10 aprile 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 10. L’emigrazione «clandestina» del dopoguerra


Sul tema dell’«emigrazione clandestina» italiana regna ancora molta confusione. Ritengo pertanto utile fornire ai lettori interessati al tema qualche informazione in più sul contesto e sulla portata del fenomeno in relazione ai flussi emigratori verso la Svizzera. Dal precedente articolo (http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/04/immigrazione-italiana-1950-1970-9.html) è emerso chiaramente che la cosiddetta «emigrazione clandestina» altro non era che l’aggiramento della lenta burocrazia italiana del dopoguerra da parte degli emigranti interessati a un’occupazione in questo Paese. Pertanto l’aggettivo «clandestino» è inappropriato, almeno da una prospettiva svizzera.

Confusione tra emigrazione e immigrazione
Purtroppo la confusione è diffusa non solo nei media, ma anche in opere di ricerca storica. Nei media ha fatto scuola l’invito del noto giornalista Gian Antonio Stella (2002) a non dimenticare «quando i clandestini eravamo noi». Tra gli studiosi, sono molti quelli che confondono «emigrare clandestinamente» e «immigrare clandestinamente». La differenza, invece, specialmente nel caso dell’emigrazione italiana in Svizzera, non è di poco conto.
Solitamente, e anche qui, si considerano «clandestini» i migranti stranieri che entrano e soggiornano illegalmente (= senza documenti d’ingresso e di soggiorno validi) in un altro Paese. Si considerano invece «irregolari» gli stranieri che soggiornano in un Paese senza un permesso di soggiorno valido, pur essendovi entrati regolarmente. In molti testi riguardanti l’emigrazione italiana spesso sono definiti erroneamente «clandestini» gli italiani espatriati illegalmente, ossia senza un documento valido per l’espatrio, anche se entrati legalmente nel Paese di destinazione, per esempio in Svizzera. In certi periodi del dopoguerra (fino alla metà degli anni Settanta) molti italiani adulti emigrati in Svizzera sono stati per qualche tempo «irregolari», quasi mai «clandestini».
Un altro contributo alla chiarezza dovrebbe venire dall’uso corretto dei termini «migrazione», «emigrazione» e «immigrazione», utilizzando il primo nel significato generico di movimento volontario di persone (adulte) da un luogo ad un altro con l'intenzione di stabilirvisi almeno temporaneamente, il secondo per indicare il trasferimento effettivo di persone da un Paese a un altro (normalmente per svolgervi un’attività lavorativa) e il terzo per indicare l’arrivo nel Paese ospite o di destinazione di persone provenienti da un altro Paese. Purtroppo, spesso, i tre termini sono usati come sinonimi, per cui non è raro incontrare anche in comunicati stampa ufficiali l’espressione «migrazione clandestina» o «migrazione illegale» per indicare entrate e/o soggiorni illegali o irregolari.
Usate in modo appropriato, l’espressione «emigrazione clandestina» farebbe pensare subito all’espatrio «clandestino» (o illegale) e «immigrazione clandestina» all’entrata e al soggiorno in un Paese in violazione delle leggi sull’ingresso e sul soggiorno. Per oltre un secolo l’Italia unita non ha avuto problemi rilevanti di immigrazione clandestina, mentre ne ha avuti molti di «emigrazione clandestina» o «illegale». 

L’«emigrazione clandestina» italiana nella storia
Per esigenze di politica interna e internazionale l’Italia ha sempre voluto controllare gli espatri. Molti cittadini, tuttavia, sul finire dell’Ottocento e agli inizi del Novecento riuscivano ad aggirare i controlli e le norme restrittive sull’«emigrazione clandestina» adottate dai governi postunitari presieduti da Menabrea (1868), Lanza (1873), Depretis (1876), Crispi (1888) fino all’adozione della prima Legge sull’emigrazione (1901) e successivamente del Testo unico della Legge sull’emigrazione (1919).
In certi periodi lo Stato voleva scoraggiare l’emigrazione e impedire gli espatri «clandestini» per frenare l’esodo dalle campagne, che creava gravi problemi all’agricoltura, allora la principale attività economica. Si voleva anche evitare che il governo fosse accusato di inadeguatezza e incapacità a risolvere i problemi di arretratezza del Mezzogiorno.
Il «passaporto rosso» per contrastare l'«emigrazione clandestina»
Alle ragioni di politica interna si aggiungevano quelle di politica internazionale del giovane Stato italiano che intendeva tutelare la propria immagine all’estero. Non voleva dare l’impressione che gli sfuggissero di mano i delinquenti (compresi i disertori e gli anarchici) e che ad emigrare fossero solo analfabeti, disoccupati e poveri bisognosi di assistenza. Il governo temeva di fornire attraverso questi emigrati un’immagine dell’Italia quasi fosse in preda alla malavita, alla povertà e all’ignoranza. Voleva però anche poter intervenire presso i governi stranieri per tutelare gli italiani emigrati regolarmente ogniqualvolta fosse necessario.
Per controllare efficacemente l’emigrazione regolare e contrastare l’emigrazione clandestina il Testo unico del 1919 prevedeva fra l’altro il passaporto (chiamato anche «passaporto rosso» dal colore della copertina) obbligatorio per ogni emigrante (art. 15) e la pena detentiva e la multa a chiunque diffondesse notizie subdole per «eccitare ad emigrare», come pure a chiunque indirizzasse un emigrante a uno Stato diverso da quello dove intendeva recarsi.

Emigrazione «clandestina» nel dopoguerra
Nel dopoguerra (tra il 1946 e il 1970), quando la Svizzera aveva bisogno di molta manodopera, vennero messi a disposizione dell’economia circa tre milioni di permessi stagionali. L’Italia fu la prima nazione europea a consentire l’espatrio a centinaia di migliaia di stagionali. La richiesta da parte della Svizzera e l’invio da parte dell’Italia di lavoratori e lavoratrici stagionali erano regolati dalle intese bilaterali messe a punto nell’Accordo di immigrazione del 22 giugno 1948 (cfr. articolo precedente).

Nessuno, forse, in Italia si rese subito conto della portata di quell’Accordo, che consentiva alla Svizzera di reclutare direttamente o indirettamente nel mercato del lavoro italiano milioni di lavoratori per una o più stagioni. Tutti gli interessati però sapevano che si trattava di attività «stagionali» con forti limitazioni, anche nel caso del rinnovo del permesso, almeno fino alla trasformazione del permesso «stagionale» in «annuale», dopo un certo numero di stagioni.
In base all’Accordo, l’Italia doveva garantire il reclutamento e l’invio delle persone richieste dalla Svizzera nel più breve tempo possibile, al massimo entro pochi mesi. Invece, soprattutto all’inizio, i ritardi erano tali da spingere molti emigranti a espatriare anche senza i documenti necessari (permesso di lavoro vistato dall’Ambasciata o dal Consolato, permesso di soggiorno, ecc.), col solo passaporto turistico (che l’Italia non riconosceva valido per l’emigrazione), sapendo o illudendosi che in Svizzera avrebbero comunque trovato un posto di lavoro entro tre mesi (durata di validità del permesso turistico) e si sarebbero messi in regola con i permessi. Per l’Italia questi emigrati erano «clandestini», per la Svizzera no, essendo entrati con un documento (passaporto) valido.

Stagionali «clandestini»
A questo punto è inevitabile la domanda: ma quanti erano, nell’ottica italiana, ogni anno i «clandestini»? Impossibile dare una risposta precisa perché i «clandestini» come tali non sono censibili. Non è nemmeno possibile ricavare qualche dato utile dalle statistiche svizzere perché in Svizzera erano considerati «irregolari» solo coloro che soggiornavano senza un permesso di dimora valido dopo tre mesi dal loro ingresso «regolare». Negli anni Settanta circolavano cifre che davano da 30.000 a 50.000 «clandestini» o «irregolari», ma senza specificarne la nazionalità. E’ pensabile che fino agli anni Settanta quella italiana fosse la più rappresentata, ma con numeri nettamente al di sotto delle stime diffuse dalla stampa.
Non va infatti dimenticato che allora era estremamente facile ottenere un permesso di lavoro e di soggiorno, soprattutto per gli italiani, per cui non era conveniente rischiare l’espulsione entrando e soggiornando «clandestinamente» o irregolarmente. Nel 1964 su 206.305 stagionali regolari di diverse nazionalità gli italiani «regolari» erano oltre 170.000; nel 1970 su poco più di 200.000 stagionali regolari gli italiani erano più della metà. Non è pensabile che ci fossero in Svizzera ancora decine di migliaia di «clandestini» o «irregolari».

Bambini «clandestini»
Negli anni Sessanta e Settanta, però, vista la facilità di trovare un lavoro e pur sapendo che per loro il ricongiungimento familiare (soprattutto nel caso che fossero sposati con figli minorenni), numerosi stagionali (e specialmente «falsi stagionali» che restavano in Svizzera più a lungo della stagione normale) decisero di far entrare e soggiornare «clandestinamente» o «irregolarmente» mogli e figli. Si trattò di un fenomeno di illegalità molto diffuso, da Ginevra a San Gallo, ma non riguardava solo gli italiani (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/search?q=bambini+clandestini).
A sollevare il problema nell’opinione pubblica furono alcuni articoli pubblicati nel 1971 dalla giornalista Anne-Marie Jaccard sui risultati di un’inchiesta dedicata ai «bambini dell'ombra», diecimila «piccoli stranieri», figli di stagionali e annuali italiani e spagnoli introdotti in Svizzera «clandestinamente», una situazione «scandalosa». La cifra indicata era una stima, non riguardava solo gli italiani né solo gli stagionali. Eppure da allora, senza mai interrogarsi sulla sua plausibilità e il periodo di riferimento, è (stata) continuamente ripetuta e spesso amplificata (fino a 40.000!) da Delia Castelnuovo Frigessi, Marina Frigerio, Claudio Calvaruso, Giovanna Meyer Sabino, Gian Antonio Stella, Sandro Rinauro, Toni Ricciardi e altri. Già nel 1972 il Consiglio federale aveva ritenuto quella stima «esagerata», ma tant’è…! (Segue)
Giovanni Longu
Berna 10.04.2019