23 ottobre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 31. Gli italiani e i sindacati svizzeri


Nel 1960 i lavoratori immigrati rappresentavano oltre il 20% della popolazione attiva, nel 1970 oltre il 30% e in alcuni rami economici superavano il 50%, ossia una proporzione considerevole. Nonostante questa massa critica teoricamente rilevante, nel periodo considerato (1950-1970) il loro «potere contrattuale» è sempre rimasto quasi nullo. Non riuscivano a partecipare nemmeno alle decisioni riguardanti l’organizzazione del lavoro, i salari, le garanzie assicurative. La spiegazione: «perché gli stranieri non avevano una sufficiente rappresentanza sindacale», è vera, ma insufficiente. Per essere soddisfacente, anche se non esaustiva, è necessario esaminare la complessa situazione degli immigrati italiani nei primi decenni del dopoguerra e il loro difficile rapporto con i sindacati svizzeri.

La situazione generale
Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1970 la crescita del numero di stranieri residenti in Svizzera è stata costante. In cifre assolute essi sono passati da 285.446 a 1.080.076, in cifre relative dal 6,1% al 17,2% dell’intera popolazione residente. Allo sviluppo numerico non è però corrisposto un altrettanto sviluppo della loro forza contrattuale e dei loro diritti. Lo statuto di «immigrato» non prevedeva una tale crescita, anzi la impediva. D’altra parte, per lungo tempo gli immigrati non hanno mai cercato di superare con strumenti adeguati gli impedimenti.
Nell'immaginario collettivo svizzero l’immigrato era un lavoratore straniero impiegato provvisoriamente in Svizzera, un lavoratore ospite, un «Gastarbeiter» che prima o poi doveva tornarsene al proprio Paese. Gli unici diritti che aveva erano quelli previsti dal contratto di lavoro e dagli accordi internazionali. Ma non aveva i mezzi, né individualmente né collettivamente, per esigere che almeno quelli fossero pienamente rispettati.
E’ vero che anche i lavoratori immigrati avevano la possibilità di ricorrere ai tribunali, ma come potevano preparare un ricorso e affrontare un giudizio? Si sapeva che i sindacati erano preposti alla difesa dei diritti dei lavoratori, ma nei loro confronti gli immigrati erano scettici e perciò poco sindacalizzati. Gli italiani, che costituivano il gruppo straniero più numeroso, potevano anche riferirsi alle autorità diplomatiche e consolari e ad alcune organizzazioni di tutela, ma già contattarle era problematico e un eventuale loro intervento avrebbe richiesto una documentazione ben circostanziata difficile da fornire. 

La situazione lavorativa
La condizione dell’emigrato era oggettivamente difficile. Del resto non va dimenticato che a quell'epoca le stesse donne svizzere non avevano ancora il diritto di voto a livello federale, che sarà loro concesso solo nel 1971. Ma fu probabilmente un errore fatale non aver aderito in massa ai sindacati. Alle rivendicazioni degli italiani (parità di trattamento salariale rispetto ai colleghi svizzeri, garanzia di non essere licenziati per primi in caso di crisi, migliori condizioni abitative, ricongiungimento familiare, ecc.) difficilmente avrebbero risposto negativamente, anche tenendo conto che la congiuntura economica era allora particolarmente favorevole e si reggeva anche grazie al lavoro degli stranieri.
I sindacati sapevano infatti benissimo che la percentuale degli stranieri addetti all'industria, allora il settore trainante dell’economia svizzera, già elevata nel 1960 (24%), nel 1970 aveva raggiunto il 36% e in alcuni rami economici superava il 50%. Nell'industria tessile, per esempio, la percentuale era poco al di sotto del 50%, ed era particolarmente alta nella ristorazione (75% dei camerieri) e nel ramo alberghiero (75% delle cameriere), con punte dell’86% tra il personale ausiliario di cucina. Nelle costruzioni la percentuale superava il 60% (61% dei muratori, 73% dei manovali). Nell'industria delle macchine era straniero il 70% dei saldatori. Nella metallurgia gli stranieri addetti alle fonderie sfioravano il 100%.
La maggior parte (oltre il 60%) di questi stranieri attivi era rappresentata dagli italiani (1960: 346.223; 1970: 583.855). Sarebbe stato possibile ai sindacati svizzeri non sostenere le loro rivendicazioni se fossero stati iscritti? Certamente no. Perché, dunque, non si iscrissero? E perché i sindacati trascurarono a lungo il potenziale di iscritti stranieri? Perché non si resero conto che la loro adesione andava favorita fin dagli anni Cinquanta, quando molti italiani che avevano conosciuto le lotte sindacali del dopoguerra in Italia, si rendevano certamente conto dell’indispensabile sostegno sindacale per ogni conquista in campo economico e sociale?

Diffidenza verso i sindacati
Non è facile rispondere a simili domande, ma qualche spiegazione è doverosa. In alcuni documenti e in alcune narrazioni si dà come risposta all'esitazione degli italiani ad iscriversi ai sindacati il proverbiale senso del risparmio dell’emigrato, disposto a privarsi anche di cose utili ma non necessarie per accumulare il famoso gruzzolo da portarsi a casa al termine della sua esperienza emigratoria. Si tratta di una risposta plausibile, ma non sufficiente. Il sindacato, infatti, da molti immigrati era ritenuto addirittura inutile e di parte, allineato sulle posizioni padronali, poco interessato alle problematiche dei lavoratori stranieri e propenso a difendere soprattutto i lavoratori svizzeri.
In realtà i sindacati svizzeri non hanno mai escluso esplicitamente dai loro interessi i lavoratori stranieri, anzi, come risulta da un rapporto del 1948, hanno sempre rivendicato ufficialmente di voler rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori. Nel 1966, il settimanale FOMO della «Federazione degli operai metallurgici e degli orologiai», in un editoriale intitolato «Fraternità sindacale», lanciava un appello ai militanti per interessarsi maggiormente della «manodopera ospite». Nella pratica, tuttavia, agli occhi degli stranieri i sindacati difendevano sempre prioritariamente gli interessi degli svizzeri.
Del resto, anche quando apparentemente sembravano preoccupati che gli immigrati potessero assumere contratti di lavoro non conformi a quelli stabiliti dai contratti collettivi di lavoro (in relazione soprattutto, al salario minimo, alla durata del lavoro e alle tutele), i sindacati non facevano che difendere gli interessi degli svizzeri. Volevano infatti evitare che i lavoratori stranieri venissero usati per comprimere in generale i salari, anche quelli degli svizzeri.

I sindacati e gli stranieri
L’atteggiamento dei sindacati verso gli stranieri era giustificato, dal loro punto di vista, perché si sentivano obbligati a difendere prioritariamente gli interessi degli affiliati e purtroppo gli stranieri non lo erano perché non pagavano i contributi sindacali. Poiché però le conquiste sociali andavano a beneficio di tutti, i sindacati cercarono di far pagare anche a loro un contributo di solidarietà.
Inoltre, dal 1948 (anno del primo accordo italo-svizzero d’immigrazione) consideravano gli immigrati, in quanto soprattutto stagionali, meno stabili degli operai svizzeri e pertanto anche meno interessati all’azione sindacale. E’ probabile che questa considerazione abbia frenato l’attività di sensibilizzazione e di reclutamento degli stranieri.
E’ possibile ma improbabile che i sindacati svizzeri non si rendessero conto dell’immagine negativa che trasmettevano agli stranieri, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, con le loro scelte di evidente difesa prioritaria degli interessi degli svizzeri. Perché dunque, al di là delle affermazioni ufficiali d’interessarsi a tutti, non cercavano almeno di motivare chiaramente tali scelte? Quando i sindacati dichiaravano di voler proteggere il mercato del lavoro svizzero proteggendo in primo luogo i propri membri svizzeri, non si rendevano conto di fare un torto a quella parte importante costituita dagli stranieri, senza la quale anche l’altra parte sarebbe crollata?

Quanto ha pesato la paura della Überfremdung?
E’ difficile dare delle risposte certe, ma non si può escludere che anche nel sindacato si fosse insinuato il pregiudizio che la minaccia più pericolosa potesse venire da un eccesso d’immigrazione. E’ invece certo che in alcuni ambienti sindacali si aveva paura che aprendo facilmente le porte agli stranieri (italiani) si correva il rischio d’infiltrazioni comuniste, per cui era opportuno tenere gli occhi bene aperti e non sollecitare affatto un’adesione in massa degli immigrati.
Questi atteggiamenti, facilmente documentabili, spiegano quanto insistentemente, fin dagli inizi degli anni Sessanta, il sindacato chiedesse al governo federale d’intervenire per limitare l’immigrazione. Del resto anche nel linguaggio sindacale degli anni Sessanta è spesso presente il termine Überfremdung, inforestierimento.
Sorge pertanto il dubbio, a questo punto, se non sarebbe stato più vantaggioso per il sindacato, negli anni Sessanta, più che lottare contro l'inforestierimento contrastare con ogni mezzo la xenofobia crescente perché, quella sì, rappresentava un vero pericolo. Contemporaneamente sarebbe stato certamente utile coinvolgere tutti gli stranieri già iscritti al sindacato in un’azione determinata e mirata alla sindacalizzazione del maggior numero possibile d’immigrati, facendo loro comprendere che la migliore difesa dei propri diritti sociali poteva essere garantita dal sindacato meglio che da qualunque altra organizzazione.
Solo lentamente, negli anni Settanta, l’atteggiamento dei sindacati verso gli stranieri comincerà a mutare radicalmente e anche gli immigrati cominceranno a partecipare più attivamente alla vita sindacale.
Giovanni Longu
Berna 23.10.2019