I 150 anni di storia
dell’immigrazione «regolare» italiana in Svizzera sono anche la storia di un
lungo e difficile processo d’integrazione che ha portato al rafforzamento
dell’italianità in questo Paese. Tutto è cominciato, ufficialmente, col «Trattato di
domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia» firmato a Berna il 22
luglio 1868. La sua importanza merita un approfondimento anche per far luce sull’origine
e sulla natura dei flussi migratori tra i due Paesi. Molte narrazioni, infatti,
hanno il difetto di dare a un fenomeno
essenzialmente socio-economico, regolamentato da trattati e accordi
internazionali, un’interpretazione ideologica con connotazioni moralistiche.
Alcune precisazioni iniziali mi sembrano pertanto utili per comprendere meglio i successivi sviluppi di una storia complessa che dura da 150 anni.
Premesse
fondamentali
1.
Per
alcuni autori la storia dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera
altro non sarebbe che un esempio di scontro tra capitalismo e proletariato,
sfruttatori e sfruttati, bene e male, e non semplicemente uno scambio tra
società con economie forti (imprese che domandano lavoro) e società con
economie deboli (che offrono forze di lavoro) secondo le regole tipiche del
mercato libero in cui domanda e offerta si richiamano reciprocamente e talvolta
dialetticamente, con una tendenza a prevalere della prima sulla seconda quando
vi è eccesso di offerta.
2.
Nelle
visioni ideologiche di tipo manicheo (scontro tra bene e male) si dimentica,
fra l’altro, che nelle migrazioni «regolari» c’è sempre un terzo elemento
fondamentale che gestisce l’intermediazione: lo Stato, anzi gli Stati
interessati. Si può ovviamente discutere sul ruolo avuto dall’Italia e
dalla Svizzera nella gestione del fenomeno migratorio tra i due Paesi, ma senza lasciarsi andare ad affermazioni insostenibili come quelle, per citare
un esempio
recente, di Toni Ricciardi, secondo cui l’Italia dal secondo dopoguerra
avrebbe messo in piedi «il più grande sistema di esportazione di donne e uomini,
di braccia e cervelli che la storia occidentale ricordi» e la Svizzera avrebbe
coltivato una vera e propria «industria degli stranieri».
3.
Spesso
si dimentica anche che, se la libertà di emigrazione è uno dei diritti umani
fondamentali, non lo è (ancora) quello di immigrare dove si vuole. «Emigrare
dal proprio Stato non significa libertà di immigrare in un qualunque altro
Stato. Ogni Stato mantiene ancora il controllo pieno del proprio territorio e
dei suoi confini esterni» e pertanto «la libertà di emigrazione si può
esercitare concretamente solo se vi siano altri Stati che consentano
l’immigrazione» (Valerio Onida).
4.
Per
far incontrare legittimamente le due libertà occorre sempre l’accordo tra
gli Stati interessati. Tra la Svizzera e l’Italia esso venne negoziato già
nei primi anni dopo l’unità (1861) e fu concluso il 22 luglio 1868 con la firma
a Berna del «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia». Con
esso la migrazione verso l’Italia e verso la Svizzera otteneva per così dire il
sigillo della «regolarità» giuridica.
5.
Infine
mi sembra opportuno ricordare che, sebbene il Trattato in questione tra la
Svizzera e l’Italia si inserisca nel genere dei «Trattati di amicizia»,
l’amicizia tra Stati ha ben poco in comune col «sentimento» di reciproca stima,
fiducia e simpatia che lega le persone «amiche», anche se un po’ gli
rassomiglia. Infatti, pur fondandosi su un sistema di valori condivisi, l’amicizia
tra Stati esprime soprattutto «interessi reciproci», ma non necessariamente
della stessa importanza per ogni contraente. Il Trattato del 1868 non faceva
eccezione.
Rapporti
bilaterali
Fatte
queste premesse, viene da chiedersi perché la Svizzera e l’Italia cercarono un
accordo sull’emigrazione in un momento in cui i flussi migratori tra la
Svizzera e l’Italia, in entrambe le direzioni, erano quasi inesistenti. Non va
infatti dimenticato che per l’Italia essi non erano ancora cominciati e per la
Svizzera erano ormai in fase calante. Ci si può anche chiedere se la questione
del domicilio costituiva un rilevante «interesse reciproco».
Per
poter rispondere a queste domande mi sembra opportuno ricordare anzitutto che
all’indomani dell’Unità d’Italia i due Paesi intendevano in un arco di tempo
ragionevole confermare o rinegoziare diversi accordi precedenti a cominciare da
quello commerciale del 1851. Senonché, appena iniziate le trattative, a questo
tema ne furono aggiunti altri due dall’Italia (sulla proprietà letteraria e
sull’estradizione) e un terzo dalla Svizzera (trattato di domicilio e
consolare). Per la Svizzera le quattro materie potevano essere trattate
separatamente, ma l’Italia insistette per una trattazione simultanea, ciò che
spiega l’allungamento dei tempi, fino al 22 luglio 1868, quando i quattro
trattati vennero firmati, tre a Firenze (allora capitale d’Italia) e uno a
Berna.
Interessi
reciproci
Tornando alle domande precedenti, a questo punto è
facile rispondere che molto probabilmente la questione dei «flussi» migratori interessava
ben poco, mentre la questione del «domicilio» interessava sia la Svizzera che
l’Italia avendo entrambe un numero quasi equivalente di propri cittadini
nell’altro Paese (poco più di 12.000 residenti per parte). La Svizzera era
tuttavia più interessata dell’Italia a garantire ai propri cittadini condizioni
di vita e di lavoro favorevoli e stabili, tanto è vero che aveva concluso
accordi di domicilio, in regime di reciprocità, persino con gli Stati Uniti (nel
1850, quando gli emigrati svizzeri erano già diverse migliaia, mentre gli
americani in Svizzera erano poche centinaia) e con la Gran Bretagna (nel 1855),
in condizione simile a quella degli Stati Uniti.
La Confederazione era tuttavia interessata soprattutto
ad avere rapporti di buon vicinato, anche a garanzia della propria neutralità e
integrità territoriale, con i grandi Stati confinanti. Aveva già concluso un trattato
di amicizia con la Francia (1864) e intendeva fare altrettanto con l’Italia (1868),
l’Austria (1875) e la
Germania (1876). In quell’epoca
piuttosto turbolenta la Svizzera si preoccupava che i suoi confini non fossero
violati da alcun Paese, anche solo per accorciare i tempi di spostamenti di
truppe e materiale bellico in caso di guerra.
Nei
confronti del Regno d’Italia (1861), fin dalla sua proclamazione la Svizzera
era interessata, in regime di reciprocità, a intrattenere non solo rapporti di
buon vicinato, a intensificare i rapporti commerciali esistenti e ad assicurare
ai propri cittadini residenti in Italia condizioni favorevoli alle loro
attività, ma anche, come si vedrà, al coinvolgimento dell’Italia nella
realizzazione del progetto di collegamento ferroviario nord-sud attraverso il
San Gottardo.
Anche
l’Italia era interessata ad avere al confine settentrionale uno Stato sovrano amico,
con cui sviluppare i rapporti commerciali, e ad assicurare ai propri cittadini
residenti in Svizzera ampie libertà e garanzie. La prospettiva di una
collaborazione con la Svizzera e la Germania per realizzare un collegamento
ferroviario da Genova all’Europa centrale attraverso il Gottardo era tuttavia solo
da poco tempo una opzione del governo italiano.(Segue)