27 settembre 2019

Manifestazioni per il clima e sviluppo sostenibile


Oggi, 27 settembre, si manifesta in tutto il mondo per la salvaguardia del clima e dell’ambiente. Sono soprattutto le organizzazioni giovanile che le promuovono in molte parti del mondo. A loro bisogna dare atto di grande maturità e coraggio per essersi spinti fino all’Assemblea delle nazioni Unite per sensibilizzare maggiormente i potenti della terra sui rischi dei mutamenti climatici se non si prendono in tempo contromisure appropriate. 

Manifestazioni …
In realtà, da molto tempo gli scienziati lanciano l’allarme sui rischi di un eccessivo e sconsiderato sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili, sul riscaldamento del pianeta, ecc. Ricordo di essere stato profondamente impressionato da una conferenza promossa dal Club di Roma a Berna agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, in cui si pronosticavano non solo la fine del petrolio entro pochi decenni (sbagliandosi), ma anche (senza sbagliarsi) i rischi connessi al consumo spregiudicato delle materie prime, al crescente inquinamento, al divario Nord-Sud, ecc.
Certamente anche i politici (o almeno una parte) si rendono conto da tempo dei rischi che l’intera umanità corre se non si interviene con misure adeguate (contro l’effetto serra, l’uso eccessivo della platica, ecc.), ma i governi sono talmente concentrati sulle politiche a corto e a medio termine, che sono restii a intraprendere politiche di ampio respiro e a lungo termine. E’ auspicabile che la scossa dei giovani ecologisti che manifestano oggi in tutto il mondo faccia cambiare idea e prospettiva politica a molti Stati.
Da alcuni decenni anche i comuni cittadini avvertono che gli equilibri naturali conosciuti finora si stanno alterando ed è per questo che le richieste ai governi si fanno ovunque più pressanti. Al riguardo, tuttavia, mi sorge un dubbio: è possibile che la situazione a livello mondiale migliori soltanto con un saggio mutamento delle politiche nazionali e internazionali sul clima? 

… e responsabilità
Ho paura di no e mi spiego. Si parla molto dei mutamenti climatici (pur sapendo che non dipendono unicamente dai comportamenti umani), del riscaldamento della terra, della fusione dei ghiacciai, dei pericoli della deforestazione, ecc., ma si parla troppo poco di sviluppo sostenibile, che è quello che potrebbe e dovrebbe responsabilizzare maggiormente non solo gli Stati ma anche gli individui. 
Già il Club di Roma parlava di «moderare gli stili di vita», ma sono tante le azioni ordinarie in cui è possibile evitare gli sprechi (non solo alimentari), ridurre i consumi (per esempio di acqua, luce, gas, plastica), utilizzare i mezzi pubblici invece di quelli privati, differenziare i rifiuti, investire maggiormente nella formazione continua, evitare comportamenti nocivi alla salute, ecc.).
Il tema mi sembra talmente importante che mi propongo di approfondirlo in altra occasione, ma sin d’ora merita almeno un primo richiamo al concetto fondamentale, che risponde ad un autentico e profondo senso di giustizia umana e generazionale: lo sviluppo sostenibile è quello che riesce a soddisfare le esigenze attuali, senza pregiudicare alle generazioni future la possibilità di soddisfare le proprie.
Aggiungo solo che lo sviluppo sostenibile presuppone fra l’altro la consapevolezza che il mondo in cui viviamo non ci appartiene, ma lo abitiamo soltanto, che possiamo utilizzarlo ma non distruggerlo, che i diritti che abbiamo noi sulle risorse della terra sono gli stessi che hanno anche tutti gli altri esseri umani (compresi quelli che cercano asilo nei nostri Paesi), quelli che convivono oggi con noi e quelli che verranno dopo di noi. Per tutti, presenti e futuri, la Terra è la nostra unica «casa comune», non c’è una seconda terra e una seconda casa. Dobbiamo cercare di convivere tutti pacificamente.
Il mondo sarebbe più bello, più pacifico (meno guerre), più stabile (meno migrazioni), più giusto (meno corruzione) se i Paesi più ricchi versassero parte della loro ricchezza ai Paesi più poveri affinché anch’essi potessero svilupparsi in maniera sostenibile.
Giovanni Longu Berna, 27.09.2019


25 settembre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 27. Schwarzenbach e gli italiani (4a parte)

Con l’accordo italo-svizzero del 1964 sull’emigrazione/immigrazione, l’Italia aveva raggiunto un buon risultato dopo una difficile trattativa; persino l’opposizione comunista, generalmente molto critica nei confronti dei governi a guida democristiana, l’approvò quasi all’unanimità. Lo stesso accordo generò invece in Svizzera, in alcuni ambienti politici e sindacali e soprattutto tra la popolazione del ceto medio-basso, una diffusa insoddisfazione. Si consideravano le concessioni agli stranieri un cedimento a danno dei lavoratori svizzeri. Ne nacque, fra l’altro, l’iniziativa Schwarzenbach che diffuse in tutta la Svizzera sentimenti xenofobi. Nonostante il rigetto dell’iniziativa (7 giugno 1970) da parte del popolo svizzero, il problema degli stranieri rimase aperto, provocando reazioni differenti dai tre principali interessati: movimenti xenofobi, governi e immigrati (italiani). 

Votazione del 7.6.1970: prime reazioni
Netto NO all'iniziativa Schwarzenbach.
La prima reazione «a caldo» dopo lo spoglio dei risultati dev’essere stata di sollievo per tutti, perché la grande paura era passata. Persino Schwarzenbach, considerato ad una prima lettura dei risultati (654.844 NO e 557.517 SI all’iniziativa) l’unico vero perdente, dev’essersi sentito un po’ sollevato dal rischio, in caso di vittoria, di essere additato non solo dagli stranieri ma anche da moltissimi svizzeri come il nemico numero uno. Del resto, Schwarzenbach, lungi da sentirsi perdente, si considerava soddisfatto che la sua iniziativa avesse ottenuto oltre mezzo milione di consensi (su 1.212.361 voti validi), nonostante fosse stata osteggiata da tutto l’establishment (Parlamento, Governo, chiese, organizzazioni padronali e sindacali, ecc.) e dai media.
Il popolo svizzero, che poteva apparire il vero vincitore, deve aver tirato un sospiro di sollievo perché non avrebbe sopportato a lungo una contrapposizione così combattuta e per molti incomprensibile (inforestierimento? quote? Schwarzenbach?) tra sostenitori e oppositori dell’iniziativa.
Gli immigrati si sentivano tranquillizzati perché la grande paura di essere cacciati era finita e potevano disfare le valige già pronte, ma senza fare salti di gioia sapendo che quasi la metà degli svizzeri dimostrava di non gradirli benché utili.
Provarono un senso di liberazione anche i due governi maggiormente coinvolti, quello federale e quello italiano, perché il primo aveva evitato la «vergogna che sarebbe derivata alla Confederazione da un voto razzista, ingeneroso e disumano» (Libera Stampa, 8.6.1970) e il secondo perché poteva mantenere tranquillamente in Svizzera l’intera colonia di oltre 700.000 persone, tra domiciliati, residenti annuali, stagionali e frontalieri, senza doversi preoccupare di un’eventuale rimpatriata forzata di 300.000 connazionali (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/09/immigrazione-italiana-1950-1970-26.html).

Analisi dei risultati
Ad una analisi più attenta dei risultati fu però facile rendersi conto che il rigetto dell’iniziativa non significava che la maggioranza degli svizzeri avesse cambiato opinione sugli stranieri o che fosse già in atto una nuova politica immigratoria del Consiglio federale.
Quanto al popolo svizzero, appariva sempre più chiaro che la maggioranza dei votanti aveva bocciato l’iniziativa più per calcolo che per considerazioni politiche (inforestierimento) e meno ancora umanitarie. E’ verosimile che andando a votare il 7 giugno 1970 molti svizzeri abbiano pensato più ai rischi che correvano accettando l’iniziativa che all’ideologia dell’inforestierimento, a ciò che pensava Schwarzenbach, alle quote, all’assimilazione/integrazione degli stranieri.

I risultati a livello cantonale e comunale mostravano infatti che l’iniziativa era stata respinta soprattutto dai Cantoni dove più alta era la percentuale degli stranieri e dove era concentrata l’attività produttiva, che garantiva lavoro e benessere anche agli svizzeri. Se da quei Cantoni fossero partiti 300.000 stranieri anche l’occupazione indigena ne avrebbe sofferto.
Quanto fosse fondata la preoccupazione di molti svizzeri, lo dimostrano alcune cifre. Gli stranieri residenti attivi (657.054) erano addetti per il 67% nell’industria (donne: 51%, uomini: 75%), mentre la proporzione degli svizzeri scendeva al 48% (donne: 34%, uomini: 56%). Ancora, a differenza degli svizzeri, distribuiti in tutte le attività produttive, gli italiani erano concentrati soprattutto nelle grandi imprese situate nelle agglomerazioni urbane.
Alcuni Cantoni avrebbero dovuto privarsi di migliaia di lavoratori stranieri perché superavano la quota massima del 10% prevista dall’iniziativa, per esempio il Ticino (dove gli stranieri erano il 27,5%), Vaud (22,6%), Neuchâtel (21,7%), Sciaffusa (19,1%), Zurigo (19,0%), Basilea Campagna (18,9%), Basilea Città (17,6%), ecc.
Molte aziende industriali, ma anche di servizi (alberghi, ristoranti, pulizie, ecc.) non avrebbero avuto la possibilità di continuare a fornire gli stessi beni e servizi. Molte avrebbero chiuso, lasciando a casa i dipendenti rimasti, compresi quelli svizzeri. Anche grandi fabbriche come la Sulzer di Winterthur avrebbero incontrato serie difficoltà a mantenere la produzione se fosse andato via il 75% dei tornitori o il 93% degli addetti alle fonderie.

Considerazioni «a freddo»
Col tempo le prime reazioni lasciarono il posto a considerazioni più articolate sul futuro. Infatti, se si poteva gioire dello scampato pericolo, i numerosi problemi che quella votazione sollevava aspettavano soluzioni efficaci e condivisibili. Che fine avrebbero fatto i movimenti xenofobi? Come sarebbe cambiata la politica immigratoria del Consiglio federale? Il governo italiano avrebbe finalmente cominciato a creare in patria le condizioni per evitare gli espatri?
I movimenti xenofobi erano stati vinti ma non annientati e molto probabilmente avrebbero proseguito la lotta contro l’inforestierimento.
La stampa italiana diede ampio rilievo alla votazione del 7.6.1970
Anche il popolo svizzero, lungi dall’essere considerato vincitore, usciva dalla competizione frantumato. I risultati cantonali e comunali della votazione avevano evidenziato le profonde divisioni esistenti nella società svizzera tra città e campagna, svizzeri tedeschi e svizzeri latini, Cantoni industriali e Cantoni rurali. Occorreva evitare che il tema degli stranieri contribuisse ad aggravare le spaccature.
I due principali governi interessati, quello svizzero e quello italiano, si trovavano di fronte a sfide difficili e impegnative da affrontare perché occorreva ripensare l’intera politica migratoria, dare risposte soddisfacenti alle pressanti richieste degli immigrati, approntare adeguati strumenti d’integrazione per le seconde generazioni.
Per gli immigrati italiani (che costituivano allora il 54,1% degli stranieri), avendo costatato di non essere graditi, ma al massimo sopportati, si trattava soprattutto di verificare la propria disponibilità a continuare l’esperienza migratoria integrandosi nella società ospite o decidere d’interromperla e rientrare in patria. Dilemma di non facile soluzione quando la scelta coinvolgeva figli in età scolastica o di formazione professionale, non si conosceva sufficientemente la lingua locale, mancavano i contatti e il clima generale non sembrava favorevole.

Reazione del governo svizzero
Dall’analisi dei risultati della votazione al Consiglio federale apparve chiaro che la maggioranza del popolo svizzero confermava la politica restrittiva del governo in materia di immigrazione, ma chiedeva anche un maggiore impegno teso a favorire la partecipazione e l’integrazione degli stranieri residenti stabilmente.


Già il giorno successivo alla votazione, il Consiglio federale incaricò il Dipartimento di giustizia e polizia, d’intesa col Dipartimento dell’economia pubblica, di esaminare i problemi sociali riguardanti gli stranieri. Nel luglio 1970 istituì una Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri (CFS) per consigliare il governo su questioni legate alla presenza degli stranieri in Svizzera nell’ambito sociale, economico, culturale, politico, giuridico, ecc. Per la legislatura 1971-1975 indicava chiaramente alcune linee direttive per promuovere l’integrazione (anche se allora si parlava ancora di «assimilazione»): «Tale assimilazione esige da parte della popolazione svizzera uno sforzo di comprensione per la particolare mentalità degli immigrati e, dalla parte di quest'ultimi, volontà d'adeguamento alle nostre condizioni di vita e alle nostre istituzioni sociali. Occorre segnatamente che si stabiliscano rapporti reciproci, che gli immigrati abbiano a beneficiare di pari possibilità in quanto concerne la formazione scolastica, il perfezionamento professionale e l'abitazione e che siano umanizzati i rapporti con le autorità».
Il Consiglio federale si rendeva conto che nella sua azione sarebbe stato incalzato in Parlamento e nella piazza da Schwarzenbach e dai movimenti xenofobi, ,ma la linea da seguire appariva ormai chiara. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 25.09.2019