20 novembre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 34. Il CISAP – Lo strappo


Spesso, nei racconti anche recenti dell’immigrazione italiana in Svizzera nel periodo considerato (1950-1970), si pone l’accento su alcuni aspetti negativi, per esempio le iniziative antistranieri, i bambini «clandestini», le discriminazioni, l’alloggio in certe baracche indecenti, ecc. Raramente vengono invece evidenziati gli aspetti positivi delle relazioni tra svizzeri e immigrati, ben più rilevanti di quelli negativi, come la stessa possibilità di lavorare e percepire un salario dignitoso, la stima degli imprenditori e del governo per il lavoro svolto, gli sforzi di molti politici e sindacalisti, delle chiese e almeno di una parte della stampa per migliorare le condizioni generali degli immigrati, l’impegno del governo per adeguare le basi legali e regolamentari alle esigenze di una politica immigratoria più umana, l’adeguamento del sistema scolastico svizzero per poter integrare i bambini stranieri, la disponibilità di molte famiglie svizzere a favorire il dialogo e la comprensione reciproca, ecc. 

Copertina dell'opera curata da G. Longu per i 20 anni del CISAP (1986)
Non solo «braccia»
Non è vero che gli anni Sessanta e Settanta sono stati caratterizzati soprattutto dalla xenofobia, perché proprio in quegli anni è iniziata anche la svolta della politica immigratoria svizzera e la collettività emigrata è cresciuta non solo in quantità, ma anche in qualità. Se prima gli immigrati erano considerati soprattutto «braccia», dagli anni Sessanta cominciarono ad essere considerati persone, con sentimenti ed esigenze, con doveri e diritti imprescindibili. Se c’erano alcuni nazionalistici fanatici che volevano cacciar via gli italiani, erano molti di più quelli che li invitavano a restare, sapendo di non poterne fare a meno.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono stati quelli in cui la prima generazione ha lavorato sodo, si è sacrificata e ha indicato la strada da seguire per consentire alla seconda generazione una vita migliore e, soprattutto, la possibilità di studiare, integrarsi ed entrare nella vita attiva alle stesse condizioni di partenza dei coetanei svizzeri. Purtroppo di questi aspetti si parla poco, pur essendo stati decisivi per il livello raggiunto nei decenni successivi dagli italiani (e dall’italianità) in questo Paese. Anche per questo il CISAP merita di essere ricordato.

I corsi della CLI e la necessità dello «strappo»
In quel periodo (cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/11/immigrazione-italiana-1950-1970-33-il.html), la CLI di Berna era molto attiva nel cercare di fornire informazioni e conoscenze utili all’inserimento professionale degli immigrati, ma non sufficienti per competere con gli svizzeri nello svolgimento di un lavoro qualificato e per garantire un buon inserimento sociale. Per raggiungere quel livello ci sarebbe voluto ben altro, proprio quello che immaginava il responsabile della Commissione culturale della CLI, Giorgio Cenni, ossia un vero e proprio centro di formazione professionale e sociale staccato e indipendente dalla CLI.
Giorgio Cenni, ideatore del Centro CISAP
Che non si trattasse, tuttavia, di pura immaginazione o di un sogno destinato a dissolversi al primo impatto con la realtà, ma di un progetto complesso, ben strutturato, serio e realizzabile lo avrebbero dimostrato nel giro di pochi anni gli apprezzamenti di una parte consistente della stessa CLI di Berna, delle autorità italiane e svizzere, del maggiore sindacato di categoria, la FOMO (Federazione operai metallurgici e orologiai»), e soprattutto degli immigrati.
Il primo sostegno al progetto giunse da una parte della CLI, dopo accese discussioni che vide i membri spaccarsi praticamente in due gruppi, uno nettamente favorevole e l’altro decisamente contrario. Quest’ultimo vedeva nell’idea stessa di attuare i corsi in una struttura diversa dalla CLI un «tradimento» che andava sanzionato con l’espulsione dei responsabili. Il gruppo dei favorevoli riteneva, invece, che il disegno elaborato da Cenni non si sarebbe mai potuto realizzare senza uno «strappo» dalla CLI sia per la complessità del progetto e sia per la pregiudiziale anticomunista delle autorità e dei sindacati svizzeri (e in parte anche delle autorità italiane) che consideravano la Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera (FCLIS) troppo legata al PCI.

La pregiudiziale anticomunista
Poiché uno strappo sarebbe stato doloroso, si cercò di rimandarlo il più possibile. Nel 1965, tuttavia, con l’organizzazione di un primo «corso di telefonia per operai italiani» in collaborazione con la Gewerbeschule di Berna apparve chiaro che le iniziative della CLI avevano raggiunto il limite. Con le sue sole forze non si sarebbe potuto andare oltre.
Il cambiamento diventava sempre più urgente perché il sostegno fondamentale delle autorità italiane, abbastanza ampio fino ad allora, stava per venir meno e senza di esso sarebbe stato impossibile ottenere anche quello delle autorità svizzere. I rapporti col console di Berna Antonio Mancini avevano cominciato a deteriorarsi già nel 1964 ed erano divenute insanabili l’anno seguente, quando alcuni dirigenti della CLI di Berna e della FCLIS accusarono ripetutamente il console di «inaccettabili manovre» miranti a «isolare la nostra Federazione» e a favorire aggregazioni di diverse associazioni, escludendo le CLI, per svuotarne l’opera.
Per la Commissione culturale della CLI di Berna i rapporti col Consolato andavano invece mantenuti e possibilmente rafforzati, anche come condizione indispensabile per poter instaurare proficui contatti con le istituzioni svizzere. Per i sostenitori del futuro Centro lo strappo dalla CLI diveniva sempre più inevitabile.
Nel frattempo dev’essere apparsa sempre più evidente anche un’altra ragione per lo strappo, la pregiudiziale anticomunista delle autorità svizzere e pure di quelle italiane come riverbero della contrapposizione in Italia tra la Democrazia cristiana (DC) e il Partito comunista italiano (PCI). Si trattava di una ragione seria, perché si sapeva che la polizia federale vigilava sulle attività di molte organizzazioni di sinistra, soprattutto italiane (e spagnole) e che anche le Colonie libere erano sorvegliate (inclusa quella di Berna) e alcuni suoi attivisti erano sicuramente schedati. Mai e poi mai gli svizzeri avrebbero sostenuto (anche finanziariamente) un’attività svolta da una istituzione sospettata di dipendenza dal PCI.

Altre considerazioni
E’ probabile che Giorgio Cenni, responsabile della Commissione culturale della CLI e sostenitore del futuro Centro, sia stato messo in guardia del rischio che correva l’attività culturale e formativa da lui diretta e invitato a metterla al sicuro sganciandola appena possibile dalla CLI.
Lo strappo, tuttavia, non avvenne solo per ragioni di opportunità politica, bensì per considerazioni di carattere ideale e tecnico-organizzativo. Le CLI erano nate come organizzazioni antifasciste e avevano conservato per statuto questo carattere ideologico anche svolgendo altre funzioni. Il Centro che si voleva creare doveva invece coniugare il carattere eminentemente pratico-funzionale (finalizzato all’inserimento professionale) e quello ideale (finalizzato all’inserimento sociale e all’elevazione culturale), prescindendo da ogni considerazione ideologica e partitica.
Nello scantinato e al piano terra di questo stabile
(Berna, Jägerweg 7) il CISAP ebbe la prima sede
In particolare la nuova creazione doveva dimostrare una grande apertura verso tutte le istanze idonee a contribuire al raggiungimento dei due obiettivi principali. Per interventi mirati e incisivi in favore della nuova immigrazione appariva evidente seguire un’altra strategia per coinvolgere almeno le principali istituzioni italiane e svizzere interessate.

Lo strappo finale
Non è dato sapere esattamente quando avvenne lo «strappo», ma dovrebbe collocarsi entro la fine del 1965. Dall’inizio del 1966 si comincia infatti a parlare di «Centro Italiano in Svizzera per l’Addestramento Professionale» con la sigla C.I.S.A.P.
Il primo documento in cui si fa riferimento esplicito al progetto CISAP è del 24 gennaio 1966. Si tratta di una lettera in tedesco inviata dal console Antonio Mancini al signor Max Kuhn, segretario della sezione di Berna del sindacato FOMO, per informarlo delle intenzioni di un gruppo di italiani di costituire un «Centro» gestito da una nuova associazione per organizzare corsi di formazione professionale per lavoratori italiani immigrati. In vista di un approfondimento, il console Mancini invitava il signor Max Kuhn ad una cena di lavoro all’Hotel Bellevue il 28.1.1966 alle ore 20.15.
Il documento è interessante perché fa capire non solo l’accordo che dev’essere intercorso in precedenza tra i promotori del Centro e il console Mancini, convinto sostenitore del progetto, ma anche il desiderio del gruppo promotore di ottenere l’adesione delle principali istituzioni svizzere interessate al problema della formazione professionale degli immigrati.
Come si usa abitualmente in questi casi, alla lettera del console era allegato l’elenco dei componenti del gruppo autocostituitosi «promotore» del Centro da realizzare il più presto possibile: Cenni Giorgio, Ceccato Daniele, Ciardelli Quinto, Chiarello Francesco, De Giorgi Franco, Di Pietro Salvatore, Gonnella Giuseppe, Mino Marcello, Scognamiglio Guido, Vicentini Claudio, Zola Dante, Zanardo Floriano. Con la costituzione di questo gruppo lo strappo finale dalla CLI era evidentemente completato, anche se non ancora pienamente accettato da quest’ultima. (Segue)