24 luglio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 21. La prima generazione e la formazione


Fino a pochi decenni fa, le generazioni dei migranti italiani verso la Svizzera sono state quasi sempre caratterizzate da importanti carenze di istruzione scolastica e di preparazione professionale. Lo furono quelle del XIX secolo e inizio del XX, ma anche quelle del secondo dopoguerra, pur con molte eccezioni. Solo in questi ultimi decenni si registra un’immigrazione di persone con un livello medio-alto di formazione.

Situazione nel dopoguerra
All’inizio del secolo scorso, il commissario all’emigrazione del Regno d’Italia Giuseppe De Michelis nel 1903 lamentava che tra gli italiani ci fossero molti analfabeti che non potevano occuparsi dell’istruzione loro e dei loro figli. Una situazione analoga si ripresentò nel secondo dopoguerra con l’immigrazione di massa prevalentemente dal sud, sebbene il tasso di scolarizzazione avesse raggiunto nel 1950 in Italia quasi il 100 per cento della popolazione. Ciononostante, tra gli immigrati in Svizzera si contavano ancora nel 1970 numerosi analfabeti e per la stragrande maggioranza (circa il 70%) la formazione si era fermata al grado primario.
Negli anni Sessanta molti immigrati tornarono
responsabilmente sui banchi di scuola...
Allora l’economia svizzera richiedeva molta manodopera anche non qualificata o poco qualificata e le conoscenze scolastiche e professionali specifiche per molte attività non erano indispensabili. Del resto, tutti riuscivano a convivere senza drammi con il proprio grado d’istruzione e la non conoscenza della lingua locale. Anche gli analfabeti potevano contare sull’aiuto di amici (spesso corregionali), delle Missioni cattoliche italiane (MCI) e di qualche associazione.
Fin dalla metà degli anni Cinquanta, tuttavia, alcune associazioni e lo stesso ambasciatore d’Italia Egidio Reale si resero conto che la crescente popolazione italiana in Svizzera aveva bisogno di un sostegno culturale da parte dello Stato italiano e di interventi scolastici strutturali per rafforzare la lingua e la cultura italiane nelle seconde generazioni. Solo nel 1971 si giunse ad approvare la legge 153 che istituiva i corsi di lingua e cultura italiane.
... e nei laboratori/officine per apprendere un mestiere
secondo le esigenze svizzere (Foto CISAP)
Nel frattempo, basandosi su un decreto regio del 1940, lo Stato italiano sosteneva tutta una serie di iniziative socio-culturali sorte un po’ ovunque negli anni Sessanta per iniziativa soprattutto delle MCI, delle Colonie libere italiane (CLI) e di altre associazioni, consistenti in corsi serali di alfabetizzazione e di preparazione all'ottenimento della licenza di scuola media, corsi di tedesco e di francese, conferenze, proiezioni cinematografiche, rappresentazioni teatrali, manifestazioni canore, ecc.
Negli stessi anni Sessanta vennero organizzati anche corsi orientati alla pratica professionale, corsi di taglio e cucito, di cucina, di lettura del disegno tecnico, di muratura e, dalla seconda metà del decennio corsi veri e propri, teorici e pratici, di formazione professionale specialmente nei rami dell’edilizia e della metalmeccanica. La loro frequenza era tuttavia alquanto limitata perché i corsi (per esempio quelli organizzati dal Centro italo-svizzero di formazione professionale CISAP) richiedevano costanza e impegno e molti immigrati pensavano di non avere nemmeno il tempo necessario per seguirli, essendo intenzionati, così dicevano, a rientrare presto in Italia.

Lo stimolo della seconda generazione
Il problema della formazione degli adulti divenne drammatico negli anni Sessanta (specialmente dopo l’accordo italo-svizzero d’immigrazione del 1964) quando emerse in tutta la sua gravità il problema della scolarizzazione della seconda generazione in forte crescita. Divenuti più facili fin dal 1960 i ricongiungimenti familiari, la seconda generazione s’impose all’attenzione delle autorità svizzere e italiane, dell’associazionismo e dell’opinione pubblica. I figli in età scolastica giunti dall’Italia si sommavano ai bambini italiani nati in Svizzera (oltre 30.000 negli anni Cinquanta e più di 60.000 nella prima metà degli anni Sessanta) sollecitando interventi inderogabili soprattutto in campo formativo.
Purtroppo né le autorità svizzere né le autorità italiane avevano previsto questa vera e propria emergenza, ma soprattutto molti genitori di questi bambini si trovarono impreparati ad affrontare i problemi che sollevavano. Molti adulti si resero conto solo allora dell’importanza di una buona istruzione scolastica, della conoscenza della lingua locale e dei contatti con la popolazione indigena. Tra loro era abbastanza diffuso anche un senso di frustrazione, dovuto alla costatazione di non essere in grado di offrire ai loro figli alcun sostegno scolastico. Le difficoltà incontrate, anche per questo, da numerosi fanciulli della seconda generazione sono note e meritano di essere approfondite. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 24.07.2019