19 giugno 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 18. Meridionalizzazione e nuovi problemi


Negli anni Sessanta l’immigrazione italiana in Svizzera cominciò a meridionalizzarsi. Grazie al boom economico, che assorbiva quasi tutta la manodopera disponibile del nord d’Italia, erano sempre meno i settentrionali che emigravano in Svizzera. Là dove il progresso stentava ad arrivare, nel Mezzogiorno, si continuò invece ad emigrare, anzi i flussi, soprattutto nei primi anni Sessanta, aumentarono in misura impressionante. L’immigrazione italiana in Svizzera si meridionalizzava sempre più, aggiungendo nuovi problemi a quelli già esistenti: contrasti tra gli stessi immigrati, aumento dell’incomunicabilità con la popolazione locale (scarsa conoscenza delle lingue), difficoltà d’inserimento nel mondo del lavoro (impreparazione professionale, scarsa sindacalizzazione) e nella società (disinteresse per l’integrazione), asprezza della lotta politica specialmente alla vigilia delle elezioni in Italia.

Italia: boom economico al nord, emigrazione dal sud
Anche durante il boom economico si continuava ad emigrare...
Sul finire degli anni Cinquanta, lo sviluppo economico italiano ottenne una grande spinta dalla creazione della Comunità economica europea (CEE), istituita con i Trattati di Roma (25 marzo 1957) entrati in vigore il 1° gennaio 1958. L’economia italiana si consolidò e si trasformò profondamente, grazie all’incremento dei consumi interni e alle crescenti esportazioni di beni di largo consumo (automobili, frigoriferi, lavatrici, ecc.) soprattutto nei Paesi della CEE, che favorirono l’occupazione e la diffusione del benessere.

Si parlò di «miracolo economico», dimenticando talvolta di aggiungere che il benessere e la ricchezza si concentravano soprattutto al nord nel famoso «triangolo industriale» Milano-Torino-Genova. Qui industrie e commerci garantivano la piena occupazione, mentre al sud cresceva la disoccupazione. Per rincorrere il benessere, molti meridionali abbandonarono le campagne e cercarono lavoro al nord, dove venivano chiamati in tono dispregiativo «terroni» e considerati un po’ sottosviluppati. Molti emigrarono ancora più a nord, soprattutto in Svizzera e in Germania, dove la manodopera scarseggiava, ma dove non ricevettero una migliore accoglienza.
Purtroppo l’ondata immigratoria degli anni Sessanta, costituita in maggioranza da meridionali, differiva notevolmente da quella dell’immediato dopoguerra. Negli ultimi arrivati il livello d’istruzione era piuttosto basso (molti erano addirittura analfabeti), le conoscenze linguistiche erano scarse, la preparazione professionale specifica era inesistente o comunque non adeguata ai parametri svizzeri. Questa situazione contribuì ad accrescere il divario tra italiani e popolazione locale.

Svizzera: benessere e malcontento
In Svizzera, il persistente sviluppo industriale del dopoguerra richiamava ogni anno dall’Italia decine di migliaia di immigrati. Nella Svizzera interna spesso li chiamavano «Tschingg», perché nel tempo libero pronunciavano spesso cinq giocando alla morra. Erano ormai tanti perché la manodopera indigena scarseggiava: nel 1961, alla fine di agosto si contavano appena 551 persone in cerca d’impiego e decine di migliaia di posti di lavoro liberi. Erano tanti anche perché si trattava di manodopera relativamente a buon mercato. Alcuni datori di lavoro pagavano incentivi ai collaboratori che riuscivano a reclutare colleghi di lavoro.
La crescita della popolazione straniera e di quella italiana in particolare creava tuttavia non poche preoccupazioni nelle autorità (paura dell’inforestierimento e della pressione xenofoba), nei sindacati (paura della concorrenza straniera e della pressione sui salari), nella popolazione (paura di perdere il lavoro, dell’inflazione, dell’aumento delle pigioni), ma soprattutto negli immigrati, che si sentivano sfruttati, discriminati, marginalizzati, abbandonati dall’Italia. 

Interventi maldestri delle autorità italiane e svizzere
Il malcontento di molti immigrati giunse fino a Roma. Portavoce erano soprattutto esponenti comunisti, allora all’opposizione dei governi democristiani. Questi, che non intendevano lasciare all’opposizione la gestione dei problemi migratori, cominciarono a preoccuparsi e intervennero a più riprese tramite i canali diplomatici per ottenere migliori condizioni per gli italiani. Nel 1961 intervenne persino un ministro, Fiorentino Sullo, ma col suo modo di fare arrogante finì per scontentare sia gli svizzeri che gli stessi connazionali.
(CdS) Le espulsioni del 1963 fecero molto scalpore in Italia.
Nel 1963, alcuni gravi episodi di espulsioni per presunta attività «illegale» (propaganda comunista) e di presunti maltrattamenti di lavoratori italiani diedero origine dapprima sulla stampa, soprattutto sull’Unità, e poi nella Camera dei Deputati a una vivace discussione, in cui si parlò addirittura di «persecuzioni» e di gravi violazioni della «dignità» di cittadini italiani all’estero. Non si andò tuttavia oltre la protesta diplomatica e la richiesta della revisione di alcune decisioni. Anche una parte della stampa svizzera (di sinistra) riteneva le espulsioni misure sproporzionate.
Il governo italiano moderò la protesta per un interesse ritenuto superiore, quello di non turbare le buone relazioni tra i due Paesi e di non compromettere gli attuali flussi emigratori verso la Svizzera. La loro interruzione o flessione avrebbe potuto procurare ulteriori disagi agli italiani già emigrati, ma soprattutto al Mezzogiorno, dove era sempre alta la disoccupazione e la voglia di emigrare. Non era tuttavia nell’interesse del governo non reagire affatto per evitare che con la propria inerzia o indifferenza le sinistre (soprattutto il PCI) sfruttassero a proprio vantaggio i rancori e il malcontento degli immigrati.
Anche per la Svizzera i rischi non potevano essere sottovalutati: senza gli italiani alcune attività economiche avrebbero subito danni probabilmente irreversibili e la loro sostituzione con altra manodopera straniera avrebbe posto enormi problemi di reclutamento e d’inserimento nel contesto svizzero in evoluzione. Era dunque nell’interesse di entrambi i governi trovare un’intesa o quantomeno compromessi soddisfacenti almeno sui punti più controversi.

Premesse per un accordo
Nel 1961, riconoscendo il pericolo dell’inforestierimento e dell’avanzata dei movimenti xenofobi, il Consiglio federale aveva nominato un’apposita Commissione di studio incaricata di esaminare i problemi legati alla presenza degli stranieri sotto l’aspetto economico, demografico, sociale e politico. L’oggetto del mandato non erano i problemi degli stranieri, ma i problemi derivanti dalla presenza in Svizzera dei numerosi (forse troppi?) stranieri.
Al governo italiano interessava invece affrontare tutta una serie di problemi riguardanti i connazionali immigrati. Intendeva pertanto negoziare con la Svizzera una nuova convenzione bilaterale riguardante la sicurezza sociale dei lavoratori italiani immigrati e un nuovo accordo generale italo-svizzero per l’emigrazione. Lo scopo era quello di trovare soluzioni adeguate ai vari problemi, ma anche quello di dare possibilmente un nuovo orientamento alla politica emigratoria/immigratoria italo-svizzera.
La richiesta italiana, le pressioni sindacali per una politica immigratoria più restrittiva e soprattutto quelle delle destre xenofobe non rendevano certo facile il compito del governo svizzero, chiamato ad assicurare un difficile equilibrio tra le esigenze (ritenute comunque prioritarie) dell’economia che procurava benessere, i legittimi interessi della popolazione che mal sopportava un aumento sconsiderato di stranieri «in casa propria», ma anche le giustificate rivendicazioni della popolazione italiana immigrata.

1964: l’Accordo che segnò una svolta
Com’è noto (cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2014_10_19_archive.html), nel corso di una lunga trattativa l’Italia preferì rinunciare ad alcune rivendicazioni iniziali, piuttosto che far fallire il difficile negoziato con pretese o richieste esagerate. Anche il Consiglio federale preferì fare alcune importanti concessioni soprattutto sui ricongiungimenti familiari, piuttosto che privare l’economia svizzera di un sicuro approvvigionamento di forza lavoro a buon mercato.
All'orizzonte cominciavano a profilarsi i problemi dell'integrazione.
L’Accordo, firmato a Roma il 10 agosto 1964, doveva avviare a soluzione annosi problemi, ma segnare anche l’inizio di un approccio diverso e lungimirante con i nuovi immigrati, perché nuovi problemi stavano giungendo a maturazione, soprattutto quelli legati alle seconde generazioni, alla loro scolarizzazione, alla formazione professionale, al delicato processo d’integrazione.
A non essere per nulla soddisfatti dell’Accordo furono i movimenti antistranieri, che dalla metà del decennio si dimostrarono campioni nella lotta all’inforestierimento (Überfremdung) e nella xenofobia, contribuendo ad aggravare la difficile convivenza tra la popolazione svizzera e gli stranieri.
«Di fatto l’Accordo del 1964 segnò una cambio di paradigma fondamentale nella politica emigratoria italiana come in quella immigratoria svizzera. L’Italia divenne da allora più attenta alle rivendicazioni degli emigrati italiani […]. La Svizzera pure cominciò a mettere in discussione il principio della «rotazione» (per favorire la stabilizzazione della manodopera piuttosto che sostituirla in continuazione) e a ipotizzare forme d’integrazione, comunque di difficile introduzione per la forte opposizione dei movimenti xenofobi e per la mancanza di modelli, ma anche per le resistenze in seno alla collettività italiana immigrata (si pensi per esempio alla difesa ad oltranza delle scuole italiane)» (https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2017/11/italiani-in-svizzera-30-gli-anni.htm) (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 19.06.2019