23 gennaio 2019

Liliana Segre e la Svizzera «terra d’asilo»



La senatrice a vita Liliana Segre è una sopravvissuta all’Olocausto. A fine novembre il Corriere del Ticino le hadedicato un «primo piano», in cui lei ricorda con grande precisione quando, appena tredicenne, fu respinta insieme a suo padre Alberto e a due altre persone ad Arzo (Ticino) da un funzionario svizzero-tedesco (!) perché li riteneva «imbroglioni» non credendo che succedesse «qualcosa di brutto agli ebrei in Italia». Inutili le suppliche, i richiedenti l’asilo furono respinti e riaccompagnati al posto di confine dov’erano entrati «illegalmente» in Svizzera. Subito arrestati dai soldati italiani, due di essi morirono tragicamente in prigione, mentre i Segre furono in seguito deportati: lui morì ad Auschwitz, lei è sopravvissuta ed è un’instancabile testimone della Shoah.
Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz

Tempi difficili
Il racconto della Segre è triste, ma pacato, «senza mai parlare di odio nei confronti di nessuno», anche se «il ricordo della Svizzera è atroce» e non è disposta a perdonare quel funzionario non perché era «sprezzante» nei loro confronti, ma «perché col suo atteggiamento ha condannato a morte tre persone».
Ho riletto più volte la testimonianza della Segre perché l’ultima frase citata, molto toccante e comprensibile sul piano umano, non mi convince sul piano della ricerca storica. Quasi quarant’anni fa ho scritto sull’Olocausto un lungo articolo sui numerosi ebrei respinti dalla Svizzera. L’avevo intitolato «anche qui ne mandarono parecchi all’inferno» (Incontri n.6/7 giugno 1979) e riferivo, fra l’altro, delle responsabilità del governo federale, che almeno dalla seconda metà del 1942 sapeva dello sterminio sistematico degli ebrei e, pur di non accoglierli, aveva inventato la scusa che la barca era piena.
Da allora ho cercato di approfondire la questione dell’atteggiamento della Svizzera e degli svizzeri verso gli ebrei, ritenendo che solo attraverso una sufficiente documentazione (libri, filmati, documenti diplomatici, testimonianze, visite ad alcuni campi di concentramento/sterminio, ecc.) si riesce a «capirlo». Sottoscrivo ancora oggi il contenuto di quell’articolo, ma cambierei il titolo anche se proviene da una citazione ed espressioni simili hanno giustificazioni plausibili. Oggi non ritengo che si possa spiegare e comprendere la storia attribuendo responsabilità immediate a singole persone, soprattutto se semplici esecutori di decisioni superiori.
Il periodo della seconda guerra mondiale è stato per la Svizzera probabilmente il periodo più difficile della sua storia, perché ha creduto (e in questi casi è sufficiente «credere» anche senza prove) di dover difendere non il suo benessere, non la sua neutralità, non i suoi confini e nemmeno una parte della sua popolazione, ma la sua stessa esistenza. La Svizzera, forse per la prima volta, ha avuto «paura» di scomparire in seguito alla travolgente avanzata delle truppe tedesche dei primi anni di guerra e fu soprattutto la paura a mettere d’accordo tutti, romandi e svizzero-tedeschi, italofoni e ladini, attorno alla difesa della patria ad ogni costo. 

I costi della sopravvivenza
Si sa che i costi, anche per la popolazione svizzera, sono stati enormi. Uno di essi, che è pesato a lungo sulla coscienza di molti svizzeri, è legato alla chiusura delle frontiere, alla selezione di chi poteva entrare e al respingimento di chi non doveva entrare, alla sottomissione, in qualche misura, alle potenze che avrebbero potuto stritolarla, dopo il completo accerchiamento (1942).
In questo contesto hanno avuto buon gioco i pregiudizi di origine medievale nei confronti degli ebrei, a cui si aggiunse dalla prima guerra mondiale la paura di una «giudaizzazione». della Svizzera e successivamente l’«antisemitismo latente» (Peter Stadler) che degenerò nel 1938, alla vigilia della guerra, nell’introduzione della  stampigliatura della «J» sui passaporti degli ebrei, e poi durante i primi anni di guerra nel respingimento quasi generalizzato degli ebrei che chiedevano asilo in Svizzera.
Il respingimento dei Segre alla fine del 1943 fu uno dei tanti avvenuti fino a quel momento, quando le istruzioni per la sorveglianza della frontiera erano molto rigide, addirittura spietate nei confronti degli ebrei, spesso senza margini d’interpretazione per i funzionari periferici chiamati ad osservarle. Solo Berna avrebbe potuto cambiarle, ma il Consiglio federale si trovava, fino all’inizio del 1944, nell’incapacità o nell’impossibilità di farlo per non irritare i potenti vicini ed esporsi a facili rappresaglie. 

Svizzera circondata e dipendente
Per capire il dramma degli svizzeri, chiamati a difendere dapprima la propria neutralità e successivamente la propria esistenza, sono sufficienti alcune cifre e alcune date. Allo scoppio della guerra la Svizzera non disponeva che di 18 aerei da caccia in grado di combattere, 36 caccia antiquati e 80 ricognitori e nemmeno un bombardiere. La difesa contraerea disponeva di soli 4 riflettori, 3 aerofoni e 31 pezzi contraerei. L'artiglieria risaliva in parte all’inizio del secolo e mancava di munizioni. Non esistevano riserve di carburante per l'esercito. Solo più tardi la Svizzera ottenne 50 moderni «Messerschmitt» proprio dalla Germania e nuove armi fabbricate nelle proprie industrie. Come avrebbe potuto difendersi in caso di aggressione da parte Hitler e di Mussolini?
Perciò il 13 giugno 1940 il generale Guisan aveva dato l’ordine che non venisse diramato l'allarme per violazioni non importanti dello spazio aereo e il 20 giugno aveva ordinato la fine della «protezione della neutralità dello spazio aereo». E in flagrante contravvenzione alla neutralità tutti i piloti tedeschi internati in Svizzera dall'inizio della guerra e gli aerei costretti ad atterrare furono riconsegnati (mentre 158 aerei americani e oltre 1.000 piloti restarono invece in Svizzera fino alla fine della guerra).
La stampa libera, nonostante la censura imposta l'8 settembre 1939, cominciava a parlare sempre più spesso di cedimenti e di allineamento da parte del Consiglio federale al «nuovo ordine» in Europa. La Svizzera si sentiva impotente di fronte al colosso germanico da cui dipendeva in larga misura per la fornitura delle materie prime e dei generi alimentari.

«La barca è piena», gli ebrei vanno respinti
Di fronte all'accerchiamento della Svizzera da parte delle potenze dell'Asse la Commissione per la difesa nazionale e lo stato maggiore del generale Guisan decisero di difendere ad oltranza almeno il «ridotto nazionale» nello spazio alpino dopo aver distrutto le trasversali alpine per creare un effetto deterrente. Un’altra decisione fu la chiusura «ermetica» delle frontiere (13 agosto 1942) per tutti gli «stranieri» senza autorizzazione.
L’atteggiamento della Svizzera verso gli ebrei rientrava in questa disposizione, tanto è vero che all’inizio delle istruzioni impartite ai posti di frontiera si fa riferimento al «forte aumento delle entrate illegali di profughi stranieri attraverso la frontiera occidentale specialmente di ebrei di varie nazionalità…». A scanso di equivoci, al punto 2 dell’elenco delle persone che non si devono respingere (ossia: «i profughi politici, cioè gli stranieri che al primo interrogatorio si danno espressamente per tali e possono rendere attendibile questa loro qualità»), si precisa che «profughi per ragioni razzistiche, ad esempio gli ebrei, non sono da considerare come profughi politici».
Per avvalorare maggiormente quelle misure, il 30 agosto 1942 il consigliere federale Eduard von Steiger le giustificava affermando che «la piccola scialuppa di salvataggio era colma». Non era vero: in tutta la Svizzera non c'erano allora più di 8-10.000  profughi (ebrei compresi), ma la popolazione gli credette e i funzionari di confine dovevano applicarle. Purtroppo le vittime più numerose dell’intransigenza svizzera furono proprio gli ebrei.
Al confine meridionale il numero dei profughi e degli ebrei crebbe notevolmente dopo l’8 settembre 1943. Per questo, dopo il 17 settembre 1943, le misure di controllo  divennero ancor più severe, tranne per coloro che apparivano chiaramente in pericolo di vita. Se fu relativamente facile accogliere e successivamente internare i militari (conformemente alla Convenzione dell’Aja del 1907 relativa ai diritti e ai doveri di uno Stato neutrale), per i profughi civili valevano altre condizioni, che sembrano non avere gli ebrei. Essi venivano quasi sempre respinti, perché in quel momento la loro situazione non era ancora ritenuta drammatica. Agli occhi del funzionario di Arzo di cui ha parlato la Segre anche la sua vita non dovette apparire in pericolo e, forse per questo, la sua domanda fu respinta.
Difficile pensare che con quella decisione il funzionario di polizia abbia voluto davvero mettere in pericolo la vita dei respinti. Difficile anche pensare che sul finire del 1943 fossero in molti, in Svizzera, a conoscere l’ampiezza di quella orribile barbarie e a sapere della tragica fine degli ebrei nei campi di sterminio. 

La fine della barbarie
Solo nel 1944 il Consiglio federale cominciò a sospettare la seria minaccia che incombe sugli ebrei deportati e, quando la Svizzera si libera, o meglio viene liberata, dalla morsa opprimente del Terzo Reich ridotto ormai a brandelli, si dichiara disposto ad accogliere 14 mila profughi ungheresi (maggio 1944). Pochissimi riescono tuttavia a raggiungere la frontiera svizzera, che continua ad essere strettamente sorvegliata contro chiunque sia sprovvisto di passaporto e del visto d'ingresso.
Soltanto dal 12 luglio 1944 gli ebrei vengono dichiarati esposti a una grave minaccia e considerati «profughi per ragione di razza». Il 6 febbraio 1945, quando evidentemente era ormai troppo tardi, il Consiglio federale protesta per la prima volta presso il governo tedesco contro l'annientamento di massa degli ebrei e permette l'ingresso a 1200 ebrei provenienti dal campo di Theresienstadt (Repubblica Ceca).
L’episodio del respingimento dei Segre ha provocato un dibattito nell’opinione pubblica e persino le scuse del consigliere di Stato Manuele Bertoli (gesto non da tutti i ticinesi condiviso) perché è stata una decisione grave, che ha lasciato il segno soprattutto nell’interessata. Non credo, tuttavia, che la valutazione storica della decisione presa dal funzionario svizzero-tedesco possa o debba comportare giudizi morali di approvazione o di condanna, senza tener conto del periodo storico e delle circostanze.
Credo, soprattutto, che il «capitolo dolente» dei respingimenti non possa e non debba far dimenticare o minimizzare che specialmente il Ticino è sempre stato per i profughi italiani una liberale e accogliente «terra d’asilo». La storica Renata Broggini, recentemente scomparsa, ne ha fornito ampia e ben documentata testimonianza anche in riferimento alle vicende della seconda guerra mondiale.
Riconfermo quanto scrissi circa quarant’anni fa: «nonostante tutto, la piccola Svizzera, dal 1933 al 1945 accolse, sia pure per periodi mediamente brevi, circa 300.000 stranieri,104.000 soldati internati, 66.500 civili provenienti dalle regioni di confine, 65.000 profughi civili, di cui 29.000 ebrei, 60.000 bambini».
Gli svizzeri potrebbero andarne fieri, anche perché i rifugiati, nel lasciare la Svizzera dopo la guerra ne hanno tessuto le lodi e l’hanno ringraziata per l’accoglienza dimostrata. Invece, come ha scritto Renata Broggini, «la sorte dei respinti ha lasciato uno strascico di interrogativi nella coscienza di molti svizzeri» e, aggiungo io, molti sensi di colpa, come se, respingendo quegli ebrei imploranti , si avesse la sensazione di esporli quantomeno al rischio di morte.
Per concludere, credo che sia giusto e utile rievocare quella «pagina nera» della storia svizzera perché, rileggendola e meditandola, non sia più possibile riscriverla in nessuna parte del mondo.
Giovanni Longu
Bern 23.01.2019

20 gennaio 2019

Ancora strage di migranti nel Mare Nostrum



Notizie brutte sul fronte dei migranti. In due giorni: centosettanta persone morte nel Mediterraneo che, anche nel 2019, si conferma "cimitero dei migranti". I barconi del sogno europeo non si fermano e continuano a partire dalla Libia, in fuga da "violenze e abusi", dalle torture dei centri di detenzione, come raccontano i fortunati che ce la fanno (Ansa 19.1.2019).

Reazioni dei vertici dello Stato italiano: solo parole! 
Il presidente della repubblica Sergio
Mattarella ha espresso «profondo dolore», mentre il premier Giuseppe Conte si è detto "scioccato". La ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, scarica le responsabilità sull’Europa che starebbe a guardare, il ministro dell’Interno Matteo Salvini sulle Ong e gli scafisti: «le navi delle Ong tornano in mare davanti alla Libia, gli scafisti ricominciano i loro sporchi traffici, le persone tornano a morire…».
Per il ministro dell’Interno, se 100, 1000 profughi muoiono in mare non è affare che lo riguardi, il suo compito «sacrosanto» è impedire gli sbarchi in Italia e «non essere complice degli scafisti». A chi gli ricorda che esistono obblighi di soccorso in mare derivanti sia da norme di diritto internazionale che interno, oltre al buon senso: «il naufragio è una cosa e l'immigrazione un'altra» (De Falco), Salvini risponde cinicamente: «cuori aperti, ma porti chiusi». Inutile anche l'appello di Matteo Renzi: «Se c'è gente in mare, prima la salviamo, poi si discute».

«Stiamo perdendo la nostra umanità»
Il cinismo e il populismo ci stanno restringendo lo sguardo al nostro orticello, ci stanno rattrappendo la memoria e ci impediscono di guardare al di là dei nostri confini e alla nostra stessa storia. Eravamo abituati a considerare il Mediterraneo il «Mare Nostrum», ora non lo vogliamo più perché pieno di cadaveri. 
Non credo che ci sarà mai un secondo Processo Norimberga, come auspica il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, contro i responsabili dei naufragi di migranti, in primis contro Salvini, perché non ci saranno potenze vincitrici in grado di sostenerlo. Certamente non so se «Salvini li avrà sulla coscienza» i morti dei recenti naufragi, come invece ha asserito il missionario padre Alex Zanotelli, che ha anche aggiunto: «abbiamo un governo di barbari senza cuore, stiamo perdendo la nostra umanità. La situazione è insostenibile. Non riesco a capire come si possa avere un governo a cui manca l’umanità». 
Parole che dovrebbero far riflettere! Si dimentica che per scoraggiare gli scafisti, lasciar perire in mare degli innocenti (e fino a prova del contrario tutti i profughi lo sono!) è un obbrobrio d'inciviltà. La pretesa di respingere al luogo di partenza chi si mette in mare inseguendo lo stesso identico sogno che ha fatto partire dall'Italia milioni di emigrati è demenziale perché, secondo numerose testimonianze, «meglio morire che tornare in Libia».
Per non perdere la nostra umanità dobbiamo cercare tutti, ciascuno secondo le propria capacità e responsabilità, a far finire queste stragi nel nostro mare e trovare soluzioni giuste a problemi che prima o poi ci coinvolgeranno molto più di oggi.
Giovanni Longu
Berna, 20 gennaio 2019