04 ottobre 2017

Italiani in Svizzera: 24. Italiani nel dopoguerra: metalmeccanici e costruttori



Negli anni 1950-1970 le attività lavorative degli italiani immigrati in Svizzera erano svariate. In ogni ramo economico essi erano presenti con o senza una qualifica professionale ben definita, come aiutanti, manovali, sterratori, minatori, muratori, carpentieri, imbianchini, magazzinieri, camionisti, venditori, parrucchieri, camerieri, ecc. Erano concentrati soprattutto in due rami economici: l’industria manifatturiera e le costruzioni (edilizia e genio civile). Inizialmente i professionisti e gli autonomi erano pochissimi.

Richiesta crescente di manodopera italiana
Diga di Emosson, una delle più belle e importanti dighe del Vallese,
alla quale lavorarono moltissimi italiani. Per conoscerla da vicino,
anzi dal di dentro, visitando una galleria, un folto gruppo di amici
dell’UNITRE di Soletta il 24 settembre scorso si è recato sul posto,
restando impressionati soprattutto dai sistemi di controllo.
Nel dopoguerra i lavoratori italiani vennero chiamati in Svizzera per due ragioni essenziali: perché l’economia ne aveva bisogno non essendo sufficiente la manodopera indigena (e non potendo più attingere ai tradizionali mercati del lavoro tedesco e francese) e per colmare i vuoti lasciati dagli svizzeri trasferitisi ad attività meglio retribuite e socialmente più gratificanti (i famosi «colletti bianchi»). Tener presenti questi due motivi, soprattutto il secondo, è fondamentale per capire le attività economiche svolte dagli italiani nel periodo preso in considerazione, tanto più che, nel caso soprattutto degli italiani, come ho già ricordato (cfr. articolo precedente del 27.9.2017), si trattava di manodopera a buon mercato e molto disponibile.
Nell’articolo menzionato facevo anche notare che nel dopoguerra fino alla metà degli anni ’70 la struttura occupazionale della popolazione attiva svizzera mutò profondamente perché furono moltissimi coloro che passarono dal settore primario (agricoltura) ai settori secondario (industria) e terziario (servizi). I posti lasciati liberi erano i meno qualificati e i meno retribuiti, ma spesso anche i più logoranti e pericolosi. Erano questi posti che gli stranieri (ma in quegli anni erano soprattutto immigrati italiani) andarono ad occupare.
Le richieste di lavoratori stranieri (italiani) che l’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML) doveva autorizzare evidenziavano la carenza di manodopera soprattutto in alcuni rami: agricoltura, alberghi e ristoranti, servizi domestici, industria tessile, confezione, lavorazione dei metalli, fabbricazione di conserve, orologeria, meccanica, edilizia e genio civile. Fu così che nel dopoguerra gli stranieri (italiani) divennero di fatto necessari e praticamente insostituibili soprattutto in alcune attività, per esempio nelle fonderie (quasi 100% stranieri), nella ristorazione e negli alberghi (60% di stranieri), ma anche nell’industria tessile (50%), nella confezione (61%), nella metalmeccanica (38%), nell’industria chimica (21%), ecc.
Foto ricordo sulla diga di Emosson di una parte dei 40 amici
dell'UNITRE di Soletta, partecipanti alla visita della grande diga.
Il bisogno non faceva che aumentare man mano che la crescita economica si confermava. Se nell’agosto del 1955 (quando venne introdotta la rilevazione dei lavoratori stranieri sottoposti al controllo, ossia annuali, stagionali e frontalieri) gli stranieri erano già 271.149, nel 1960 erano 435.778 e cinque anni dopo, nel 1965, avevano raggiunto addirittura 676.328 unità. Per quanto riguarda gli italiani, nel 1963 erano sottoposti al controllo 278.010 annuali, 175.496 stagionali e 18.546 frontalieri. Per il loro andare e venire, gli stagionali che provenivano soprattutto dalle regioni del Nord Italia (province di Sondrio, Como, Brescia), erano spesso chiamati «rondinelle» perché arrivavano in primavera (soprattutto nei mesi di marzo-aprile), come le rondini… e ritornavano al loro paese durante i mesi invernali.

Gli italiani aiutarono la trasformazione della Svizzera
Nella rilevazione di agosto 1964 tra gli addetti all’edilizia e genio civile risultarono addirittura 171.898 (36,2%) italiani; gli addetti all’industria metalmeccanica 91.968 (19,4%), quelli addetti all’industria tessile (28.922) e dell’abbigliamento (35.869) (tessile + abbigliamento = 13,7%), quelli della ristorazione e alberghi 36.021 (7,6%), alimentazione e tabacchi (17.140), orologeria e bigiotteria (8.280), mentre nell’agricoltura gli italiani saranno meno di diecimila (9.217/1,9%), così come nei servizi domestici (8.553).
L’«apporto fondamentale e insostituibile delle forze di lavoro straniere» (l’espressione è dell’economista Basilio M. Biucchi) emerge tuttavia soprattutto nel ramo dell’edilizia e del genio civile. Dopo aver dimostrato di essere campioni nei trafori ferroviari (San Gottardo, Sempione, Lötschberg, ecc.) gli italiani si affermarono utili e pressoché indispensabili lavoratori nell’edilizia e nelle grandi opere del genio civile.
Nel dopoguerra l’attività costruttiva (edilizia e genio civile) era continua e quasi sfrenata. Sembrava che il motto della Confederazione fosse divenuto: costruire o morire. Si costruiva di tutto: case, piccole, medie, grandi, blocchi con centinaia di appartamenti; dighe, piccole, medie, grandi e grandissime da record mondiale; strade e autostrade, stazioni ferroviarie, insomma, di tutto, naturalmente in aggiunta alla normale manutenzione. La Svizzera era come un immenso cantiere, quasi un simbolo della trasformazione della Svizzera che da Paese povero diventava sempre più ricco, vedeva crescere quasi senza intoppi la sua economia, le sue esportazioni, il prodotto interno lordo, il benessere generalizzato (o quasi).
Qualche dato può aiutare a comprendere meglio l’ampiezza di queste attività in cui gli italiani erano particolarmente presenti. Nel 1950 si costruirono in Svizzera appena 19.374 abitazioni (o appartamenti), nel 1960 ne vennero costruite 38.991, nel 1970 ben 63.590. Nel 1973 si toccò la cifra record di 81.865 nuove abitazioni. Fino alla metà degli anni ’70 gli italiani costituivano il gruppo nazionale più rappresentato nell’edilizia e nel genio civile.

Edilizia e genio civile in primo piano
L’attività edilizia riguardava tutta la Svizzera e tutti i Cantoni, ma erano soprattutto le grandi e medie città che estendevano e miglioravano il proprio patrimonio edilizio. Nel 1945 Zurigo contava 106.008 abitazioni; nel 1970 ne contava 54.637 in più (160.645). Nello stesso periodo Basilea passava da 58.099 a 86.122 abitazioni; Ginevra da 53.192 a 84.878; Berna da 39.871 a 61.826.
Evidentemente non si costruivano solo abitazioni, ma anche tutta una serie di edifici industriali, commerciali e di utilità pubblica. Tra il 1965 e il 1975, per esempio, furono costruite oltre 1500 scuole e biblioteche, più di 350 chiese, più di 400 ospedali. Inoltre, venivano rifatte strade e piazze, rinnovate le condotte, ecc. oltre naturalmente alla normale manutenzione.
Era facile riconoscere gli italiani anche perché erano ovunque, a tal punto che l’italiano divenne in tutta la Svizzera una sorta di lingua franca con una percentuale di italofoni (11,9%) mai più raggiunta. Una parte dei lavoratori italiani, tuttavia, rimaneva molto nascosta, quasi invisibile perché addetta alla costruzione di imponenti centrali idroelettriche in alta montagna, lontana dai centri abitati, lungo tutta la regione alpina.
Le attività di genio civile sono forse quelle che meglio rappresentano le tracce indelebili del lavoro italiano in Svizzera. Dopo le grandi imprese ferroviarie, non solo le gallerie ma i tracciati, i rafforzamenti delle tratte, i ponti e le gallerie secondarie si passò in Svizzera all’elettrificazione delle ferrovie, ma anche alla costruzione delle grandi arterie autostradali.. Anche in questo settore la manodopera straniera e italiana in particolare divenne indispensabile, da quando, nel 1962, venne inaugurato nella zona di Grauholz, vicino a Berna, il primo tratto della «Nazionale 1» (N1), destinata ad attraversare la Svizzera da Ginevra al Lago di Costanza.
Lo sviluppo industriale e commerciale, i trasporti e il diffuso benessere richiedeva sempre più energia. Per disporne in quantità sufficiente si dovette tuttavia provvedere alla produzione e al trasporto dell’elettricità attraverso il sistema dei bacini e delle centrali idroelettriche. Gli italiani parteciparono alla realizzazione di tutte le principali dighe e centrali idroelettriche del dopoguerra, dalle dighe di Sella, Lucendro, Palagnedra, Sambuco, Luzzone, Maggia, Contra, Robiei, Cavagnoli e altre nel Ticino a quelle di Mattenalp, Räterischsboden, Oberaar del Cantone di Berna, a quelle del Vallese: Totensee, Cleuson, Salanfe, Vieux-Emosson, Zeuzier, Mauvoisin (alta 250 metri), Grande-Dixence (285 metri), Emosson e altre nei Cantoni Vallese, Vaud, Friburgo, San Gallo, ecc.
Era l’epopea delle grandi dighe, che si protrasse per oltre un ventennio fino agli anni Settanta e in cui furono battuti tutti i record precedenti in materia di dighe e di centrali idroelettriche. Gli italiani furono protagonisti e in queste grandi opere hanno lasciato tracce indelebili. Anche per questo, credo, merita di conoscere più da vicino, in un prossimo articolo, la sistemazione e la vita nei cantieri di montagna. 

Giovanni Longu
Berna 04.10.2017