11 ottobre 2017

Italiani in Svizzera: 25. Condizioni d’abitazione: voci critiche



Spesso, leggendo o sentendo racconti di immigrati arrivati in Svizzera negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, si resta sconcertati per le condizioni di lavoro, d’abitazione e di vita, a cui molti di essi erano costretti dalle circostanze. Altri racconti, che mettono in luce la buona accoglienza ricevuta al loro arrivo in questo Paese e l’aiuto ricevuto da famiglie svizzere per trovare un alloggio e superare le difficoltà iniziali, trovano scarsa accoglienza nelle ricostruzioni e analisi di quel periodo. Da questo contrasto nasce la domanda: è possibile, a distanza di anni, tentare almeno di dare risposte oggettive e fondate, superando le affermazioni generiche, a domande tipo: quali erano le reali condizioni d’abitazione, di lavoro e di vita degli immigrati italiani dei primi decenni del dopoguerra? Ritengo di sì.

Problema abitativo: complesso e di difficile soluzione
Per esigenza di sintesi occorre ricordare che subito dopo la guerra, per le ragioni descritte nei precedenti articoli, sono giunti in Svizzera, in maniera regolare o irregolare, centinaia di migliaia di italiani. E’ facile comprendere che questa massa inevitabilmente creava problemi, le cui soluzioni non erano sempre a portata di mano.
Tipiche baracche alla periferia delle città negli anni ’60 e ’70
Oltre alla difficoltà oggettiva di reperire alloggi adeguati per tutti gli immigrati non va sottaciuto che in quel periodo ampi strati della popolazione svizzera ritenevano gli immigrati fonti di preoccupazioni per la sicurezza del lavoro, la tranquillità della vita, le prospettive future, ecc.) per cui era molto diffusa la diffidenza nei loro confronti, per esempio quando cercavano un alloggio.
Non va nemmeno dimenticato che la penuria di alloggi esisteva già prima della guerra; gli immigrati hanno contribuito a renderla ancor più evidente, tanto da provocare numerosi interventi parlamentari e misure del governo per la promozione di un’edilizia popolare e il freno all’aumento delle pigioni. Effettivamente, già negli anni ’50 vennero prodotte 20-30 mila nuove abitazioni l’anno, raggiungendo negli anni ’60 circa 40-50 mila unità l’anno. Costruirne di più avrebbe comportato l’arrivo di nuovi immigrati e quindi il rischio di aggravare ancor di più il problema. I risultati non furono ritenuti da tutti soddisfacenti, ma contribuirono senz’altro a ridurre anno dopo anno la grave penuria di alloggi.
Non tutti gli immigrati erano ugualmente coinvolti
Quando in molti racconti e in molte ricostruzioni dell’immigrazione italiana del periodo considerato si tratta delle condizioni abitative, di solito vengono messe in evidenza le difficoltà di trovare un’abitazione (enfatizzando talvolta gli episodi di evidente discriminazione) e le limitazioni e i disagi che comportava la vita nelle baracche. Sulla base di pochi o anche numerosi episodi documentati è stato facile per alcuni studiosi concludere che gli immigrati vivevano in condizioni abitative pessime, addirittura disumane.
Evidentemente i fatti accertati non si possono negare e nemmeno minimizzare. La generalizzazione è tuttavia sbagliata perché non è vero che tutte le categorie di immigrati avevano (grandi) problemi in materia d’abitazione. Per esempio, non erano coinvolti in questa problematica i domiciliati (oltre 200.000 italiani negli anni ’60), che in materia civile avevano praticamente gli stessi diritti e doveri degli svizzeri.
Anche i lavoratori dell’agricoltura, quelli degli alberghi e quelli dei servizi domestici non ponevano particolari problemi (perché i contadini, gli alberghi e spesso le famiglie in cui si prestava servizio potevano garantire facilmente un alloggio), tanto più che il loro numero era nel complesso molto contenuto. Persino la sistemazione dei lavoratori dell’edilizia e del genio civile, in gran parte stagionali e soli, non rappresentava per i datori di lavoro difficoltà insuperabili, a prescindere dalla soddisfazione degli interessati, perché tutte le grandi imprese edili per le quali lavoravano disponevano di moduli abitativi (baracche) per gli operai. Soprattutto nei grandi cantieri di montagna (dighe, centrali idroelettriche), ma anche nei cantieri di importanti costruzioni urbane e periurbane (complessi abitativi, grandi centri commerciali e industriali), era evidente che le maestranze dovessero essere alloggiate vicino al luogo di lavoro.

Il problema degli alloggi nelle città
I problemi maggiori li avevano gli immigrati con famiglia e residenti (permesso B) che lavoravano nel settore industriale, dunque in città, dove più acuta era la penuria di alloggi e dove solo le grandi imprese disponevano di edifici ad uso abitativo, per altro in numero insufficiente, per i propri dipendenti. Si trattava indubbiamente di un numero importante di persone, ma inferiore certamente a quel che certi racconti lasciano immaginare.
Interno di una baracca
Il periodo più acuto della penuria di alloggi coincise con quello della massima immigrazione dall’Italia, negli anni ’60 e ’70, e colpì non tanto gli stagionali (100-180 mila l’anno), quanto soprattutto gli immigrati residenti stabilmente e i cosiddetti «falsi stagionali» che di fatto restavano in Svizzera fino a 11 mesi invece di 9. Era anche il periodo in cui la «rotazione» tra gli immigrati si stava attenuando e la popolazione straniera stabilizzata (residente) cresceva velocemente sia per l’arrivo dei nuovi immigrati e sia per le facilitazioni accordate al ricongiungimento familiare, soprattutto dopo l’accordo italo-svizzero del 1964.
Di fronte a una domanda in continua crescita di alloggi e un’offerta assai limitata, molti immigrati dovettero accontentarsi di alloggi di fortuna (soprattutto baracche e trasformazioni di spazi destinati originariamente a svariati usi) e numerosi speculatori ne approfittarono soprattutto nelle periferie dei grandi agglomerati urbani per offrire mansarde e persino sottoscala a prezzi esorbitanti. Agli inizi degli anni ’60 vennero denunciati numerosi abusi e il governo federale non trovò di meglio che vincolare il ricongiungimento familiare alla garanzia di un alloggio adeguato… difficilissimo da ottenere!

Voci critiche
Secondo una parte della letteratura sull’immigrazione italiana in Svizzera le condizioni abitative degli immigrati erano generalmente pessime. Secondo alcuni studi, invece, questa generalizzazione è ingiustificata. A chi dare ragione e a chi torto?
Giusto per citare qualche voce critica, nel 1977 Delia Castelnuovo-Frigessi scriveva: «i lavoratori stagionali sono ammucchiati, di solito in precarie condizioni igieniche, in luoghi lontani dai centri urbani e sociali (le famigerate baracche) o in vecchi edifici destinati alla demolizione. Questo tipo di alloggi, sui quali del resto l'imprenditore riesce a ottenere scandalosi profitti, costringe lo stagionale, una volta uscito dal luogo di lavoro, a sentirsi segregato in un ghetto».
A Dario Robbiani le baracche del dopoguerra apparivano come «topaie e tristi baraccamenti, poiché solo inquilini provvisori si adattano avendo quale unico impegno esistenziale di risparmiare soldi: pochi, maledetti e subito!». Giovanni Blumer scriveva nel 1970: «in Svizzera, una percentuale cospicua di lavoratori è condannata a vivere nelle baracche del padrone, magari per un decennio». Secondo Toni Ricciardi (2015) la manodopera italiana addetta alla costruzione della diga di Mattmark venne ingaggiata «probabilmente perché gli italiani si adeguavano facilmente alle pessime condizioni abitative e soprattutto erano disposti a lavorare anche 15-16 ore al giorno, domenica compresa…».

Quanti stranieri vivevano nelle baracche o in alloggi di fortuna?
In realtà, come si vedrà nel prossimo articolo, non tutte le baracche e non tutti gli alloggi erano uguali e, soprattutto, bisognerebbe chiedersi seriamente quante persone erano direttamente coinvolte in questa problematica, dando per scontato che le difficoltà di trovare un’abitazione dignitosa, a basso costo e rispondente ai bisogni degli interessati erano reali e abbastanza comuni (anche per gli svizzeri).
Ebbene, nel 1966, secondo lo stesso Blumer, uno studioso molto critico sulla politica immigratoria svizzera, solo il 28% degli stagionali dell’edilizia alloggiava in una baracca; il 14,5% viveva in un appartamento per una sola famiglia, il 32% in un appartamento in comune con altri e il 22% in una camera. Dunque non tutti gli stagionali vivevano in baracche, ma solo poco più di un quarto. La percentuale degli annuali che alloggiavano in baracche, probabilmente a causa della lontananza dal luogo di residenza, scendeva all’8%, mentre il 63,5% abitava in appartamenti per una sola famiglia e il 26,5% in appartamenti in comune o in camere.
Va inoltre notato che la qualità dell’abitazione nelle baracche (ordine, pulizia, servizi igienici, ecc.) dipendeva in larga misura anche dal comportamento degli stessi inquilini e, nelle baracche più grandi, dal capobaracca.
Eppure i racconti sulle condizioni abitative erano, soprattutto negli anni ’60, piuttosto drammatici, tanto da provocare accese discussioni anche nel Parlamento italiano. Se ne facevano interpreti soprattutto i parlamentari comunisti. In un vivace intervento alla Camera dei Deputati del 9 ottobre del 1963, l’on. Giuseppe Pellegrino (del PCI) così qualificò le abitazioni degli immigrati italiani: «gli abituri fangosi, le stalle e le baracche umide e sconnesse che sono il loro tetto». Aveva ragione? La risposta nel prossimo articolo.
Giovanni Longu
Berna, 11.10.2017