22 novembre 2017

Italiani in Svizzera: 30. Gli anni Sessanta segnarono una svolta



Gli anni Sessanta del secolo scorso sono stati importanti non solo a livello globale (guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica), ma anche a livello locale, nella maggior parte dei grandi Paesi europei. Anche per l’Italia e la Svizzera gli anni Sessanta segnarono cambiamenti profondi. L’Italia visse il periodo del «miracolo economico» senza per altro riuscire ad avvicinare nord e sud, settentrionali e meridionali. La Svizzera proseguì lo sviluppo economico avviato subito dopo la guerra, apparentemente senza ostacoli, in realtà accentuando le disparità tra svizzeri e stranieri. Gli italiani in particolare furono messi di fronte a una scelta difficile: rientrare o integrarsi.
Gli anni Sessanta
A livello mondiale gli anni Sessanta rappresentarono il periodo di massimo rischio di una nuova guerra mondiale a causa delle forti tensioni tra est e ovest, tra l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov e gli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy (crisi di Cuba, ottobre 1962). Fortunatamente si giunse da entrambe le parti a più miti consigli e una serie di accordi ridusse le tensioni tra le due superpotenze.
L’Italia conobbe il boom economico, con tassi di crescita mai visti prima. Si parlò di «miracolo economico», dimenticando talvolta di aggiungere che il benessere e la ricchezza si concentravano soprattutto al nord nel famoso «triangolo industriale» Milano-Torino-Genova. Qui industrie e commerci garantivano la piena occupazione, mentre al sud cresceva la disoccupazione. Per rincorrere il benessere, molti meridionali abbandonarono le campagne e cercarono lavoro al nord, dove venivano chiamati in tono dispregiativo «terroni» e considerati un po’ sottosviluppati. Molti emigrarono ancora più a nord, soprattutto in Svizzera e in Germania, dove non ricevettero una migliore accoglienza. Il decennio si concluse in Italia malamente con il famoso «autunno caldo» del 1969 e conseguenze pesanti per il decennio successivo.
La Svizzera era messa molto meglio dell’Italia. Lo sviluppo industriale avviato a pieno regime nell’immediato dopoguerra proseguiva la sua corsa senza troppi ostacoli, richiamando ogni anno soprattutto dall’Italia decine di migliaia di immigrati. In Ticino li chiamavano «badilanti», sapendo che venivano soprattutto dalla campagna, nella Svizzera interna «Tschingg», perché nel tempo libero pronunciavano spesso cinq giocando alla morra. Erano tanti perché la manodopera indigena non bastava: nel 1961, alla fine di agosto si contavano appena 551 persone in cerca d’impiego e decine di migliaia di posti di lavoro non occupati. Erano tanti anche perché si trattava di manodopera relativamente a buon mercato.
L’economia era particolarmente florida, crescevano la produzione, le esportazioni, i consumi e il reddito per abitante (più del doppio di quello italiano), in una parola, il benessere. Per molti italiani lavorare in Svizzera rappresentava la soluzione di tanti problemi, anche se a costi umani e sociali pesanti.

Malcontento e politica
Nel 1960 vivevano stabilmente in Svizzera circa 350.000 italiani e costituivano il 59,2 % della popolazione straniera. Altri 123.000 erano gli italiani stagionali o frontalieri. Il buon funzionamento di molte imprese dipendeva da loro. Non per questo però erano benaccetti dalla popolazione.
Gli immigrati in generale erano considerati non solo «forza lavoro», «braccia», in funzione dello sviluppo economico, ma anche «lavoratori ospiti», ossia temporanei. A loro erano assegnate le mansioni più dure, ripetitive e pericolose. Le loro retribuzioni spesso non corrispondevano al lavoro reso perché le loro qualifiche erano ritenute inferiori a quelle dei colleghi svizzeri. A loro difesa non intervenivano nemmeno i sindacati perché in particolare gli italiani preferivano non iscriversi ai sindacati. Nessun’altra istituzione pubblica, svizzera o italiana, si interessava praticamente dei loro problemi sul posto di lavoro e nella vita sociale. L’emarginazione, l’isolamento, la discriminazione (oggettiva anche se non espressamente voluta) erano caratteristiche comuni alla massa di immigrati italiani.
Il malcontento di molti di essi giunse fino a Roma. Portavoce erano soprattutto esponenti comunisti, allora all’opposizione dei governi democristiani. Questi, che non intendevano lasciare all’opposizione la gestione dei problemi migratori, cominciarono a preoccuparsi e intervennero a più riprese tramite i canali diplomatici per ottenere migliori condizioni per gli italiani. Nel 1961 intervenne persino un ministro, Fiorentino Sullo, ma col suo modo di fare arrogante finì per scontentare sia gli svizzeri che gli stessi connazionali.
Nel 1963, alcuni gravi episodi di espulsioni e presunti maltrattamenti di lavoratori italiani diedero origine dapprima sulla stampa, soprattutto sull’Unità, e poi nella Camera dei Deputati a una vivace discussione, in cui si parlò addirittura di «persecuzioni» e di gravi violazioni della «dignità» di cittadini italiani all’estero. Il rischio maggiore, per il governo, era che se il flusso emigratorio verso la Svizzera si fosse interrotto o avesse subito una flessione avrebbe potuto procurare ulteriori disagi e malcontento soprattutto al sud, dove era sempre alta la disoccupazione. Dunque bisognava intervenire.

1964: l’Accordo che segnò una svolta
Il rischio non era infatti irreale perché in Svizzera la destra nazionalista e xenofoba, che vantava un largo seguito tra la popolazione, esercitava forti pressioni sul governo elvetico per la riduzione degli immigrati. Per di più anche il maggiore sindacato svizzero chiedeva fin dal 1962 una politica immigratoria più restrittiva. Il governo svizzero era chiamato ad assicurare un difficile equilibrio tra le esigenze (ritenute comunque prioritarie) dell’economia che procurava benessere e i legittimi interessi della popolazione che mal sopportava un aumento sconsiderato di stranieri «in casa propria».
L’Italia, che in quegli anni stava negoziando con la Svizzera un nuovo accordo sull’emigrazione/immigrazione, preferì rinunciare a una parte delle rivendicazioni, piuttosto che far fallire il difficile negoziato con pretese o richieste esagerate. Con l’Accordo del 1964, anche il Consiglio federale preferì fare alcune importanti concessioni soprattutto sui ricongiungimenti familiari, piuttosto che privare l’economia svizzera di un sicuro approvvigionamento di forza lavoro a buon mercato. A entrambe le parti sembrò un compromesso soddisfacente. A non essere per nulla soddisfatti furono i movimenti antistranieri, che dalla metà del decennio si dimostrarono campioni nella lotta all’inforestierimento (Überfremdung) e nella xenofobia, contribuendo ad aggravare la difficile convivenza tra la popolazione svizzera e gli stranieri.
Di fatto l’Accordo del 1964 segnò una cambio di paradigma fondamentale nella politica emigratoria italiana come in quella immigratoria svizzera. L’Italia divenne da allora più attenta alle rivendicazioni degli emigrati italiani in campo assicurativo (assicurazioni sociali), formativo (soprattutto in favore delle seconde generazioni) e associazionistico (sostegno finanziario alle principali associazioni di immigrati). La Svizzera pure cominciò a mettere in discussione il principio della «rotazione» (per favorire la stabilizzazione della manodopera piuttosto che sostituirla in continuazione) e a ipotizzare forme d’integrazione, comunque di difficile introduzione per la forte opposizione dei movimenti xenofobi e per la mancanza di modelli, ma anche per le resistenze in seno alla collettività italiana immigrata (si pensi per esempio alla difesa ad oltranza delle scuole italiane).

Principali cambiamenti
Una vera politica d’integrazione verrà adottata dalla Svizzera solo negli anni Settanta e Ottanta, quando i movimenti xenofobi uscirono ripetutamente indeboliti dalle varie votazioni popolari su altrettante iniziative antistranieri e quando divenne chiaro tra gli immigrati italiani che l’alternativa all’integrazione era solo il rientro in patria. Quanto all’economia va detto che, se in un primo tempo aveva visto di buon occhio la politica della «rotazione», dagli anni ’60 la maggior parte degli imprenditori preferì fidelizzare la manodopera stabilmente residente.
Quando si affronta il tema dell’integrazione è facile cadere in alcuni pregiudizi. Alcuni, a mio parere troppo frettolosamente, attribuiscono la mancata integrazione della prima generazione esclusivamente agli innumerevoli ostacoli rappresentati dalle leggi, dai regolamenti e dalle autorità di questo Paese. Altri non esitano ad attribuirne la responsabilità agli stessi immigrati (che non s’impegnarono nemmeno a imparare la lingua del posto) e al loro mondo associazionistico chiuso. Come al solito o almeno spesso, credo che le responsabilità vadano equamente ripartite.
Ad ogni modo, sul finire degli anni ’60, sotto varie spinte, la Svizzera cominciò a rendersi conto che l’immigrazione andava considerata una componente strutturale dell’economia e della società e quindi da integrare. In seno all’immigrazione italiana cominciò ad apparire chiaro che le migliori prospettive per la seconda generazione le offrivano la scuola locale e una buona formazione professionale e che non sarebbe stato un tradimento dell’italianità la naturalizzazione. Appariva anche chiaro che le associazioni per sopravvivere dovevano aprirsi invece di chiudersi a riccio, interessarsi maggiormente alla realtà locale, incoraggiare anche negli adulti l’apprendimento della lingua del posto e la formazione professionale, perdere un tantino la connotazione di «italiano/a» e acquistare maggiormente quella di «italo-svizzero/a».
Trovo emblematica del momento difficile che attraversava la collettività italiana immigrata sul finire degli anni Sessanta la costituzione del Comitato Nazionale d’Intesa (CNI) nel corso di un grandioso convegno a Lucerna nel 1970. Dopo anni di faticosi tentativi di superamento della infruttuosa frammentazione dell’associazionismo, il CNI quale organo di rappresentanza di oltre 400 associazioni sembrava la soluzione giusta. Nessuno si rendeva conto che anche il CNI, senza un cambiamento d’intenti delle principali componenti, non avrebbe resistito a lungo al vento del cambiamento che soffiava in altra direzione. Così è stato. Hanno resistito soltanto quelle poche associazioni che hanno saputo adattarsi alle esigenze del cambiamento e dell’integrazione.
[Questa serie di articoli sulla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera viene temporaneamente sospesa e sarà ripresa tra qualche settimana]
Giovanni Longu
Berna, 22.11.2017