29 novembre 2017

I 500 anni della Riforma e i «potenti» del mondo



Il 31 ottobre scorso è stato celebrato nel mondo protestante il 500° anniversario dell’avvio della Riforma. Si racconta infatti che il 31 ottobre 1517 il monaco agostiniano Martin Lutero abbia affisso alla porta della chiesa del castello di Wittenberg 95 tesi di contestazione di dottrine e pratiche della Chiesa di Roma. Con quella pubblicazione si fa iniziare il movimento religioso passato alla storia col nome di «Riforma» o «Riforma protestante». Va comunque ricordato perché nell’arco di pochi anni produsse una profonda lacerazione nel mondo cristiano e ancora oggi non si vede, almeno sul piano dottrinale, una prossima riconciliazione con la Chiesa cattolica romana. Senza entrare nel merito della disputa teologica, materia di specialisti, se ne parla in questa rubrica perché la Riforma non fu solo un movimento religioso, ma anche politico e sociale e in Svizzera interessò da vicino anche la vita di molti immigrati.

Contesto in cui si sviluppò la Riforma
Martin Lutero
Mi sembra utile, anzitutto, premettere che quanto avvenuto nel 1517, non fu un atto isolato di ribellione che ebbe successo, ma l’espressione più eclatante di una contestazione molto diffusa in quel periodo nel popolo cristiano. In quel tempo, infatti, la Chiesa di Roma, il papato e la gerarchia e più in generale il clero si trovavano in una condizione di degrado morale spaventoso, in netto contrasto con i principi evangelici. Erano i tempi, per fare solo un breve accenno, in cui i Papi si comportavano più come principi, talvolta corrotti e ambiziosi, che come «vicari in terra di Cristo». Non erano affatto stinchi di santi, per usare un eufemismo, Alessandro VI, Giulio II, Leone X, anche se saranno ricordati, specialmente nei libri d’arte, per aver fatto lavorare in Vaticano Leonardo da Vinci, Raffaello, Michelangelo, Bramante e altri artisti del Rinascimento.
Del resto, la depravazione di Alessandro VI Borgia (accusato di avere numerose amanti e sette figli), l’astuzia e la durezza di Giulio II e l’ambizione di Leone X non scandalizzavano i potenti del mondo, con cui gareggiavano senza scrupoli nell’esercizio e nell’esibizione del potere, né gli alti prelati della Chiesa che molto spesso ne seguivano i cattivi esempi e nemmeno il clero ordinario, abbandonato a sé stesso. Scandalizzavano semmai, sempre di più, la gente semplice provata dalle guerre e dalle carestie, i pellegrini che arrivavano a Roma per l’Anno Santo (1500) e venivano a sapere della corruzione che regnava soprattutto nelle alte gerarchie. Conoscevano la triste situazione certamente i membri di alcuni ordini religiosi e qualche vescovo.
Erano sempre più numerose le richieste di un rinnovamento spirituale della Chiesa, ma non venivano recepite né dai papi né dai responsabili della Curia romana. Una vera riforma avrebbe comportato la rinuncia almeno in parte del potere temporale. Solo quando ci si rese conto che alcune voci di intellettuali e di monaci, soprattutto fuori dell’Italia, si facevano sempre più insistenti, venne convocato il Concilio Lateranense V (Roma 1512-1517), ma fu un tentativo tardivo: in Germania era già stata avviata la Riforma e in Svizzera facevano opinione le denunce del grande teologo umanista Erasmo da Rotterdam e altri «riformatori» si apprestavano a seguire il movimento di Lutero.

Contrasto insanabile non solo sulle indulgenze
La causa scatenante della ribellione di Lutero fu l’iniziativa del Papa Leone X di finanziare il rifacimento della Basilica di San Pietro in Vaticano attraverso la «vendita» delle indulgenze, un’operazione, secondo il monaco agostiniano, scandalosa e insostenibile. La pubblicazione delle 95 tesi avviò un ampio dibattito pubblico, specialmente tra teologi, incentrato sulle indulgenze (ossia sulla cancellazione della pena temporale dei peccati per intervento della Chiesa). La discussione, spesso senza alcun coinvolgimento popolare (anche perché l’ignoranza era una piaga molto diffusa) non risparmiò l’intera dottrina cristiana (la fede, la salvezza, i sacramenti, specialmente l’Eucaristia), l’interpretazione della Sacra Scrittura, le istituzioni ecclesiastiche, la pratica religiosa.
Ben presto, tuttavia, il dibattito specialistico uscì dalle aule universitarie e dalle chiese e divenne un movimento popolare, guidato spesso da «uomini di potere» più che da uomini di Chiesa, che finì per superare gli stessi confini della Germania, indirizzandosi sempre più nettamente verso la definitiva rottura con la Chiesa di Roma e col Papa. A ben vedere, infatti, le riflessioni di Lutero, ma anche degli altri riformatori, finivano per rendere marginali se non inutili le «istituzioni» ecclesiastiche e quindi in primo luogo il Papato. Nel rapporto dell’uomo con Dio la mediazione della Chiesa è inutile, sosteneva Lutero a proposito delle indulgenze, perché la giustificazione dal peccato avviene «attraverso la sola fede».
Non era facile, tuttavia, sia in Germania che in Svizzera, far accettare dal popolo e dalle istituzioni le tesi dei riformatori, sia per il tradizionale attaccamento di molti cattolici al Papa e alla Chiesa di Roma e sia per l’interesse delle istituzioni politiche dominanti a non turbare quella sorta di «pace religiosa» che consentiva la stabilità anche politica. Per ottenere un reale cambiamento occorreva il sostegno dei potenti locali. Per questo tutti i grandi riformatori, a cominciare da Lutero, cercarono il loro coinvolgimento, spesso riuscendovi.
In questo modo, però, la Riforma, da movimento religioso e culturale finì per trasformarsi anche in movimento politico e civile, guidato e diretto da «uomini di potere» più che da una prorompente volontà popolare. Un passaggio non indolore, né in Germania né in Svizzera, che avvenne attraverso lotte, addirittura guerre fratricide, che lasciarono lungamente i segni, talvolta in una netta separazione e opposizione tra protestanti e cattolici.

I due riformatori svizzeri: Zwingli e Calvino
La Riforma ebbe in Svizzera soprattutto due protagonisti: Zwingli a Zurigo e nella Svizzera tedesca e Calvino a Ginevra e nella Svizzera francese (cfr. in proposito l’articolo «Capire la Svizzera» su L’ECO del 9.3.2017).
Ulrich Zwingli
A Zurigo, Ulrich Zwingli, riuscì a convincere delle proprie idee non solo le autorità cittadine e cantonali, ma anche quelle di altri Cantoni, sicché il suo messaggio riformatore si diffuse in poco tempo in buona parte della Svizzera tedesca, non senza concreti vantaggi (soprattutto materiali) anche per le autorità civili. Zwingli sosteneva per altro che spettasse allo Stato, ossia ai Cantoni, riformare la Chiesa. E molti Cantoni assunsero di buon grado compiti che prima non avevano, come la soppressione degli ordini religiosi e dei conventi (con conseguente acquisizione delle proprietà da parte dello Stato), ecc.
Non fu facile, tuttavia, convincere il popolo dei credenti. Zwingli incontrò molte difficoltà con alcuni gruppi di suoi stessi seguaci (per es. gli anabattisti), ma soprattutto con i cattolici tradizionalisti che intendevano restare fedeli al Papa. 
Giovanni Calvino
L’intera Svizzera fu sconvolta dal vento della Riforma. I Cantoni si divisero tra protestanti e cattolici e in più occasioni si giunse a scontri militari (in uno dei quali perse la vita lo stesso Zwingli) fino a rischiare nel 1847 una vera e propria guerra fratricida tra Cantoni cattolici riuniti in un Sonderbund (alleanza speciale) e Cantoni protestanti. La Costituzione federale del 1848 sancì la fine dei contrasti istituzionali, garantendo a tutti i confederati la libertà religiosa, ma le difficoltà di convivenza tardarono a scomparire.
A Ginevra fu Jean Calvin o Giovanni Calvino a guidare e organizzare la Riforma, accentuando, rispetto a Lutero e a Zwingli, il rifiuto della supremazia papale, l’idea che la salvezza è solo opera di Dio concessa ad alcuni (predestinati) e negata ad altri (destinati alla dannazione), il rifiuto della Chiesa come unica interprete della Sacra Scrittura.
Nei confronti dello Stato, a differenza di Zwingli, Calvino mantenne un certo equilibrio sostenendo che la Chiesa dei predestinati è solo soggetta a Dio ma lo Stato è pure voluto da Dio per assicurare la prosperità temporale dei cittadini.

Divisioni insanabili?
Sulla Riforma nel suo complesso i giudizi sono ancora divisi e probabilmente un giudizio definitivo non si avrà mai, anche perché è difficile o impossibile «pesare» con obiettività il contributo positivo della Riforma ai cambiamenti intervenuti nella Chiesa cattolica (a cominciare dal Concilio di Trento, 1545-1563) e nelle società di tutto l’occidente, ma anche il danno ch’essa ha prodotto lacerando profondamente l’ortodossia cristiana, accentuando il rapporto tra potere politico e potere religioso, introducendo nel popolo di Dio divisioni inutili e dannose, alimentando odio e intolleranza, per non parlare del danno materiale e culturale prodotto con la soppressione di ordini religiosi, la distruzione di opere d’arte, ecc.
Papa Francesco a Malmo per i 700 anni della Riforma
Persino l’immigrazione italiana ha sofferto e non poco, secondo numerose testimonianze, del predominio dei protestanti in alcune realtà locali al tempo delle grandi costruzioni ferroviarie. E ancora nel dopoguerra da certi politici si guardava con sospetto l’arrivo di molti immigrati italiani (e spagnoli) per lo più cattolici, perché rischiavano di alterare gli equilibri confessionali di allora, per non parlare delle difficoltà per i matrimoni misti tra cattolici e protestanti e altro ancora.
Per ricordare il 500° della Riforma, il 31 ottobre scorso, papa Francesco si è recato a Malmo, in
Svezia, in spirito di fratellanza e di riconciliazione. Questo non gli ha impedito di osservare con spirito critico, che occorre riconoscere che «la nostra divisione si allontanava dal disegno originario del popolo di Dio…. ed è stata storicamente perpetuata da uomini di potere di questo mondo più che per la volontà del popolo fedele». Condivido pienamente questa verità storica, anche perché il papa lascia chiaramente intendere che tra questi uomini di potere vanno annoverati anche i papi dell’epoca, i prelati della Curia romana e numerosi vescovi e abati che si comportavano da «potenti della terra» più che da uomini di Chiesa al servizio del popolo fedele.
Non so a questo punto quanto sia vicina o lontana la riconciliazione tra le due confessioni, ma sono convinto che continuare a sostenere la divisione e la separazione sia deleterio per entrambe, per cui anche il buon senso vorrebbe quanto prima il superamento delle divergenze dottrinali (umane e non certo divine) e il ritrovamento di una guida comune nello spirito del Vangelo. Non credo che si possa parlare di divisioni insanabili.
Giovanni Longu
Berna, 29.11.2017

28 novembre 2017

Scalabriniani: 130 anni di fede e d’impegno per i migranti


Mons. Giovanni Scalabrini (1839-1905)

Il beato Giovanni Scalabrini (1839-1905) non è stato solo un grande testimone della fede cristiana, della statura di coloro che vengono venerati dai fedeli come santi o beati, ma anche un personaggio importante della storia dell’emigrazione italiana dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino ad oggi e certamente anche domani.
Egli fu senz’altro uomo di fede, uomo di preghiera, uomo di Chiesa, ma è stato anche un uomo moderno, che ha capito come pochi altri, l’importanza, la natura, i rischi e le esigenze dell’emigrazione. Ancora oggi alcuni suoi interventi pubblici sono di grande attualità, anche se non riguardano più (solo) gli italiani.

Mons. Scalabrini, allora vescovo di Piacenza, vide con straordinaria lucidità la complessità e drammaticità del fenomeno migratorio, allora diretto soprattutto verso le Americhe, lo analizzò fino in fondo e lo prese tanto a cuore da istituire, 130 anni fa, una Congregazione religiosa, quella dei Missionari Scalabriniani (alcuni dei quali operanti ora anche in Svizzera), perché se ne occupasse nei Paesi d’immigrazione. Al centro dell’attenzione e della cura dei missionari doveva esserci sempre l’uomo, con tutti i suoi bisogni, i suoi difetti e le sue aspirazioni.
Mons. Scalabrini, uomo del suo tempo, considerava come molti altri l’emigrazione un «diritto naturale», quindi da difendere, e una «valvola di sicurezza sociale», per sfuggire alla povertà e dare speranza alle famiglie; ma non sempre ne condivideva i modi con cui quei «poveretti» abbandonavano tutto e partivano attratti dal miraggio di un «lavoro ben retribuito per chiunque avesse braccia vigorose e buona volontà». Sosteneva che se è dovere difendere la «libertà di emigrare», «è anche dovere di opporsi alla libertà di far emigrare: è dovere delle classi dirigenti di procurare alle masse de' proletari un utile impiego delle loro forze, di aiutarli a cavarsi dalla miseria e di indirizzarli alla ricerca di un lavoro proficuo…». Si era nel 1889. Se il messaggio di Mons. Scalabrini fosse stato accolto e realizzato dalle classi politiche di allora, probabilmente l’emigrazione italiana nel mondo avrebbe assunto tutt’altre caratteristiche.
Invece, Mons. Scalabrini, non poteva non vedere i rischi a cui andavano incontro quei poveri emigranti e chiedersi preoccupato: «Quanti disinganni, quanti nuovi dolori prepara loro l’incerto avvenire? Quanti nella lotta per l’esistenza usciranno vittoriosi?...». Un’altra domanda però l‘assillava in quanto uomo di fede e di Chiesa: «Quanti, pur trovando il pane del corpo, verranno a mancare di quello dell’anima, non meno del primo necessario, e smarriranno in una vita tutta materiale, la fede de’ loro padri?».
Al centro delle considerazioni di Mons. Scalabrini sui migranti c’era sempre l’uomo integrale, anima e corpo. Un’attenzione dalla quale i suoi successori non hanno mai deviato, tanto è vero che, ancora oggi, attorno alla chiesa o cappella delle Missioni si svolge tutta una serie di attività sociali e assistenziali che contribuiscono a creare e a consolidare appunto l’uomo integrale.
Auguri, Padri Scalabriniani!
Giovanni Longu
Berna, 28.11.2017