16 ottobre 2018

Immigrazione, xenofobia e integrazione


Alcuni lettori che seguono più o meno regolarmente i miei articoli, ritengono che il mio discorso sui migranti e in particolare sull’accoglienza, l’inserimento, la formazione professionale e lo sviluppo sostenibile manchi di realismo e  non tenga conto delle effettive capacità d’inclusione e realizzazione della società, specialmente di quella italiana. Cercherò di chiarire il mio pensiero e di precisare alcuni concetti che lo sostanziano. Premetto che rispetto qualunque visione del problema diversa dalla mia, eccetto quelle che visibilmente confliggono col principio delle preminenza della dignità umana e col principio fondamentale per la convivenza umana dello Stato al servizio dell'uomo e non viceversa.

Migrazione, fenomeno complesso
Quando parlo di «migrazione» mi riferisco in generale al fenomeno migratorio nella sua complessità storico-esistenziale, ossia alla «mobilità» che caratterizza l’umanità fin dalla più remota antichità. Il fenomeno stanziale è nella storia dell’umanità piuttosto recente. Per millenni i movimenti erano per lo più unidirezionali: i popoli che si spostavano da un posto a un altro ritenuto più sicuro, più fertile, più  adatto alla sopravvivenza, non facevano più ritorno al luogo di partenza.
Non tutte le migrazioni di massa erano spontanee e pacifiche, anzi erano sovente precedute e seguite da guerre. Il movimento era spesso generato da spinte esterne, come al tempo delle invasioni barbariche (dal 166 al 476 d.C.), quando l’invasione di un popolo provocava la fuga e l’invasione di un altro popolo, che viveva magari pacificamente. I fuggitivi-invasori non incontravano quasi mai una buona accoglienza per cui le guerre per la sopravvivenza erano inevitabili. Anche gli Elvezi, nel primo secolo avanti Cristo, pressati dai vicini Germani, cercarono di spostarsi in massa verso la Gallia, ma la loro migrazione fu bloccata da Giulio Cesare nella battaglia di Bibracte (58 a.C.) con decine di migliaia di morti.
Dall’epoca postcoloniale le migrazioni non sono più paragonabili alle invasioni barbariche, sono generalmente pacifiche perché i migranti non sono armati, fuggono soltanto per spirito di sopravvivenza da territori infestati da guerre, violenze, persecuzioni e soprattutto miseria. Quando parlo di «migrazione» mi riferisco non a un fenomeno astratto, ma alla realtà dolorosa di questi esseri umani minacciati in alcuni valori costitutivi della persona, la vita, la dignità e la speranza. Queste persone non possono essere discriminate in ciò che hanno di più caro e di comune a tutti gli esseri umani. Esse vanno salvate e assistite.

Prima di tutto l’accoglienza
La mia realtà di riferimento sono persone in carne e ossa che fuggono, che cercano la salvezza, che cercano disperatamente un approdo sicuro in Europa e in Italia. Sono bambini ai quali la vita ha concesso finora poche speranze di sopravvivenza. Sono madri e padri che si ribellano a un destino crudele che sembra non lasciare scampo né a loro né ai loro figli se non attraverso una fuga pericolosa e senza garanzia di salvarsi. Sono le migliaia di disperati che alcune navi di soccorso generose e pietose riescono a far salire a bordo e fanno sbarcare in qualche porto sicuro. Li chiamo anch’io, come ormai in uso, sebbene inizialmente fossi contrario a questa terminologia, «migranti».
A questi «migranti» vorrei che si garantisse sempre il primo soccorso, in mare e in terra, pensando che si tratta di persone come me e come te, che prima di essere eritrei, somali, siriani o di qualsivoglia nazionalità, hanno la stessa dignità di tutti gli esseri umani. Accogliere un tale «migrante» significa anzitutto difendere la «nostra» dignità. Solo dopo la prima accoglienza può e deve seguire tutto il resto, l’identificazione, gli esami, ecc. conformemente alle leggi e alle possibilità.
Decidere già prima del soccorso e dello sbarco se i «migranti» che si trovano quasi sempre «in cattive acque» meritano o no di essere accolti mi sembra impietoso e disumano. Non è umano negare al proprio simile il diritto alla vita e alla speranza, facendo appello a responsabilità assolutamente sproporzionate come la «difesa dei confini», «tra i migranti si nascondono trafficanti di esseri umani», dobbiamo assistere «prima i nostri», «l’Unione europea non ci aiuta abbastanza», e simili scuse. Questi discorsi, semmai, si fanno dopo l’accoglienza, l’identificazione e la prima sistemazione, non prima.
Per senso di concretezza non sono contrario al rimpatrio di chi non ha titoli per restare, ma preferisco il modello svizzero, che incoraggia i rimpatri  «volontari», piuttosto che praticare i difficili rimpatri forzati. «La lunga esperienza della Svizzera mostra che i ritorni volontari funzionano, sono più economici e, soprattutto, più umani. I rinvii forzati vanno applicati soltanto come ultima ratio» (Simonetta Sommaruga, consigliera federale).
Anch’io sono convinto che l’Italia non può farsi carico di tutti i profughi del mondo e nemmeno di tutti quelli a cui assicura la prima accoglienza. Qualcosa però può fare, almeno a una parte dei «migranti» che ne fanno richiesta e hanno i titoli per chiedere l’asilo o il soggiorno. Oggi che si parla tanto di investimenti, perché non investire almeno un po’ anche nell’integrazione degli immigrati?

La xenofobia danneggia l’Italia
Poiché ogni governo ha bisogno del consenso popolare per governare, anche quello italiano, ma non è purtroppo da solo, spera di conquistarsi il sostegno popolare (spendibile anche in altre occasioni) diffondendo un’idea dei «migranti» falsa e tutto sommato dannosa per il Paese. Quest’idea è che la «massa» dei migranti rappresenti una minaccia per la società italiana, perché tra di loro si nascondono pericolosi criminali, scafisti, spacciatori, clandestini, sbandati, potenziale manovalanza per la criminalità organizzata, ecc. In altre parole, si alimenta tra la gente la «paura dello straniero», ossia la xenofobia.
A chi non conosce da vicino la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera vorrei ricordare che negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso la xenofobia colpiva soprattutto gli italiani. Si tennero anche votazioni popolari per limitare la presenza degli stranieri (allora erano soprattutto italiani) e la stampa italiana scriveva articoli infuocati contro la xenofobia svizzera. Oggi, in Italia, i media sembrano ammutoliti, forse perché gli stranieri sono africani, profughi, «migranti» senza arte né parte, presunti «invasori» per portare via il lavoro e il benessere agli italiani.
Eppure dovrebbe essere abbastanza chiaro che la xenofobia, anche nelle forme più blande senza sfociare nel razzismo e nell’odio, fa male all’Italia perché getta discredito su una parte produttiva o potenzialmente produttiva di persone che contribuisce o contribuirà ad assicurare il benessere di tutti, rischia di alimentare una guerra tra poveri, crea un clima di pericolosi scontri sociali, dà fiato alle voci che invocano le maniere forti.
Qualcuno potrebbe obiettare che il governo è così perché così lo vuole la maggioranza degli italiani. L’obiezione è solo in parte vera, nel senso cioè che il popolo italiano ha votato indirettamente questo governo e non un altro; è falsa quando lascia supporre che la maggioranza degli italiani sia xenofoba. Il popolo italiano è infatti in grande maggioranza molto accogliente e generoso quando si tratta di aiutare chi è nel bisogno. Lo sarebbe probabilmente ancora di più se si raccontasse in modo diverso il fenomeno migratorio, facendogli capire per esempio che dall’apporto degli stranieri dipende anche il nostro benessere, che spendere risorse per l’inserimento degli immigrati è un ottimo investimento, che il «nostro» futuro dipende anche dal loro presente.

L’integrazione è necessaria
La narrazione positiva dell’immigrazione ovviamente non deve limitarsi al primo momento, quello dell’accoglienza e della prima sistemazione, che vede prevalere soprattutto i costi. Il discorso va ampliato all’intera vita dell’immigrato, tenendo conto che almeno una parte, quella dell’infanzia, non è costata nulla o poco al Paese di accoglienza e che per renderla positiva e produttiva occorrono una reale integrazione e investimenti adeguati.
Anche al riguardo il mio discorso è molto concreto. Non si può pretendere che un immigrato sia da subito produttivo e utile alla società. Ha bisogno di tempo, se è un giovane adulto (come gran parte degli immigrati), per orientarsi nella società, ha bisogno di imparare la lingua del posto per comunicare, deve apprendere un mestiere perché il mondo del lavoro occidentale è molto esigente, deve avere il tempo per crearsi una rete sociale, ecc.
Il periodo dell’inserimento sociale, formativo e professionale è delicato, fondamentale e necessario anche perché il lavoro e un’adeguata formazione linguistica e professionale sono strumenti formidabili d’integrazione. Una persona bene integrata, soddisfatta del lavoro che svolge, è una persona che realizza non solo sé stessa e i suoi sogni, ma contribuisce anche al benessere del Paese che lo ha accolto e di cui non potrà che dir bene.
All’eventuale obiezione che l’Italia non ha sufficienti risorse per far seguire questo percorso d’integrazione, desidero rispondere che se il percorso è ritenuto utile e necessario le risorse si trovano. L’esempio dell’apprendistato svizzero, che comprende periodi di formazione e periodi di lavoro, è un modello anche sotto il profilo dei costi, perché nel rapporto costi-benefici questi superano di gran lunga i primi: se ne avvantaggiano gli apprendisti, i datori di lavoro, lo Stato (perché l’apprendistato costa meno di un liceo o un’altra formazione teorica) e l’intera società che può contare sui proventi di un’economia ad alto valore aggiunto. L’Italia dovrebbe sperimentarlo e i risultati ne dimostreranno facilmente l’utilità.
Giovanni Longu
Berna, 16.10.2018