15 gennaio 2020

Formazione e Professione


I risultati dell’indagine PISA 2018 non lasciano dubbi sulle insufficienti prestazioni degli allievi italiani rispetto alla media dei Paesi dell’OCSE. Alcuni commenti al precedente articolo su questo tema del 2.1.2020 hanno messo in relazione la perdita di competenza linguistica dei giovani quindicenni italiani con l’insufficiente preparazione di molti insegnanti, altri col disimpegno del governo nel settore della formazione, altri ancora con l’impoverimento della lingua italiana usata nei media, con la progressiva perdita di autorevolezza dei genitori nei confronti dei figli, con la carenza di prospettive occupazionali per i giovani soprattutto al sud, ecc. Non è facile attribuire responsabilità precise quando si tratta di problemi complessi, ma individuarne alcune è certamente utile alla ricerca dei rimedi. In questo senso ho accennato in quell’articolo al sistema formativo svizzero.

Alcuni dati di partenza

I risultati dell’indagine OCSE-PISA rappresentano un buon indicatore del malessere della scuola italiana, intesa nel suo complesso, ma non è sufficiente per trarre conclusioni generalizzanti. Il sistema scolastico italiano è molto complesso e vario, come dimostra anche la diversità dei risultati PISA tra il nord e il sud dell’Italia. Non tenerne conto sarebbe tuttavia un grave errore perché i test sono stati condotti su campioni rappresentativi e comparabili a livello internazionale.
Anche la critica riguardante la presunta impreparazione di molti insegnanti va presa seriamente in considerazione, anche se non basta certamente a spiegare il basso livello linguistico degli adolescenti italiani perché ci sono moltissimi insegnanti preparati e aggiornati. Deve però far riflettere il fatto che il corpo insegnante italiano è il più anziano dell’Unione europea e che in Italia solo da pochi anni (dal 2015) esiste per i docenti di ruolo degli istituti pubblici l’obbligo legale di formazione e aggiornamento professionale.
Persino la scarsezza degli investimenti pubblici, da soli, non bastano a spiegare la fragilità del sistema formativo italiano, ma è certamente un indicatore significativo della scarsa attenzione dei poteri pubblici ai problemi della scuola. Da troppi anni l’Italia destina all’istruzione e alla ricerca risorse insufficienti, tanto da indurre il ministro competente Lorenzo Fioramonti a lasciare il governo. La sua principale motivazione è stata: «ho accettato il mio incarico con l’unico fine di invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza».
Anche la tendenza a un generale impoverimento della lingua italiana, facilmente riscontrabile nei media e specialmente nei social, rappresenta per i giovani studenti un forte rischio di perdita di competenza comunicativa e interpretativa, ma anch’essa non spiega interamente la povertà della lingua italiana adoperata dai giovani. Una buona scuola potrebbe infatti contrastare questa tendenza. Tutti, studenti, insegnanti, genitori, parti sociali, regioni e soprattutto governo e parlamento, dovrebbero sentire la responsabilità di cercare i rimedi giusti e di dare finalmente agli italiani la «buona scuola» che meritano.

Anzitutto valorizzare la scuola
La scuola è stata sempre considerata, nella nostra epoca, più un dovere che un piacere. Il primo rimedio alla disaffezione di tanti bambini e giovani allo studio dovrebbe essere una maggiore valorizzazione della scuola. Se prima, fino a pochi secoli fa, il poter studiare era un privilegio di pochi, oggi questa possibilità ce l’hanno tutti e tutti dovrebbero sentirsi dei privilegiati. Invece non è così perché gli allievi e forse anche molti insegnanti (anch’essi da valorizzare maggiormente perché componente essenziale di una buona scuola) non sanno apprezzare il valore della scuola e dello studio.
Una certa retorica ha forse insistito troppo sulla bellezza della lingua italiana, sulla grande eredità dantesca e manzoniana, sulla possibilità di accedere al favoloso mondo dell’arte e del sapere, sulla scuola «tempio del sapere», dimenticando che la lingua, la scuola, il sapere per essere apprezzati devono essere «utili». Solo se utilizzati (bene) hanno valore. Molti giovani non sanno apprezzare e valorizzare la scuola e la conoscenza perché non ne vedono l’utilità, perché al termine del percorso formativo si trovano «disoccupati», senza uno sbocco professionale adeguato.

Formazione e occupazione
Il concetto di «utilità» in questo contesto non va banalizzato né ridotto a «bene mercantile», perché rappresenta anzi un elemento chiave nella ricerca di soluzioni incisive ai mali della scuola, soprattutto quando lo Stato è chiamato a immettere nella formazione e nella ricerca più risorse.
La formazione è la via maestra per l'acquisizione delle competenze sul lavoro.
Leggendo le motivazioni delle dimissioni dell’ex ministro Fioramonti che aveva chiesto al governo «più coraggio» e non l’ha avuto, mi è venuto in mente don Abbondio di manzoniana memoria quando affermava per consolarsi che «il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Poi mi sono chiesto, ma questo governo, i miliardi per la formazione e la ricerca li ha cercati davvero? Mi rimane il dubbio, ma trovo ancor più preoccupante quanto ho letto (in Internet) in un documento della Commissione europea: «Secondo le previsioni del governo, la quota del PIL [prodotto interno lordo] destinata all'istruzione dovrebbe diminuire nei prossimi 15 anni. Il ministero dell'Economia e delle finanze (MEF) stima che la quota di PIL spesa per l'istruzione scenderà dal 3,5 % nel 2019 al 3,1 % nel 2035, riflettendo il calo demografico (MEF, 2019)».
Si può capire che l’Italia, un Paese che non cresce economicamente da molti anni, non abbia sufficienti risorse per tutto; ma trovo sconcertante che il governo e la maggioranza del parlamento non si rendano conto che la situazione non potrà che peggiorare se non si invertirà «in modo radicale la tendenza» di cui parlava Fioramonti. Le risorse si possono trovare, dunque bisogna trovarle. L’Italia, che già investe da anni meno degli altri Paesi europei competitori, deve recuperare posizioni nei confronti della Germania, della Francia, della Svizzera, del Regno Unito, che investono quote di PIL superiori, se non vorrà continuare a restare in fondo alla scala. Infatti non ci potrà essere più crescita senza una maggiore occupazione (con adeguati incentivi) e una migliore formazione orientata all’occupazione, ossia «utile».
Qualcuno potrebbe obiettare che l’Italia vanta numerosi centri di eccellenza in campo universitario e della ricerca, per cui la situazione non è poi così disastrosa come certuni ipercritici la dipingono. E’ vero, non bisogna fare del catastrofismo, ma le critiche sono orientate a far migliorare la situazione perché tutti i Paesi menzionati sopra investono più dell’Italia nella formazione e nella ricerca e presentano indicatori occupazionali più positivi, con tassi di disoccupazione oscillanti fra il 2,3% della Svizzera e il 6,8% della Francia (Italia 10,2%) e una disoccupazione giovanile notevolmente inferiore a quella italiana. 

L’esempio svizzero
Sono convinto che il sistema formativo italiano invertirà radicalmente la tendenza negativa denunciata da Fioramonti non solo quando troverà gli investimenti necessari, ma anche quando sarà maggiormente orientato in senso economico. Non si tratta di rinunciare alle tradizionali finalità umanistico-culturali della scuola ma di aggiungere all’insegnamento la qualità di essere «utile» e, immediatamente o nell’arco di breve tempo, «utilizzabile». Non è un buona scuola quella che crea disoccupati o emigrati per l’assenza nella regione di sbocchi professionali corrispondenti alla formazione acquisita.
In questo senso, nel precedente articolo, ritenevo che il sistema svizzero potrebbe essere studiato e preso in considerazione. Se in Svizzera la disoccupazione giovanile è bassa e di breve durata non lo si deve solo allo sviluppo dell’economia, ma anche al tipo di formazione ricevuta e al coinvolgimento di tutte le parti interessate. Anche in questo Paese sono considerati elementi fondamentali lo sviluppo della personalità, le competenze sociali, la cultura generale, ecc., ma non rappresentano l’obiettivo della formazione. Questo è dato fondamentalmente dalla professione che si vuole esercitare, quella di medico, avvocato, insegnante, o meccanico, programmatore, impiantista, giusto per fare qualche esempio. La scelta non avviene solo in base alle aspirazioni personali, ma anche tenendo conto delle reali possibilità d’impiego al termine della formazione.
Formazione e professione, un binomio inscindibile.
Qui non c’è competizione tra liceali e apprendisti, perché entrambe le categorie sanno che alla fine del percorso potranno esercitare la professione scelta, quella, in generale, che offre maggiori opportunità nella regione in cui avviene la formazione. Per questa ragione ci sono Cantoni fortemente industrializzati in cui prevalgono gli apprendisti di professioni richieste dall’industria, Cantoni prevalentemente agricoli in cui gli apprendistati sono orientati soprattutto alle attività del settore primario e alla trasformazione dei prodotti agricoli e Cantoni urbani in cui prevalgono gli studenti perché è più facile trovare un impiego nelle banche, nelle assicurazioni, nell’insegnamento, nella ricerca.
Ribadisco anche che il sistema formativo svizzero, pur essendo finalizzato ad assicurare gli sbocchi professionali di cui hanno bisogno la società e l’economia svizzera, cerca anche di valorizzare al massimo le capacità individuali. Nella filiera della formazione professionale è possibile acquisire profili professionali specifici e riconosciuti dopo una formazione di due, tre o quattro anni, ottenere la maturità professionale e accedere alle scuole universitarie professionali. Nella filiera della formazione umanistico-scientifica, il percorso è più lineare ma generalmente più lungo. In Svizzera due terzi dei giovani segue la filiera della formazione professionale, un terzo la filiera che culmina con un titolo universitario.
Infine, non credo che il sistema formativo svizzero sia esportabile, ma so che molti Paesi lo tengono in considerazione. So anche che in Svizzera funziona discretamente bene sia nella filiera professionale che in quella accademica. Non potrebbe funzionare, con i dovuti adeguamenti, anche in Italia?
Giovanni Longu
Berna, 15.01.2020