13 novembre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 33. Il CISAP – Le origini


Nel periodo trattato (1950-1970) della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera sono stati messi in luce alcuni aspetti quantitativi (flussi, incremento) e qualitativi (condizioni di lavoro, d’abitazione, ecc.) che hanno evidenziato non solo le difficoltà incontrate da molti immigrati nel condurre una vita normale, ma anche dall’Italia nella gestione dell’emigrazione e dalla Svizzera nell’avvio di una nuova politica immigratoria. Si è solo accennato al ruolo attivo degli emigrati/immigrati nei vari processi perché ritenuto sostanzialmente marginale, a parte qualche lodevole eccezione. Una di queste è stata il CISAP, un centro italo-svizzero di formazione professionale per adulti che ha fatto scuola. Per le sue caratteristiche e il suo valore esemplare merita senz’altro un approfondimento.

Esempio da ricordare
Sede centrale del CISAP a Berna (1972)
Il CISAP - inizialmente acronimo di «Centro Italiano in Svizzera di Addestramento Professionale» - è stato per 35 anni (1966-2001) un’istituzione italo-svizzera originale e per alcuni aspetti unica nel campo della formazione professionale per adulti stranieri addetti specialmente al settore industriale. Attivo inizialmente solo nella città di Berna, il suo esempio si diffuse in poco tempo in altre città del Cantone e in seguito anche in altri Cantoni.
Il suo carattere innovativo e l’avvio di una forma di collaborazione italo-svizzera complessa e lungimirante sono stati evidenziati nell’opera CISAP Si cercavano braccia e sono venuti uomini. I vent’anni del CISAP, 1966-1986, a cura di Giovanni Longu (1986). In altre opere più recenti, che pure contengono ampi riferimenti all’attività formativa del CISAP, manca invece del tutto la comprensione dell’originalità e del valore esemplare di questa istituzione.
Eppure, nel contesto della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, il CISAP merita di essere ricordato come un bell’esempio di innovazione e di riuscita in una società chiusa e talvolta ostile nei confronti degli immigrati e in cui questi avevano enormi difficoltà ad integrarsi. Per capire le aspirazioni, le dinamiche e le caratteristiche fondamentali del CISAP è anzitutto indispensabile conoscere meglio l’immigrazione italiana e la società svizzera della prima metà degli anni Sessanta.

Contesto generale: il mondo del lavoro stava cambiando
Nella prima metà degli anni Sessanta, il mondo del lavoro svizzero era in piena trasformazione in seguito a diverse spinte di natura politica, sindacale, sociale e non da ultimo economica. Lo sviluppo economico incontrollato cominciava ad essere contestato non solo da esponenti politici di destra (quelli che daranno vita ai movimenti xenofobi), ma anche da esperti, dai sindacati, da alcune fasce sociali che temevano l’aumento dei prezzi e dallo stesso Consiglio federale. Ma erano anche le grandi imprese a rendersi conto che, per far fronte alla concorrenza internazionale, era necessario intervenire nel sistema industriale svizzero con l’introduzione di tecnologie innovative e nuovi macchinari automatizzati.
In un rapporto del 1963 il Consiglio federale indicava nel ricorso incessante alla manodopera straniera un pericolo per l’economia svizzera e suggeriva ai datori di lavoro di ricorrere maggiormente nelle loro imprese alla razionalizzazione e all’automatizzazione. Da alcuni grandi datori di lavoro il suggerimento dev’essere stato tenuto in considerazione perché dal 1963 (record di arrivi dall’Italia: 153.054, esclusi gli stagionali) il numero di immigrati residenti cominciò a diminuire costantemente: 122.018 nel 1964, 111.863 nel 1965, 103.159 nel 1966, ecc.
Quartiere Tscharnergut. Negli anni ’50 e ’60 Berna conobbe
uno straordinario boom demografico ed edilizio, specialmente
nei quartieri ad ovest della città (Tscharnergut, Gäbelbach,
Schwabgut, Fellergut, Kleefeld, ecc.). La popolazione
raggiunse nel 1963 il suo massimo storico: 167.434 abitanti.
Contemporaneamente si costatava che gli italiani (il gruppo di gran lunga più numeroso degli stranieri) tendevano a fermarsi in Svizzera sempre più a lungo e, soprattutto dopo l’Accordo italo-svizzero del 1964, a sistemare qui anche la famiglia.
Sotto il peso di queste considerazioni, agli inizi degli anni Sessanta cadde il principio della «rotazione» della manodopera estera (introdotto nel dopoguerra per avere vie di fuga in caso di recessione) e le imprese industriali svizzere cominciarono a fidelizzare maggiormente il proprio personale già formato e affidabile. Tanto più che la nuova manodopera disponibile, proveniente dalla fine degli anni Cinquanta sempre più dal sud d’Italia, presentava grosse lacune di formazione e difficoltà di adattamento, e con essa si sarebbe corso anche il rischio di compromettere la qualità della produzione.
In altre parole, sembrava inevitabile assecondare la volontà del governo che mirava alla stabilizzazione della manodopera estera, per stemperare la paura dell’inforestierimento ma anche per assecondare le esigenze dell’economia. Raggiungere tale obiettivo dovette apparire impresa non facile alle autorità federali che si rendevano conto quanto le misure di contingentamento della manodopera estera adottate finora fossero inefficaci. Dal canto loro, molti immigrati non si rendevano invece conto delle difficoltà che avrebbe comportato la scelta di restare in Svizzera più a lungo del previsto, soprattutto in presenza di figli in età scolastica (seconda generazione).

Problemi tra gli immigrati
L’Accordo italo-svizzero del 1964, che prevedeva miglioramenti per gli immigrati italiani e soprattutto la facilitazione dei ricongiungimenti familiari, mentre lasciava presagire che il numero dei residenti sarebbe cresciuto rapidamente, di per sé non facilitava la stabilizzazione che ormai si sarebbe fondata sempre più su alcuni presupposti quali la conoscenza della lingua locale, l’integrazione, buoni salari, ma anche la competenza professionale. Anzi, sarebbe stata questa, secondo gli iniziatori del CISAP, la condizione principale per la stabilizzazione, perché in grado di garantire una certa sicurezza dell’impiego e la base per il continuo aggiornamento professionale.
Poiché, tuttavia, l’economia in forte sviluppo continuava a richiedere manodopera straniera e questa proveniva ormai quasi esclusivamente dal Mezzogiorno, chiunque avesse voluto garantirsi un posto di lavoro durevole, in grado di adattarsi alle fluttuazioni del mercato del lavoro e ai cambiamenti in corso delle tecnologie produttive doveva ormai disporre da subito di una qualifica professionale (casi rarissimi) o procurarsela sul posto.
Alcune autorità consolari e alcune associazioni, soprattutto le Colonie libere italiane (CLI) e le Missioni cattoliche italiane (MCI), affrontarono il problema con molta buona volontà ma mezzi limitati. Nella prima metà degli anni Sessanta vennero organizzati un po’ in tutta la Svizzera corsi di lingua tedesca, di taglio e cucito, di matematica, di tecnologia, di lettura del disegno tecnico e simili. Erano sostenuti, almeno parzialmente, dallo Stato italiano attraverso i Consolati, ma, com’è facile capire, insufficienti ai fini della sicurezza dell’impiego e della stabilizzazione.

Le origini del CISAP
Allievi di un corso di disegno meccanico organizzato dalla CLI
di Berna in una sala del ristorante Waldhorn (foto CISAP)
In questa problematica s’inserisce la nascita del CISAP, avvenuta ufficialmente nel 1966 sul prolungamento delle attività di formazione che venivano organizzate a Berna dalla locale CLI rifondata (perché già nel 1943 ne era stata fondata una) nel 1961.
Le attività di formazione facevano capo alla Commissione culturale, allora diretta da Giorgio Cenni, che riuscì ad avviare in poco tempo un programma di corsi, che suscitò un grande interesse tra i connazionali. Nel «programma scolastico, culturale e sportivo 1963/64» venivano offerti «corsi interamente gratuiti di: matematica, tecnologia, perfezionamento per automeccanici, teorico per montatori-elettricisti, elementare di lingua italiana, disegno meccanico, disegno edile, teorico per elettrauto, tedesco e francese».
L’anno seguente, alla presentazione dei corsi 1964-65 intervennero, oltre al presidente Dante Zola e altri dirigenti della CLI, un rappresentante dell’Ambasciata d’Italia, il nuovo console d’Italia a Berna Antonio Mancini (giunto a Berna nel 1964), rappresentanti di associazioni italiane di Berna, rappresentanti della stampa sindacale.
In quell’occasione Giorgio Cenni non presentò solo i corsi in programma (disegno meccanico, automeccanica, elettrauto e lingue), ma anche un ambizioso progetto di collaborazione con la scuola professionale svizzera locale, lasciando anche intendere che il problema della formazione professionale dei connazionali andava affrontato con maggiori mezzi finanziari e una migliore organizzazione.
I corsi, rievocherà più tardi Giorgio Cenni, si tenevano in alcuni locali di ristoranti, ma le sale non erano sempre disponibili. Stava maturando l’idea di un centro autonomo finalizzato alla formazione professionale dei connazionali. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 13.11.2019