06 settembre 2017

Italianità nel Consiglio federale (terza parte)



L’emergenza della seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra poteva ritenersi chiusa agli inizi degli anni ’50. Per quel che riguardava in particolare il versante sud, la presenza nel Consiglio federale dei due ministri italofoni Motta ed Enrico Celio aveva garantito continuità e sviluppo. Per esempio, alla carenza di manodopera nell’economia svizzera era stata trovata una soluzione quasi ideale con l’accordo del 1948 tra la Svizzera e l’Italia in materia d’immigrazione e, con la nomina di E. Celio a Ministro svizzero in Italia, le buone relazioni con l’Italia si erano consolidate, tanto che nel 1953 la Legazione italiana in Svizzera fu elevata al rango di Ambasciata.

Fu forse la relativa stabilità dei rapporti italo-svizzeri a indurre nel 1950 l’Assemblea federale a non eleggere un altro consigliere federale italofono dopo le dimissioni di E. Celio (1950). E fu probabilmente un errore. Ben presto, infatti, le rivendicazioni ticinesi a «un rappresentante della Svizzera italiana» ripresero e i rapporti con l’Italia si complicarono per il calo del flusso migratorio in seguito ad un improvviso rallentamento dell’economia americana e di riflesso anche svizzera tra il 1949 e il 1952, per alcuni imprevisti dell’accordo d’immigrazione del 1948 (problemi dei falsi stagionali, degli immigrati irregolari, dei disagi tra la popolazione indigena, ecc.) e non da ultimo per il pericolo del comunismo, che sembrava minacciare l’Italia e preoccupava la Svizzera.

Giuseppe Lepori (1902-1968)
Giuseppe Lepori (1902-1968)
 In questo contesto, l’elezione nel 1954 in Consiglio federale del conservatore ticinese Giuseppe Lepori fu una sorta di correzione di rotta, anche se risultava soprattutto da un accordo tattico tra conservatori e socialisti, che prevedeva subito l’appoggio dei socialisti alla candidatura Lepori quale «rappresentante della Svizzera italiana» e il sostegno futuro dei conservatori all’elezione in governo di due socialisti (invece di uno solo come avveniva fino ad allora dal 1943), in modo che i tre grandi partiti (socialisti, radicali e conservatori) avessero ciascuno due seggi e i democratici di centro un seggio. L’occasione si presenterà pochi anni dopo quando insieme a Lepori dimissioneranno altri tre consiglieri federali e per la prima volta entreranno in governo due socialisti, avviando così la cosiddetta «formula magica».
Nonostante l’anomalia della sua elezione (che consentì eccezionalmente ai conservatori di essere rappresentati in governo con tre ministri) e aldilà della soddisfazione personale, Lepori riteneva che fosse stato riconosciuto «il diritto della Svizzera italiana» ad essere rappresentata in Consiglio federale e auspicava che la Confederazione si affermasse «quella che deve veramente essere: una unione di tre stirpi, una unione di tre genti, una unione di tre-quattro lingue che apportino tutte il fecondo seme della loro civiltà».
Come i suoi predecessori italofoni, anche Lepori, intellettuale di grande spessore e convinto sostenitore dell’italianità del Ticino e della Svizzera, guardava all’Italia con giustificato interesse. Quando nel 1943, dopo la caduta del governo Mussolini (25 luglio) e la dichiarazione dell’armistizio da parte del governo Badoglio (8 settembre), si erano presentati alla frontiera italo-svizzera migliaia di militari e civili italiani in cerca di rifugio e protezione, Lepori, allora consigliere di Stato del Cantone Ticino, ebbe nei loro confronti un atteggiamento generoso e lungimirante. Egli era convinto della necessità di una politica d’accoglienza: «Fra i profughi attuali forse si trovano le persone che domani saranno a capo del popolo italiano e che mai dimenticheranno l’aiuto trovato da noi in ore tragiche. Anche se ciò non fosse, un senso incomprimibile di fratellanza vuole che i profughi tutti siano trattati con quel senso specificamente elvetico ispirato alla generosità…».
Di fatto migliaia di profughi furono così ben accolti da far dire a uno di loro, il politico Luigi Gasparotto, che «nessun profugo ha potuto sfuggire alla cordialità ticinese». Va anche aggiunto che fu in buona parte una vittoria dell’autonomia ticinese (e di Giuseppe Lepori in particolare, allora alla guida del Dipartimento cantonale di giustizia e polizia) su tanti «divieti» di Berna l’aver consentito a molti ex-profughi di prepararsi alla fase post-fascista con discussioni, pubblicazioni di libri e articoli di giornale firmati spesso con pseudonimi (per evitare la censura).

Nello Celio (1914-1995)
Dopo le dimissioni di Giuseppe Lepori per motivi di salute (1959), l’Assemblea federale sembrò dimenticarsi nuovamente della Svizzera italiana, che dovette attendere dodici anni prima dell’elezione di un altro suo rappresentante, Nello Celio (1967-1973). Anche la sua elezione fu dettata da motivazioni interne più che internazionali o di rappresentanza delle varie lingue e culture svizzere.
Nello Celio (1914-1995)
In quel momento la Svizzera era scossa dall’«affare dei Mirage» (il credito autorizzato per l’acquisto di 100 aerei da combattimento sarebbe quasi raddoppiato, se fossero stati acquistati tutti). Per la prima volta fu istituita una commissione parlamentare d'inchiesta, che costrinse alle dimissioni alcuni alti funzionari. Il capo del Dipartimento militare, Paul Chaudet, sollecitato a rassegnare le dimissioni, nel 1966 rinunciò a un nuovo mandato. Bisognava fare ordine nelle finanze federali e ridare fiducia ai cittadini, tanto più che si era in presenza di un’inflazione molto alta.
L’elezione di Nello Celio fu molto contrastata sia in Ticino (il partito liberale radicale ticinese ambiva da tempo al ritorno nel governo federale dopo quasi un secolo dalle dimissioni di G.B. Pioda e all’interruzione della lunga rappresentanza cattolico-conservatrice della Svizzera italiana, avviata nel 1911 con Motta e proseguita con E. Celio e Lepori) che nell’Assemblea federale (i romandi erano restii a cedere il seggio liberato dal vodese Chaudet), ma la spuntò colui che sembrava dare maggiori garanzie per il risanamento delle finanze federali, la lotta all’inflazione e lo sviluppo economico, l’apertura alle problematiche sociali già dimostrata durante l’attività politica nel Ticino.
Sebbene le considerazioni di politica di buon vicinato con l’Italia non rientrarono nelle motivazioni che spinsero soprattutto gli esponenti della destra economica a votare in maniera compatta a favore di Celio, non c’è dubbio che durante tutta la sua permanenza in Consiglio federale ha sempre avuto grande attenzione e interesse agli eventi della vicina Penisola e ha curato con grande finezza le relazioni bilaterali ufficiali e personali.
Sull’«italianità» di Nello Celio, per non ripetere cose già scritte più volte in passato preferisco rinviare il lettore interessato ad alcuni articoli ed in particolare a «Nello Celio e l’immigrazione italiana» (http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2014/02/nello-celio-e-limmigrazione-italiana.html; http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2014/02/nello-celio-e-limmigrazione-italiana_19.html). Desidero solo ricordare che secondo lui molti problemi (e negli anni ’60 e ’70 erano tanti) non vennero nemmeno alla luce e quindi non fecero scalpore nell’opinione pubblica grazie ai contatti personali ch’egli aveva non solo con esponenti del governo italiano ma anche dell’Ambasciata di Berna. Eppure c’è ancora chi si ostina a commentare che per curare le buone relazioni con l’Italia e il mezzo milione di italiani presenti nella Confederazione non c’è bisogno di un consigliere federale italofono.

Flavio Cotti (*1939)
Flavio Cotti (*1939)
Le dimissioni di Nello Celio (1973) segnarono per diversi anni l’assenza dell’italofonia nei ranghi del Consiglio federale, fino all’elezione del ticinese Flavio Cotti nel 1986.
Cotti è stato, finora, l’ultimo grande consigliere federale italofono (1987-1999) e fu senza dubbio un campione della promozione dell’italianità nell’amministrazione federale, nel Ticino e nella Svizzera, soprattutto durante il periodo in cui fu a capo del Dipartimento federale dell’interno. Saggiamente egli vedeva la difesa dell’italianità non come una questione marginale per rispettare una minoranza importante di questo Paese, ma come una questione esistenziale per la Svizzera. Sosteneva che «per l’identità di noi svizzeri» è di capitale importanza che il plurilinguismo sia realmente vissuto.
Da consigliere federale, Cotti è stato un convinto federalista, ma non solo perché vedeva nel sistema istituzionale della Svizzera uno straordinario intreccio di sovranità tra Confederazione, Cantoni e Popolo, ma anche perché «il nostro attuale sistema federalista rappresenta la migliore garanzia d'esistenza per le nostre minoranze».
Nei confronti dell’Italia fu un vero amico. Nel 1991, in occasione del Settecentesimo anniversario della fondazione della Confederazione Elvetica, il governo italiano fece omaggio alla Svizzera di un volume rievocativo dal titolo significativo «Svizzera e Italia, per sette secoli». Nella presentazione di Flavio Cotti, allora Presidente della Confederazione, intitolato: «Sette secoli di amicizia tra Svizzera e Italia», sottolineava l’«amicizia sincera e profonda che unisce – sulla scorta della prossimità geografica e di antichissime relazioni storiche e culturali – il popolo italiano con quello svizzero» e auspicava che «l’amicizia fra Italia e Svizzera possa ulteriormente fiorire e svilupparsi in un quadro europeo di pace e di prosperità».

Dopo Cotti Cassis?
Per le sorti della lingua italiana nella Svizzera tedesca e francese, per la valorizzazione dell’enorme capitale umano e culturale «italiano» presente in Svizzera, per la coesione nazionale il rischio della dispersione e della rassegnazione al peggio è reale. «Da quando l’onorevole Flavio Cotti ha lasciato il suo posto a Berna le cose sono peggiorate. Segno che la mancanza di un nostro rappresentante nell’esecutivo si fa sentire concretamente, purtroppo, anche in questo ambito». Così diceva Renato Martinoni nel 2005 riferendosi in particolare alla situazione della lingua italiana. Quel giudizio mi sembra condivisibile anche oggi, estendendolo a tutto quanto è riferibile all’«italianità». Un patrimonio da salvaguardare, per cui un italofono in Consiglio federale appare urgente e necessario. Dopo Cotti verrà Cassis?
Giovanni Longu
Berna, 6 settembre 2017