21 marzo 2018

Tracce d'italianità nell'agglomerazione di San Gallo


L’agglomerazione di San Gallo, con i suoi circa 170.000 abitanti è una delle più piccole tra le 8 principali agglomerazioni della Svizzera (la città di San Gallo conta poco più di 75.000 abitanti), ma non tra le meno importanti sotto l’aspetto storico, religioso, economico e culturale. Il complesso abbaziale, con la sua famosa biblioteca e la cattedrale, appartiene al patrimonio mondiale dell’Unesco. Gli italiani hanno fornito un contributo importante allo sviluppo della città e della regione. 

L’abbazia di San Gallo
San Gallo, come altre città della Svizzera, si è sviluppata attorno a un monastero, quello appunto di San Gallo, situato nella Svizzera nord-orientale, in un territorio sulla riva sinistra del Reno e del Lago di Costanza tra Basilea e San Gallo un tempo disseminato di conventi importanti come quello di Ognisanti di Sciaffusa, l'abbazia benedettina di Reichenau nell’isola omonima del lago di Costanza, il convento di Santa Verena di Zurzach, il monastero dei canonici agostiniani di Kreuzlingen e l’abbazia di San Gallo, l’insediamento monastico più importante della regione. All’origine si trattava di un eremo, ossia un luogo isolato di preghiera, voluto nel 612 da un monaco irlandese, Gallo. Alla sua morte, nel 645 rischiava di scomparire. A tenerlo in vita, trasformandolo in un convento, pensò nel 719 il monaco benedettino Otmaro, che gli lasciò il nome del fondatore. Ricordare queste origini è importante, perché ad esse risalgono anche i primi germi dell’italianità di San Gallo. Il monaco Gallo, infatti, nel 612 stava accompagnando il suo maestro e confratello Colombano in viaggio verso l’Italia. Evidentemente sia l’uno che l’altro avevano già una certa conoscenza dell’Italia e di Roma come centro della cristianità.
E’ anche importante ricordare che il convento fondato nel 614 in Italia, a Bobbio (provincia di Piacenza), da Colombano – oggi conosciuto come Abbazia di San Colombano, ha avuto in tutto il Medioevo intensi contatti con l’abbazia di San Gallo. Del resto nella celebre biblioteca sangallese sono conservati numerosi manoscritti di autori non solo latini classici, ma anche di «italiani» contemporanei come Prudenzio (348-413), Cassiodoro (485-585), Paolo Diacono (720-799), cronache di viaggi, ecc. Gli scambi tra le due abbazie dovevano essere molto frequenti e intensi perché entrambe rappresentavano in quei secoli due dei più importanti centri monastici e culturali d'Europa.
Si sa anche che durante il Medioevo esistevano rapporti commerciali tra San Gallo e il Nord Italia (soprattutto Venezia e Lombardia), come pure che l’abbazia di San Gallo possedeva delle vigne in territorio italiano.

Fioritura e decadenza dell’abbazia
L’abbazia di San Gallo ha attraversato periodi di grande fioritura e di decadenza, legati spesso al nuovo stato acquisito nella prima metà del IX secolo di «abbazia imperiale» e «principato abbaziale», di fede cattolica e di potere assoluto. Esso comportava diversi privilegi, soprattutto economici, e un vasto territorio sottomesso, ma anche la perdita di autonomia nella nomina degli abati, ormai appartenenti esclusivamente alla nobiltà, e la forte dipendenza politica dalle sorti dell’imperatore. Questi condizionamenti incisero profondamente sui destini futuri dell’abbazia.
Quando il vento della Riforma protestante investì anche il principato abbaziale, alle considerazioni religiose si mescolarono aspirazioni all’autonomia politica. In un primo tempo la Riforma prevalse (1527) e il principato e il principe abate fu costretto a fuggire.
San Gallo: celebre biblioteca abbaziale
Ad approfittarne fu soprattutto la città di San Gallo, allora in forte espansione, che si era impossessò degli edifici del convento. Non poté però goderne a lungo, perché, dopo la seconda guerra di religione e la vittoria dei Cantoni cattolici a Kappel (1531), dovette restituire tutto al principato abbaziale, che aveva ripreso il potere perso, e a San Gallo venne ristabilito il culto cattolico. Durerà tuttavia ancora a lungo la controversia dell’Abbazia coi vescovi di Costanza e di Coira, dalla cui giurisdizione religiosa voleva sottrarsi. Essa si risolverà solo quando, sotto l’influsso della Rivoluzione francese, il principato abbaziale di San Gallo fu definitivamente soppresso (1805) dal nuovo Canton San Gallo (voluto da Napoleone nel 1803) e, nel 1823, il Papa Pio VII istituì la doppia diocesi di Coira-San Gallo, fino a quando San Gallo divenne diocesi autonoma (1847).

Immigrati italiani a San Gallo
Nei periodi di grande vitalità intellettuale e spirituale l’abbazia di San Gallo attirava studiosi e intellettuali da tutta l’Europa, anche dall’Italia. Due di essi meritano di essere ricordati in particolare, Poggio Bracciolini (1380-1459), un umanista toscano, e il cardinale di Milano Carlo Borromeo (1538-1584), grande sostenitore della Riforma cattolica. Non furono tuttavia molti i viaggiatori «italiani», almeno quelli noti, che hanno visitato San Gallo prima del Settecento, come pure i sangallesi in viaggio per l’Italia.
Nel Settecento, quando cominciò a diffondersi in Europa la voglia di viaggiare, anche i rapporti tra l’Italia e San Gallo s’intensificarono. Ma fu solo verso la fine dell’Ottocento che gli italiani cominceranno ad arrivare in gran numero anche a San Gallo, come in molte altre città della Svizzera, non spinti tuttavia da interessi culturali ma essenzialmente per motivi di lavoro, come migranti.
L’aumento della popolazione (tra il 1850 e il 1910 sarebbe passata da 17.858 a 75.482 abitanti), i bisogni crescenti e anche l’esigenza di trasporti più frequenti ed efficienti stimolavano a San Gallo ogni tipo di attività industriale e commerciale. Si trattava anche di recuperare il ritardo che molte città avevano accumulato rispetto ad altre città europee. La manodopera indigena, tuttavia, non era sufficiente per poter sviluppare nello stesso tempo la rete dei trasporti, l’industria, l’edilizia residenziale e commerciale, i servizi. Il ricorso alla manodopera estera fu inevitabile. Ben presto però anche quella proveniente dai Paesi vicini Austria e Germania si rivelò insufficiente (e molto costosa) e gli imprenditori sangallesi spostarono la ricerca anche a sud, all’Italia del Nord, resa più vicina dall’apertura della galleria ferroviaria del San Gottardo (1882).

Molti e malvisti
Sebbene le condizioni di lavoro fossero pesanti e le paghe basse, gli italiani, tra cui moltissime donne, arrivarono in gran numero, come evidenziarono i censimenti della popolazione. Nel 1910 la comunità italiana contava a San Gallo ben 7.337 persone ed era una delle più consistenti della Svizzera.
Nel 1910, un ispettore di San Gallo incaricato di verificare le condizioni abitative degli italiani (peggiori di quelle degli svizzeri e dei tedeschi) diede la seguente spiegazione: gli italiani venivano sempre più numerosi a lavorare nelle fabbriche di ricamo della regione a richiesta dei loro padroni «perché questi meridionali si adattano molto bene e inoltre lavorano a più buon mercato della gente del posto». In alcune fabbriche essi costituivano la metà e in certi casi i tre quarti della manodopera ausiliaria. Gli italiani servivano (all’industria, all’edilizia, al genio civile, ecc.), eppure erano malvisti.
L’ondata antistranieri che aveva investito a fine Ottocento Berna, Basilea, Zurigo e altre città, non risparmiò San Gallo. E se a Zurigo nel 1900 si cominciò a parlare di «inforestierimento» (Überfremdung) e di «invasione» degli stranieri, a San Gallo si parlò chiaramente di «invasione degli italiani», degli sporchi italiani (schmutzige cinken). Si costituì persino un’associazione di proprietari di case per cercare di tenere gli italiani lontani dai quartieri residenziali, riuscendovi in parte, perché non si riuscì a frenare lo spirito imprenditoriale degli italiani. 

Associazionismo solidale e … libero
Per salvaguardare i propri interessi, gli immigrati cercarono subito di organizzarsi. Nel 1890 venne fondata la «Società degli Scultori e Marmisti», cui seguirà nel 1892 la «Lega Muratore di San Gallo e dintorni» e nel 1897 la società di mutuo soccorso denominata «Patria». In seguito vennero aperti locali, negozi e ristoranti italiani, accessibili anche agli svizzeri, favorendo in tal modo la reciproca conoscenza e la pacifica convivenza.
Nel 1905 su 1652 italiani che in Svizzera esercitavano professioni liberali, il maggior numero risiedeva nei Grigioni (373) e nel Cantone di San Gallo (264), distanziando di molto Zurigo (117), Ginevra (120) e tutti gli altri Cantoni.
La prima guerra mondiale distolse provvisoriamente l’attenzione dai problemi migratori, che però si ripresentarono in altra forma pochi anni dopo. Sotto il fascismo infatti sembrava che l’immigrazione italiana dovesse essere governata anche a San Gallo dal Fascio locale, dalla Casa d’Italia e dalla Dante Alighieri (fondata nel 1911).
San Gallo: manifestazione 1° maggio, primi anni '70
L’associazionismo libero rifiorì nel secondo dopoguerra, quando insieme al nuovo flusso immigratorio verso la Svizzera e anche verso San Gallo ripresero vigore anche i vecchi problemi di convivenza con la popolazione locale, ma anche una volontà comune per risolverli. Ne furono protagonisti le associazioni italiane rappresentate nel Comites, la Missione cattolica italiana, le chiese locali (il mensile della chiesa evangelica del Cantone di San Gallo Kirchenbote, intervenne più volte sulla difficile situazione degli immigrati), le autorità consolari italiane e le autorità civili sangallesi.
Il risultato, saltando ovviamente, molte tappe, fu l’elevato grado d’integrazione raggiunto dalla comunità italiana e il riconoscimento dell’apporto notevole che gli italiani hanno dato allo sviluppo della Città e del Cantone di San Gallo (cfr. Storie di italiani nella Svizzera Orientale, 2001). Oggi gli stranieri residenti nel Cantone hanno i diritti politici in materia comunale e per i giovani sono previste procedure facilitate per la naturalizzazione.

A questo punto è doveroso chiedersi: dove vanno cercate le tracce d’italianità nell’agglomerazione di San Gallo? La risposta mi sembra facile: anzitutto nella storia di questa città, ma anche nelle strade, nelle piazze e nelle costruzioni che gli italiani hanno contribuito a realizzare, nell’università e in tutti i luoghi dove s’insegna e si pratica ancora l’italiano (purtroppo in declino!), nelle iniziative delle associazioni italiane, nei bar e ristoranti in cui si consumano prodotti italiani, ma soprattutto nella continuità dell’italianità attraverso le seconde e successive generazioni di italiani.
Giovanni Longu
Berna, 21.03.2018

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