08 maggio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970:13. Frustrazioni e speranze


Gli italiani che arrivavano in Svizzera per la prima volta erano spesso ignari della vita e del lavoro da emigrati. Se la visita medica al passaggio della frontiera poteva causare uno shock, le sorprese non finivano lì. Ad attenderli sul luogo di destinazione e di lavoro c’erano le baracche, non sempre preparate e gestite in modo appropriato, c’erano il lavoro, duro e a volte pericoloso, i salari sempre inferiori a quelli dei colleghi svizzeri, la costante sottomissione ai capi, senza poter dire «questo non mi va, è troppo, me ne vado» com’era invece possibile a uno svizzero che poteva decidere di andarsene senza paura di restare disoccupato, c’era l’assenza della famiglia e molto altro ancora.

Partenza amara
Partenza amara dell'emigrante.
Nei racconti di molti emigrati già la partenza è quasi sempre amara, perché l’emigrante sperimenta sulla propria pelle tutta l’ansia di chi lascia il certo per l’incerto, anche se di certezze, oltre alla famiglia, possiede spesso solo la miseria, la mancanza di lavoro, forse una casa e un pezzo di terra infruttuosa. Il bacio di addio e gli abbracci finali ricordati in molte autobiografie rappresentano tuttavia per quasi tutti gli emigranti anche una sorta di giuramento e una promessa: tornerò da vincitore, non da sconfitto. Nel dopoguerra, la visione «eroica» dei migranti è molto più vicina alla realtà della visione romantica o «obiettiva» di tante narrazioni sull’emigrazione italiana del secolo scorso.
In Svizzera, per molti immigrati italiani le condizioni di vita e di lavoro sono state tutt’altro che facili, anche se le loro priorità erano il lavoro, la famiglia, il futuro dei figli, il risparmio da inviare o portare a casa, per cui tutto il resto passava in secondo piano e diveniva in qualche modo sopportabile: il vitto, l’alloggio, i pericoli sul lavoro, la mancanza di tempo libero o di un minimo di divertimento e persino la lontananza dalla famiglia.

Limitazioni della mobilità
Gli stagionali italiani sapevano, se non nel dettaglio, almeno in generale il lavoro che avrebbero svolto, ma forse nessuno si rendeva conto delle limitazioni che comportava il contratto ottenuto in base all’Accordo italo-svizzero del 1948. Probabilmente nessuno sapeva che i posti che andavano ad occupare erano per lo più disertati dagli svizzeri perché a basso contenuto di professionalità, con scarsa possibilità di sviluppo e poco pagati.
Con la seconda ondata d’immigrazione di massa, proveniente soprattutto dal Mezzogiorno, la mobilità professionale dei lavoratori italiani, già limitata, si ridusse ulteriormente. Infatti, per evitare eccessivi cambiamenti di posti di lavoro e di datori di lavoro, soprattutto dall’agricoltura all’industria e ai servizi, furono introdotte regole rigide che vietavano, salvo esplicita autorizzazione, qualsiasi cambiamento del posto di lavoro, della professione e del Cantone di residenza.
La mobilità orizzontale diventava possibile solo dopo diversi anni di permanenza in Svizzera. Più difficoltosa è sempre rimasta la mobilità verticale, la carriera professionale. A renderla difficile, quasi impossibile, erano le circostanze. In teoria, col permesso annuale, anche i lavoratori italiani avrebbero potuto perfezionarsi nel mestiere e salire di qualche gradino. Fino agli inizi degli anni Settanta ne approfittarono pochi, che avevano già una qualifica professionale e conoscevano l’organizzazione del lavoro. 

Requisiti mancanti
Oggi è facile incontrare italiani e soprattutto italo-svizzeri in tutte le principali attività economiche e a tutti i livelli, compreso il management superiore. Allora era diverso. Mancavano soprattutto due requisiti fondamentali: una buona formazione scolastica e professionale di base e la conoscenza della lingua locale. Anche il contesto generale non era favorevole, non era affatto superata la concezione dell’emigrazione/immigrazione «temporanea» (sancita dagli accordi bilaterali e dalle leggi svizzere) e pertanto non era ancora realistica l’opzione dell’integrazione da parte degli stranieri immigrati (prima generazione).
E’ stato osservato che dagli anni Sessanta era possibile, in Svizzera, recuperare entrambi i requisiti assenti o carenti per la mobilità verticale, ma mancava l’interesse da parte degli immigrati. Non è possibile negarlo, perché almeno fin verso la metà degli anni Sessanta ben pochi immigrati prendevano in seria considerazione la possibilità del perfezionamento e della carriera professionale. Tuttavia l’osservazione andrebbe precisata e spiegata (e lo si farà in altra occasione), tenendo presente che fino agli anni Settanta erano completamente assenti dai programmi statali e dagli accordi bilaterali tra l’Italia e la Svizzera, in riferimento alla prima generazione, gli stessi concetti di recupero scolastico, formazione professionale, integrazione.
Si potrebbe anche aggiungere che nel periodo considerato erano ben altre le preoccupazioni e gli interessi della maggior parte degli immigrati italiani.
Grandi sofferenze e frustrazioni
L’esperienza emigratoria dei primi decenni del dopoguerra è stata per moltissimi italiani traumatica, anche se, in quella specie di giuramento al momento della partenza, le privazioni, le difficoltà, le frustrazioni erano messe in conto.
Baracca per stagionali.
Di fatto innumerevoli sofferenze psicologiche più che fisiche hanno segnato la vita di molti immigrati. Fin dai primi contatti con la popolazione locale dev’essere stato frustrante sapere che una parte di essa era ostile agli stranieri. Come se quel loro darsi da fare, sacrificarsi, costruire, produrre non fosse soprattutto nell’interesse generale. La scarsa considerazione e comunque la percezione di non essere graditi come persone più che come lavoratori e lavoratrici devono aver indotto in molti di loro una persistente tristezza e quella nostalgia struggente di cui hanno lasciato traccia in molti scritti.
Non andrebbero inoltre dimenticate o minimizzate le logoranti paure e persino le fobie di tanti immigrati di perdere il lavoro, di dover tornare a casa a mani vuote non avendo avuto il tempo di risparmiare abbastanza, di non riuscire a mantenere la promessa fatta il giorno della partenza, la paura della propria impotenza.
Intanto le preoccupazioni col tempo non solo non diminuivano ma anzi aumentavano. Il «mito del ritorno» era sempre in agguato ed era fonte di preoccupazioni, perché i risparmi ancora non bastavano eppure una decisione andava presa, che andasse bene ai genitori ma pure ai figli. Molti genitori erano impreparati a fare la scelta giusta. Interminabili discussioni pubbliche spesso non facevano che alimentare i dubbi.
Negli anni Sessanta i figli divennero forse la maggiore preoccupazione degli immigrati italiani, soprattutto al momento della scelta scolastica. Ogni decisione sembrava problematica, non c’erano certezze, ma solo dubbi: era nell’interesse dei bambini mandarli a studiare in Italia, affidandoli a nonni o altri parenti, o in un collegio appena varcato il confine oppure in una scuola italiana qui in Svizzera o direttamente nella scuola svizzera? Le autorità italiane non erano in grado di dare indicazioni precise, quelle svizzere erano drastiche: tutti i bambini devono essere integrati nella scuola svizzera. Molti genitori dovettero farsene una ragione. 

L’ostilità xenofoba
A tutto quanto precede si deve aggiungere che negli Anni Sessanta e Settanta l’ostilità nei confronti degli stranieri immigrati era al massimo. Se un bel numero di essi avesse potuto scomparire da un giorno all’altro, molti svizzeri avrebbero gioito salvo poi piangere lacrime amare per il disastro causato alla loro economia, ai loro salari, al loro benessere.
Gli immigrati italiani, allora in grande maggioranza, non potevano certo restare indifferenti a sentire i vari Stocker, Schwarzenbach, Hoehen che chiedevano la riduzione del numero di stranieri. Molti maturarono la decisione di terminare il più presto possibile l’esperienza migratoria. Altri, invece, decisero di proseguirla, soprattutto per il bene dei loro figli.
Non tutti, evidentemente, si rendevano conto che anche questa scelta non sarebbe stata indolore, ma probabilmente pensarono che fosse quella migliore. Anche senza conoscere l’antico proverbio, tutti sapevano che basta insistere e prima o poi, inghiottendo magari ogni tanto qualche boccone amaro, i risultati arrivano: «chi la dura la vince».

Chi la dura la vince!
In effetti, la speranza di futuri miglioramenti e la certezza di poterli raggiungere hanno consentito a generazioni di immigrati italiani di sopportare condizioni di disagio, di paura, di frustrazioni, che in patria, forse, non avrebbero sopportato. Certo, qui la paga era buona, i risparmi erano possibili tanto da sfamare la famiglia, far studiare i figli e magari farsi anche la casa. Tanto valeva continuare a fare qualche sacrificio… ancora per qualche anno!
L’immigrazione degli italiani in Svizzera avrebbe richiesto una adeguata preparazione degli interessati prima della partenza, le informazioni fondamentali sulle istituzioni di tutela, qualche buon indirizzo a cui rivolgersi in caso di bisogno, ecc. Molti di essi o forse quasi tutti furono mandati allo sbaraglio, nella speranza di consentire al governo di sentenziare, in qualche discorso pubblico o in Parlamento, «missione compiuta», perché in Italia diminuiva la disoccupazione e aumentava la prospettiva di tante rimesse! (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 8 maggio 2019