25 ottobre 2017

Italiani in Svizzera: 27. Condizioni di lavoro: «bocconi amari» e successo



Le condizioni di lavoro degli immigrati, soprattutto di quelli non qualificati, sono generalmente più dure di quelle che devono affrontare gli indigeni. Quasi sempre, infatti, si tratta di attività che questi ultimi non vogliono più svolgere per svariate ragioni, spesso sono anche meno redditizie, più faticose o pericolose. Inoltre, alla lunga, diventa penosa più ancora della pericolosità o della fatica dei lavori svolti, la dipendenza dell’emigrato dal suo datore di lavoro, perché rischia sovente di trasformarsi in discriminazione, arbitrio, angheria (specialmente in mancanza di garanzie legali, contrattuali o sindacali). La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera dimostra tuttavia che superare le difficoltà è possibile, ma richiede impegno, costanza e talvolta cambiamento di mentalità. Moltissimi ci sono riusciti.

Quando gli italiani divennero indispensabili
Negli anni '60 e '70 molti italiani erano addetti alle fonderie.
I primi immigrati, quelli dell’Ottocento e inizi del Novecento, erano chiamati a svolgere soprattutto attività pesanti e pericolose nel settore delle costruzioni (edilizia e genio civile). Gli incidenti sul lavoro e le morti erano frequenti. I contrasti e gli scontri tra indigeni e immigrati erano costanti. Basti pensare agli attacchi violenti ai lavoratori italiani di fine Ottocento a Berna, Basilea, Zurigo e altrove. Purtroppo anche la popolazione era schierata contro gli immigrati, considerati «invasori», pur sapendo che si ammazzavano di fatica.
Lo Stato italiano cercava di tutelare il lavoro degli emigrati, ma lo faceva con poca convinzione, perché era più interessato alla pace sociale in patria che al benessere di chi l’aveva lasciata. Da parte sua la Confederazione, Paese liberale, si è sempre fidata (troppo) della buona volontà delle parti sociali (imprenditori e sindacati), pur sapendo che le condizioni di lavoro, d’abitazione e di vita degli immigrati spesso non corrispondevano all’«umanità» e agli impegni presi nelle convenzioni bilaterali o internazionali.
Per ottenere condizioni di lavoro più umane e salari più idonei, gli immigrati si son dovuti battere tenacemente, non esitando ad avanzare richieste (pur essendo tutt’altro che facile, per paura dei licenziamenti), organizzare proteste, riunioni sindacali (società di mutuo soccorso) e numerosi scioperi. Non sempre andavano a buon fine, ma sia pure lentamente i miglioramenti arrivarono, anche perché molti datori di lavoro si rendevano conto che senza gli immigrati italiani certe attività si sarebbero fermate.
Dopo le violenze contro gli italiani nel famoso «Italiener-Krawall» nell’estate del 1896 a Zurigo, molti immigrati cercarono di fuggire dalla città. Furono i datori di lavoro a chiamarli indietro mentre si accalcavano alla stazione in cerca di un treno che li portasse lontano. «Abbiamo bisogno di voi», dicevano, «cosa faremo senza il vostro aiuto?». La stagione edilizia era appena iniziata e un blocco dei cantieri avrebbe significato una catastrofe non solo per il settore, ma anche per molti affittacamere, bottegai, ristoratori. Molti italiani tornarono e tanti restarono per sempre (cfr. Fiorenza Venturini, 1976). 

Indispensabili come «braccia», ma «Gastarbeiter», anzi «cìnkali»
Ritenendoli utili e talvolta indispensabili, per certi impieghi molti datori di lavoro preferivano la manodopera italiana a quella locale. Il calcolo era di estrema semplicità: gli immigrati italiani non erano generalmente politicizzati, non creavano problemi, erano più rapidi, più efficaci, rendevano di più e costavano meno degli svizzeri.
Nel 1908, Gazzetta Ticinese, un quotidiano liberale-radicale scriveva: «La ricerca dell'elemento italiano è giustificata dalle doti oramai proverbiali di maggiore energia produttiva e di maggior duttilità, per cui l'operaio italiano rappresenta la macchina umana di maggior rendimento; fatto incontestabile, riconosciuto ed ammesso da tutti, al quale si deve se gli industriali ne tollerano molti difetti e ne sollecitano volentieri l'opera».
Lo stesso giornale citava alcune testimonianze: «Recentemente la Direzione di un importante opificio, la Vetreria di Monthey, si difendeva, sulla Gazzetta di Losanna, dall'accusa di favoritismo verso gli operai italiani con queste parole: “Come potrebbero vivere e sussistere le nostre industrie, le nostre imprese edilizie o d'altro genere se dovessero occupare solo svizzeri?” E l'ufficio d'assistenza del Cantone Argovia scriveva, or non è molto, che senza gli operai italiani non si potrebbe costruire neppure una casa».
Non è certo un grande riconoscimento ritenere il lavoratore italiano «la macchina umana di maggior rendimento», ma il paragone indica bene un atteggiamento molto diffuso tra i datori di lavoro svizzeri, che consideravano gli immigrati «macchine» o, come si dirà più tardi «forze di lavoro», «braccia», trascurando quasi del tutto gli aspetti umani. Un atteggiamento che farà dire con tristezza nel 1965 allo scrittore svizzero Max Frisch: «Abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini» e più tardi al politico e scrittore socialista svizzero Dario Robbiani: «Ci chiamavano Gastarbeiter, lavoratori ospiti, ma eravamo stranieri, anzi cìnkali».
In queste espressioni e in questi atteggiamenti è condensata una parte consistente della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera fino a pochi decenni orsono. Eppure, a ben vedere, è soprattutto grazie al lavoro che gli italiani si sono affermati in questo Paese. Già nell’Ottocento, quando gli italiani costituivano un «problema», il lavoro, il buon lavoro serio e coscienzioso, li rendeva utili e spesso indispensabili. Lavorando generalmente a cottimo, producevano più degli altri e, secondo numerose testimonianze, erano anche ben pagati. Quanto bastava, però, per suscitare invidia e odio da parte soprattutto di quegli svizzeri che non reggevano la concorrenza, fino ad arrivare alla degenerazione degli attacchi violenti di Berna (Käfigturmkrawall, 1893) e di Zurigo (Italiener-Krawall, 1896).

Secondo dopoguerra difficile
Nel secondo dopoguerra, con la forte ripresa dell’immigrazione dall’Italia (del nord), il lavoro italiano venne ampiamente riconosciuto dall’economia svizzera. Fino ai primi anni ’60 i datori di lavoro svizzeri erano molto soddisfatti degli italiani, sempre intesi come «macchine di maggior rendimento», anche perché erano giovani e forti e non creavano problemi con figli, famiglie, scuole, proteste, ecc. In seguito la situazione, com’è noto, peggiorò, non solo perché i movimenti xenofobi erano in crescita, ma anche e soprattutto perché, via via che l’immigrazione italiana (ormai prevalentemente dal sud) aumentava, il rendimento diminuiva e cresceva il disagio sociale tra due comunità che non si comprendevano, non si frequentavano e talvolta si odiavano.
Lino Guzzella, un «secondo», pres. del Politecnico fed. di Zurigo
Le condizioni di lavoro erano varie secondo la grandezza dell’impresa, il tipo d’impresa, le esigenze della singola impresa, il luogo di lavoro, il cantiere, la fabbrica, ma soprattutto secondo le competenze professionali dei lavoratori. Molti datori di lavoro cominciavano anche ad avere dubbi sulle capacità di molti operai italiani provenienti dal sud e sulla possibilità di integrarli efficacemente nei processi produttivi. Oltretutto erano preoccupati, in alcune grandi fabbriche, del clima di contestazione che si stava creando ad opera di attivisti di sinistra (comunisti) venuti appositamente dall’Italia.
Sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche i numerosi racconti dei protagonisti (lavoratori, datori di lavoro, capi del personale, sindacalisti) sono difficilmente unificabili, perché esistono troppe differenze tra piccole e grandi imprese, tra imprese con una prevalenza di manodopera estera e imprese con pochi lavoratori stranieri, tra lavoratori italiani provenienti del nord e lavoratori provenienti dal sud Italia, ecc.
Volendo trovare qualche tratto comune, si può ritenere, per esempio, che la stragrande maggioranza dei lavoratori immigrati accettava qualunque lavoro, sia per non rischiare, in caso di rifiuto, di restarne senza e sia perché gli italiani, come scriveva nel 1970 il sociologo Rudolf Braun, «sono venuti da noi per guadagnare e vivono solo per il guadagno. Si può dire a un italiano che deve lavorare fino a mezzanotte; egli lo fa senz’altro perché vede il tornaconto finanziario, ossia il 25 per cento di paga in più per lo straordinario». Molti datori di lavoro se ne approfittavano.
Un’altra caratteristica degli italiani era la disponibilità a rendere di più se ben guidati e premiati (con incentivi in denaro o in carriera), con una differenza: un italiano del nord accettava difficilmente osservazioni sul suo operato ritenendo di saper far bene quel che faceva; un italiano del sud, invece, consapevole della sua impreparazione, era più disposto a lasciarsi guidare e consigliare con la prospettiva di migliorare la sua posizione.

Dal cottimo al lavoro di qualità
Molto spesso i racconti di numerosi italiani contengono queste due osservazioni: il lavoro era molto duro, ma generalmente era svolto senza lamentarsi. Ha scritto una immigrata lucana riferendosi alla situazione vissuta agli inizi degli anni ‘60: «Era un lavoro durissimo, pieno di polvere e in mezzo a un rumore frastornante, ma a me piaceva. […] Per me dura, ma essendo partita da un piccolissimo paese, era tutta un’altra vita con risvolti a suo modo interessanti: anche senza conoscere il tedesco».
Ignazio Cassis, un «secondo», consigliere federale
Dagli anni ’80 in poi la situazione dei lavoratori italiani cominciò a migliorare radicalmente, sia perché i «vecchi» si erano ormai stabilizzati, e sia perché diventavano «attivi» numerosi figli di immigrati del dopoguerra. La seconda generazione aveva superato, nel complesso, le principali difficoltà dei genitori: non aveva particolari problemi linguistici e scolastici e possedeva una formazione professionale «normale» che la metteva al riparo da confronti insostenibili con i coetanei svizzeri.
La diffusione della formazione e della cultura in generale ha fatto sì che sul lavoro da qualche decennio le differenze tra svizzeri e italiani si siano praticamente azzerate o comunque minimizzate. Di fatto oggi gli italiani e gli svizzeri di origine italiana sono presenti in tutti i rami professionali e a tutti i livelli, compresi quelli superiori, anche in politica.
La strada è stata lunga e, per dirla con una lettrice, «quanti bocconi amari abbiamo dovuto mandar giù!», ma a ben vedere, ne è valsa anche la pena.
Giovanni Longu
Berna, 25.10.2017