13 settembre 2017

Italiani in Svizzera: 21. Gli italiani e la sicurezza sul lavoro



Riprende, con le considerazioni che seguono, la serie degli articoli sulla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, «una storia lunga, complessa e avvincente», come scrivevo nel primo articolo del 18 gennaio 2017 (http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2017/01/italiana-in-svizzera-1-una-storia.html). Mi sembra utile ripercorrerla perché, nonostante la sua importanza per conoscere l’evoluzione della Svizzera e in parte anche dell’Italia degli ultimi 150 anni, è poco conosciuta e perciò inutilizzabile. Se davvero, come riteneva il grande politico e filosofo latino Cicerone, la storia dev’essere «maestra di vita» (Historia magistra vitae), quella dell’emigrazione italiana potrebbe suggerire qualche utile considerazione sulle politiche di accoglienza e d’integrazione delle moderne ondate immigratorie che interessano soprattutto l’Italia e l’Europa.

Contributi diretti e indiretti degli immigrati
Spesso si fanno confronti o collegamenti azzardati e molto approssimativi tra i profughi (forse erroneamente chiamati anche migranti) che cercano di farsi una vita in Occidente, specialmente in Europa, e gli emigrati italiani della seconda metà dell’Ottocento e di buona parte del Novecento, che hanno «invaso» il mondo alla ricerca del benessere. Da questi confronti emerge soprattutto una diffusissima ignoranza sulla storia dell’emigrazione italiana, ridotta sovente al suo momento iniziale, ossia alle condizioni di partenza, e dimenticando la complessità e la ricchezza di una storia che ha contribuito, fra l’altro, a far conoscere e apprezzare l’Italia nel mondo.
Non è possibile rifare questa storia in pochi articoli, ma ritengo utile puntualizzare di tanto in tanto qualche aspetto dell’emigrazione italiana su cui si riflette poco.
In genere si è più facilmente portati ad esaltare il contributo positivo diretto degli emigrati. Per quelli immigrati in Svizzera non si può fare a meno di ricordare, per esempio, ch’essi hanno contribuito in misura determinante alla creazione dell’infrastruttura ferroviaria e stradale di questo Paese, all’innalzamento di autentiche muraglie di cemento armato o di pietra e terra per trattenere le acque preziose dei laghi artificiali sfruttate per il fabbisogno energetico delle industrie, dei trasporti e delle abitazioni, alla sistemazione urbanistica delle principali città svizzere, ecc. Si pensa poco, invece, al contributo indiretto ch’essi hanno dato alla trasformazione di questa società, del modo di vivere, di alimentarsi, di lavorare, di pensare, di orientarsi nella vita.

Il contributo alla sicurezza sul lavoro
In questo articolo mi riferisco in particolare al contributo indiretto che gli immigrati (evidentemente non solo italiani) hanno dato alla sicurezza sul lavoro. Un contributo, sia ben chiaro, del tutto involontario, perché francamente nessuno dei protagonisti avrebbe offerto la propria vita per far avanzare la sicurezza negli scavi e sui cantieri. Proprio per questo, però, il loro sacrificio, legato alla loro condizione di lavoratori immigrati, merita di essere ricordato con riconoscenza.
Il dato di partenza, ben noto prima ancora che agli storici a moltissimi immigrati, è che in Svizzera (per limitare il campo a questo Paese che gli immigrati italiani hanno contribuito a far crescere e diventare quello che è, ma si potrebbe parlare ugualmente della Francia, del Belgio, della Germania, ecc.) agli stranieri erano lasciati, almeno inizialmente, i lavori che gli svizzeri non volevano più svolgere o perché meno retribuiti o perché più pesanti o perché pericolosi.
«Vittime del lavoro» del Gottardo, di Vincenzo Vela
Per la stragrande maggioranza degli immigrati italiani fino a pochi decenni fa si deve aggiungere, purtroppo, ch’essi non erano quasi mai adeguatamente preparati né al lavoro ch’erano chiamati a svolgere né ai pericoli connessi. D’altra parte, non è un mistero che i datori di lavoro, soprattutto nei periodi in cui si sono verificate le più grandi disgrazie col maggior numero di vittime, investivano poco, il meno possibile, nella sicurezza, anche quando si sapeva benissimo che i pericoli erano reali, soprattutto quando si trattava di grandi cantieri di montagna. Bisogna anche aggiungere che la legislazione in materia non era ancora evoluta e i controlli, sia da parte delle autorità che dei sindacati, erano inesistenti o comunque insufficienti.
Ci vollero parecchie «bare allineate», per usare un’espressione dell’Avvenire dei lavoratori del 1966, per far sì che la sicurezza sul lavoro evolvesse e fosse garantita il più possibile. 

Carenze igieniche e di sicurezza durante le costruzioni ferroviarie
Una breve sintesi di questo contributo indiretto non può che partire dalla prima grande impresa del lavoro degli immigrati italiani in Svizzera, lo scavo della galleria ferroviaria del Gottardo (1872-1882), durante il quale morirono non meno di 200 persone. La cosiddetta «anemia del Gottardo» (causata, come è stato accertato più tardi, da una larva, l’Anchylostoma duodenalis) dovuta alle pessime condizioni ambientali e igieniche, fece molte più vittime. Nei successivi trafori ferroviari le condizioni igieniche furono migliorate e le vittime diminuirono.
Durante la realizzazione della galleria del Sempione (1898-1906) le condizioni di sicurezza migliorarono rispetto al traforo del Gottardo, ma non ancora abbastanza. In seguito a incidenti vari morirono infatti 67 operai, ma almeno altri 200 sono morti dopo la fine dei lavori di pneumoconiosi, un’affezione dei polmoni provocata dall’inalazione di polvere. «Ciascuna di queste morti ha troncato una vita di gioie e di sofferenze, di successi e di fallimenti, di speranze e di delusioni», ricorderanno in occasione delle celebrazioni per i 100 anni della galleria ferroviaria del Sempione i parroci di Briga e di Varzo.
Ulteriori miglioramenti delle condizioni igieniche e della sicurezza si ebbero durante il traforo del Lötschberg (1906-1913). Per esempio, venne data molta importanza all’igiene personale. In galleria bisognava utilizzare solo i servizi igienici predisposti e al termine del turno di lavoro sia a Goppenstein che a Kandersteg gli operai potevano usufruire di docce, dove potevano anche depositare gli indumenti da lavoro per farli asciugare.
Si dirà che ciò nonostante perirono in un sol colpo (24 luglio del 1908) ben 25 minatori, ma le cause non furono imputabili alle condizioni igieniche bensì alla sottovalutazione dei rischi e all’insufficiente conoscenza della roccia che si stava scavando. Tanto è vero che, per evitare altre disgrazie, vennero ordinati quei sondaggi del sottosuolo che avrebbero dovuto essere effettuati prima di iniziare i lavori. Quella disgrazia e le altre precedenti e seguenti, che causarono la morte in totale di 116 persone, misero ancora una volta in evidenza la necessità di investire maggiormente nella sicurezza.

Insufficienti sistemi di sicurezza nei cantieri di montagna
Non solo i cantieri ferroviari rappresentavano di per sé un pericolo, per cui la sicurezza avrebbe dovuto avere una parte importante fin dalla progettazione delle opere, ma anche i cantieri di montagna delle imprese idroelettriche avrebbero dovuto essere predisposti tenendo conto dei pericoli e garantendo il massimo di sicurezza possibile. 
Questo non è sempre avvenuto, da una parte per una irresponsabile sottovalutazione dei rischi e dall’altra per un insufficiente rispetto delle persone che eseguivano lavori già di per sé pericolosi (scavi, trasporti, brillamento di mine, ecc.).
L’episodio più tragico è avvenuto nel 1965, quando 88 lavoratori, di cui 56 italiani, che nel 1965 furono travolti da una enorme valanga di ghiaccio e detriti staccatasi da un ghiacciaio e precipitata su un cantiere (obiettivamente mal collocato) mentre si stava costruendo la diga di Mattmark, nel Vallese (cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2017/08/migranti-responsabilita-e-il-richiamo.html). 
Il cantiere di Mattmark travolto dal crollo di un ghiacciaio il 30.08.1965.
A prescindere dalle assoluzioni pronunciate dai tribunali nei successivi processi, è impossibile negare che con diversi sistemi di allerta e di sicurezza si sarebbero potute evitare almeno in parte le conseguenze della disgrazia. L’attenzione mediatica fu tale e tanta che le autorità svizzere e le parti sociali furono indotte a predisporre più efficienti sistemi di sicurezza.
Gli effetti benefici si costateranno solo più tardi, non nell’immediato. L’anno seguente (1966), infatti, in un altro cantiere di montagna, mentre si costruiva un’altra diga tra Robiei e Stabiascio (Ticino), in una galleria in cui si era formata una sacca di gas velenosi persero la vita 15 operai italiani e due pompieri di Locarno. Anche su questa tragedia l’intervento dei media fu determinante per spingere le autorità e i politici a realizzare sistemi di prevenzione e di sicurezza più adeguati ed efficaci.
A distanza di anni è facile costatare i miglioramenti intervenuti nel campo della sicurezza. Proprio oggi (sabato 9 settembre), mentre scrivo, in una località del Vallese non lontana da Mattmark, le autorità hanno fatto evacuare una cinquantina di abitazioni (circa 220 persone) e mobilitato i vigili del fuoco e la protezione civile a causa del rischio che una parte consistente del sovrastante ghiacciaio (sotto osservazione dal 2014) si stacchi e precipiti a valle*. Ora la popolazione può sentirsi al sicuro.
Mi vengono spontanee a questo punto alcune domande. Quanto di questa attenzione e di queste precauzioni per mettere in sicurezza la popolazione è dovuto al sacrificio degli 88 lavoratori stroncati dalla valanga precipitata in assenza di alcun sistema di allerta a Mattmark? E quanti ricordano il contributo «indiretto» di migliaia di immigrati per rendere più efficienti ed efficaci i sistemi di sicurezza sul lavoro di questo Paese?
Giovanni Longu
Berna, 13.09.2017
* Effettivamente nella notte tra sabato e domenica 10 settembre una massa imponente di ghiaccio è precipitata a valle ma senza raggiungere l’abitato e provocare danni (n.d.a.)