30 gennaio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 1. Lavoratori e lavoratrici a richiesta!


Con questo numero inizia una serie di articoli dedicati alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera dal secondo dopoguerra agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. Ritengo utile rievocare con dati e fatti certi quel periodo, per mettere in luce le basi dello sviluppo di una collettività straniera divenuta una componente essenziale del tessuto sociale, culturale ed economico di questo Paese. Benché si tratti di un passato recente, mi sembra poco conosciuto specialmente dalle giovani generazioni, anche perché è spesso ridotto a una «brutta storia» di sfruttamento e umiliazioni che molti preferiscono rimuovere. Spero di riuscire, al contrario, a illustrare una storia avvincente che, nell’insieme, ha contribuito a rendere la Svizzera moderna un Paese prospero e la collettività italiana una componente strutturale stabile e positiva dell’italianità della Confederazione.

Immigrazione italiana in primo piano al Festival di Soletta
Anni 1950-70: partenze di emigranti con i «treni della speranza»
Molti aspetti dell’immigrazione italiana del secondo dopoguerra e specialmente degli anni Sessanta del secolo scorso sono poco conosciuti. Lo si nota, per esempio, quando si cerca di liquidare il confronto tra «i nostri emigrati» e i nuovi «migrati» che tentano di sbarcare in Italia semplicemente negandolo, senza saperne evidenziare le ragioni. D’altra parte, il desiderio diffuso di non dimenticare quel periodo sembra richiedere un racconto sistematico sereno e obiettivo di quelle che sono diventate per molti le radici della propria storia.
Trovo sintomatico, per esempio, che quest’anno il festival cinematografico più importante per il cinema svizzero, la 54a edizione delle Giornate del Cinema di Soletta (dal 25 al 31 gennaio 2019), dedichi ampio spazio al tema dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera negli anni 1950-1970.
Già col film della giornata inaugurale «Tscharniblues II» di Aron Nick si fa riferimento a un quartiere simbolo di Berna, creato soprattutto da operai italiani a cavallo tra gli anni 1950 e 1960 e divenuto celebre in Europa per la sua concezione e realizzazione. Tra i film presentati ce n’è uno che ricorda l’impatto straordinario che ebbe tra gli immigrati italiani in Svizzera la canzone vincitrice del Festival di San Remo del 1964 di Gigliola Cinquetti «Non ho l’età». A migliaia le scrissero lettere di ammirazione, che hanno ispirato il film omonimo di Olmo Cerri.
Ancora, in questa edizione viene ricordato un regista che agli italiani ha dedicato un’attenzione particolare, Alexander Seiler, deceduto il 22 novembre 2018 all’età di 90 anni. Ai lavoratori italiani immigrati aveva dedicato nel 1964 un documentario fondamentale, «Siamo italiani». Era divenuto subito celebre anche perché, l’anno seguente, era uscito un libro di testimonianze di immigrati con la prefazione del grande scrittore svizzero Max Frisch, che sintetizzava magistralmente la condizione degli immigrati, allora soprattutto italiani, con la celebre frase: «Abbiamo chiamato braccia… e vennero uomini».

Alcuni dati significativi
Per rendersi conto dell’importanza dell’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso sono sufficienti alcuni dati e fatti.
Alla fine della guerra la Svizzera aveva un bisogno enorme di manodopera che poteva ottenere, per svariate ragioni, solo dall’Italia. A fronte di decine di migliaia di posti di lavoro non occupati, i disoccupati svizzeri erano al massimo poche migliaia. Nel 1960, alla fine di agosto, si conteranno appena 744 persone in cerca d’impiego (nel 1961 ancora di meno: 551). Dove cercare lavoratori e lavoratrici per l’economia in attesa di assicurare beni e servizi in continuo aumento? Il Paese maggiormente disponibile risultò l’Italia, che divenne subito dopo la guerra il bacino di reclutamento più sicuro e conveniente per le industrie e i servizi svizzeri.
A. Seiler, regista di «Siamo italiani»
Nel 1946, a richiesta, cominciarono ad arrivare dall’Italia circa 50.000 lavoratori, in gran parte stagionali. Tra il 1946 e il 1950 ne arrivarono più di 300.000, tra il 1951 e il 1960 oltre 745.000 e nel decennio successivo 1961- oltre un milione. Molti di essi, essendo stagionali, dopo una o alcune stagioni rientravano definitivamente in Italia, ma molti altri, giunti già con un permesso di lavoro annuale rinnovabile o grazie alla trasformazione del permesso stagionale in annuale, decidevano di restare sempre più a lungo in Svizzera.
Per regolare questi flussi, le condizioni d’immigrazione e di lavoro, l’acquisizione dei permessi o la trasformazione degli stessi, furono firmati tra la Svizzera e l’Italia numerosi accordi, due in particolare, nel 1948 e nel 1964. Erano strumenti che garantivano all’Italia una certa protezione dei lavoratori italiani e alla Confederazione di tenere a bada i movimenti xenofobi che chiedevano un freno o addirittura una riduzione dell’immigrazione.
Nonostante la politica d’immigrazione restrittiva della Svizzera, la popolazione italiana immigrata e residente stabilmente (quindi esclusi gli stagionali e i frontalieri) anno dopo anno non faceva che aumentare. Da poco più 100.000 alla fine della guerra, nel 1950 gli italiani erano già 140.366, ma dieci anni dopo erano più che raddoppiati (346.223) e nel 1970 avevano superato abbondantemente il mezzo milione (583.855).

Contributo alla prosperità
I lavoratori italiani hanno accompagnato per intero il boom economico svizzero del secondo dopoguerra. Anche grazie a loro, tra il 1950 e il 1970, il prodotto interno lordo (PIL) raddoppiò, con una crescita annua media in termini reali del 4,5% l’anno. Nello stesso arco di tempo il volume di esportazioni aumentò complessivamente di oltre il 600%.
Si può ancora ricordare che nello stesso periodo le entrate degli enti pubblici aumentarono enormemente, quelle della Confederazione da 1 miliardo e 757 milioni a 7 miliardi e 975 milioni di franchi, quelle dei Cantoni da un miliardo e 173 milioni a 6 miliardi 650 milioni di franchi, quelle dei Comuni da un miliardo e 136 milioni a 5 miliardi 620 milioni di franchi.
Berna 1972, sede del CISAP.
Il contributo dei lavoratori stranieri in generale e in particolare di quelli italiani che ne costituivano la grande maggioranza è evidenziato anche da questo dato: nel 1960 gli stranieri  rappresentavano il 17% della popolazione attiva totale, nel 1970 il 22%. Gli italiani erano protagonisti soprattutto nelle grandi opere (centrali idroelettriche, strade e autostrade) e nell’edilizia, ma anche in diversi comparti industriale.
Purtroppo gli italiani furono coinvolti anche nelle più grandi disgrazie di quel periodo durante la costruzione di due importanti dighe, quella di Mattmark (30 agosto 1965) e quella di Robiei (15 febbraio 1966).
Con la crescita numerica dell’immigrazione italiana in Svizzera si sviluppava in quegli anni anche l’associazionismo, la presa di coscienza delle possibilità e delle responsabilità delle prime generazioni nei confronti delle seconde, la realizzazione di numerose iniziative di tipo sociale, culturale, sportivo e formativo. A metà degli anni Sessanta sorse anche un centro di formazione professionale, il CISAP di Berna, che rappresenterà per alcuni decenni un brillante esempio di collaborazione italo-svizzera e un modello di formazione professionale per adulti poi ampiamente imitato. 

Osservazioni metodologiche
Anzitutto ritengo doveroso precisare che in questi articoli, di norma, è presa in considerazione la popolazione italiana residente permanente (eventualmente anche con altra cittadinanza), esclusi stagionali e frontalieri. Quando si parla esplicitamente di «immigrati», s’intende la «prima generazione», ossia le persone, di entrambi i sessi, nate all’estero e immigrate in Svizzera a tempo più o meno indeterminato, soprattutto per motivi di lavoro o per ricongiungimento familiare.
Nella trattazione della «storia» dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera eviterò il quadro di riferimento ideologico riscontrabile in alcuni racconti anche recenti, secondo cui il problema migratorio rientrerebbe nel rapporto di forza tra capitalismo (o imperialismo) e proletariato (sfruttamento, semischiavitù), preferendo il quadro socio-economico dello scambio tra economie forti ed economie deboli, secondo le regole tipiche del mercato libero in cui domanda e offerta si richiamano reciprocamente e talvolta dialetticamente.
Ritengo pertanto che la migrazione dall’Italia sia avvenuta, su base prevalentemente volontaria, perché l’economia forte svizzera richiedeva forza lavoro di cui il mercato interno era carente e l’economia italiana, al contrario, essendo debole aveva forza lavoro in eccesso. Il flusso migratorio è stato regolato semplicemente dall’incontro, non sempre felice, della domanda e dell’offerta alle condizioni del mercato del lavoro del momento, ma anche entro un determinato quadro giuridico costituito dagli accordi bilaterali in materia tra la Svizzera e l’Italia.
Infine, trattandosi di articoli, con precise esigenze di spazio, sarà inevitabile che alcuni temi siano svolti in successivi interventi. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 30.01.2019