniera era stato introdotto nel dopoguerra (quando in Italia la disponibilità di manodopera era enorme) per evitare o quantomeno rallentare l’aumento degli stranieri residenti stabilmente in Svizzera e anche per non dover provvedere, in caso di forte disoccupazione, alle necessità dei disoccupati stranieri. Per due decenni aveva funzionato abbastanza bene (perché rientrava anche nella visione politica del governo italiano e nella scelta di molti lavoratori, intenzionati a stare in Svizzera solo qualche anno per poi rientrare), ma nella seconda metà degli anni Sessanta era diventato quasi impraticabile.
In effetti, le rilevazioni statistiche sull’immigrazione degli anni Sessanta attestavano anno dopo anno la sempre maggiore stabilizzazione dei lavoratori stranieri, soprattutto degli italiani (che allora rappresentavano oltre la metà di tutti gli stranieri), dovuta sia al loro desiderio di prolungare il loro soggiorno in Svizzera e sia alla convenienza dei datori di lavoro di tenere il più a lungo possibile la manodopera che si erano formata. Non va infatti dimenticato che molti stranieri occupavano posti «fissi» nell’industria (lasciati liberi da svizzeri trasferitisi soprattutto nel settore dei servizi), governavano macchinari molto costosi e spesso svolgevano ruoli di quadri medio-bassi. Per molti datori di lavoro, privarsi di un numero significativo di stranieri avrebbe significato ridurre la produzione (allora in forte espansione) o addirittura chiudere l’impresa.
Gli stranieri sono infatti presenti in proporzioni assai rilevanti non solo nell’edilizia e genio civile (dove ci sono cantieri senza un solo operaio svizzero), ma anche nell’industria metallurgica e meccanica, nell’industria tessile e dell’abbigliamento (in alcune aziende gli stranieri rappresentano il 90% del personale).
Va inoltre tenuto presente che, soprattutto dopo l’accordo italo-svizzero del 1964, molti immigrati hanno ricomposto in Svizzera il nucleo familiare, per cui la stabilizzazione della popolazione straniera è ancor più evidente. Al 31 dicembre 1970, su una popolazione straniera complessiva (inclusi stagionali e frontalieri) di 1.212.416 persone, i residenti stabili erano oltre l’80% (51% annuali, 30% domiciliati).

Stabilizzazione e ricongiungimenti familiari
Il problema dei ricongiungimenti familiari è stato uno dei più discussi in Svizzera, a livello nazionale e internazionale, specialmente nella prima metà degli anni Sessanta. Le difficoltà da superare erano di natura soprattutto politica e non semplicemente etica (come alcuni politici ritenevano e alcuni commentatori intendono ancora). Da una parte infatti si riconosceva il sacrosanto diritto delle persone sposate a salvaguardare l’unione matrimoniale e della famiglia anche in condizione di emigrazione, ma dall’altra si riconosceva allo Stato il diritto di regolamentare l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel proprio territorio.
Non è il caso di riproporre qui la discussione, ma è utile ricordarla perché, nel ventennio che si sta considerando, il tema è rimasto ancora attuale sotto altri punti di vista. Basti pensare al problema degli alloggi, all’inserimento scolastico e professionale dei figli degli immigrati, all’integrazione sociale, ecc.
All’origine, ai tempi del primo accordo di emigrazione/immigrazione tra l’Italia e la Svizzera (1948), il problema non era attuale perché si pensava soprattutto agli immigrati giovani e celibi ai quali veniva accordato normalmente un permesso di lavoro e di soggiorno stagionale. Supponendoli, almeno nella grande maggioranza, non sposati, per loro il problema del ricongiungimento familiare non si poneva nemmeno e comunque non avrebbero avuto il diritto di farsi raggiungere dalla famiglie. La Svizzera intendeva scoraggiare, anche con questa privazione, che aumentasse il numero dei residenti stabili e soprattutto dei domiciliati.
Dagli anni '70 la penuria di abitazioni andò attenuandosi.
Il problema emerse in tutta la sua gravità man mano che gli emigrati/immigrati (allora si intendevano soprattutto le persone di sesso maschile, i «capi famiglia», i «lavoratori») cominciarono ad essere non solo celibi ma anche sposati e, soprattutto, quando iniziarono a stabilizzarsi. Il divieto di portare con sé moglie e figli per anni non poteva non suscitare perplessità e discussioni anche a livello politico.
In occasione delle trattative sul nuovo accordo italo-svizzero di emigrazione/immigrazione (1961-1964) l’Italia chiese ed ottenne una significativa riduzione del periodo di attesa prima del ricongiungimento ad un massimo di 18 mesi, ma la Svizzera impose due condizioni, la prima, la stabilità dell’impiego e, la seconda, «disporre per la sua famiglia di un alloggio adeguato». Entrambe, per emigrati spesso molto insicuri sul futuro e votati al risparmio, non facili da assecondare. Di fatto, anche questo problema influirà non poco sulla decisione fondamentale che l’emigrazione stava elaborando nel suo complesso, sul finire degli anni Sessanta e inizio anni Settanta, se restare in Svizzera e fare il possibile per integrarsi o rientrare definitivamente in patria.
Per non esasperare le difficili condizioni di molti giovani immigrati italiani, durante un incontro (giugno 1972) della Commissione mista italo-svizzera prevista dall’accordo del 1964, l’Italia riuscì ad ottenere un’ulteriore riduzione a 15 mesi del periodo di attesa e altre agevolazioni riguardanti la possibilità di cambiare posto di lavoro, professione e Cantone, fino ad allora alquanto limitate.

Nuovi problemi
La stabilizzazione della manodopera estera, se consentiva una maggiore tranquillità sia ai datori di lavoro che agli immigrati, comportava anche tutta una serie di nuovi problemi non previsti né negli accordi bilaterali tra l’Italia e la Svizzera né negli incontri della Commissione mista. Si pensi al problema degli alloggi (strettamente legato ai ricongiungimenti familiari), anche se in via di soluzione, o a un altro problema molto delicato legato piuttosto alla mancanza del ricongiungimento, quello dei bambini affidati a parenti lontani, sistemati in collegi alla frontiera («gli orfani della frontiera») o introdotti «clandestinamente» in Svizzera.
Un’altra serie di problemi derivati dalla stabilizzazione degli immigrati concerne soprattutto la cosiddetta «seconda generazione», ossia i figli degli immigrati, ma non immigrati essi stessi (perché nati qui o arrivati in età scolastica), ai quali bisognava garantire un futuro possibilmente sereno sia nel caso che volessero restare e sia nell’evenienza (statisticamente improbabile) di un rientro al seguito dei genitori. Si pensi alla problematica «scuola italiana»-«scuola svizzera», alla formazione professionale, alla gestione del tempo libero, ma anche al rapporto non sempre armonioso all’interno della stessa famiglia.
Di questi e altri temi si tratterà nei prossimi articoli, tenendo presente che nel ventennio 1970-1990, si è verificata una crisi economica che ha inciso notevolmente sia sulla politica d’immigrazione svizzera (all’epoca si parlò di «esportazione della disoccupazione») e sia sulla politica di emigrazione italiana (che è continuata ininterrottamente specialmente dal sud nonostante notevoli investimenti e soprattutto promesse di rilancio economico mai mantenute). (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 5.2.2020