14 giugno 2017

Italiani in Svizzera: 19. Associazionismo italiano nel dopoguerra e fine del modello «coloniale»



Gli italiani immigrati in Svizzera negli anni '50 e '60 hanno dovuto affrontare condizioni di vita e di lavoro molto difficili. La situazione di bisogno di gran parte degli immigrati ha talvolta generato in essi sentimenti di rassegnazione e di accettazione di qualsiasi lavoro, di qualsiasi salario e condizioni di vita impensabili prima di emigrare. La stessa situazione, grazie anche a leggi e regolamenti favorevoli all’economia (si pensi, per esempio, al divieto per i nuovi immigrati di cambiare posto di lavoro o genere di attività), ha ispirato spesso nei datori di lavoro svizzeri sentimenti di potere e di dominio sui loro dipendenti stranieri. Non è pertanto banale affermare che la condizione dell’immigrato in Svizzera era difficile e penosa.

Condizioni difficili
L'UNITRE è oggi una delle associazioni più sentite ed efficienti.
Quasi sempre il motivo determinante dell’emigrazione era la certezza di un lavoro e di un salario che consentisse ampi risparmi. Se in Italia, a sud come a nord, ci fossero state le stesse possibilità, sicuramente il fenomeno emigratorio del dopoguerra non si sarebbe sviluppato, almeno nelle stesse proporzioni. Decidendo di partire, spesso ignorando totalmente le caratteristiche essenziali del Paese di destinazione e persino il lavoro esatto che si andava a svolgere, era dato per scontato che specialmente all’inizio non sarebbero mancate le difficoltà. Credo, tuttavia, che la stragrande maggioranza degli emigranti nella Svizzera tedesca (la principale destinazione degli italiani negli anni ’50 e ’60) non si rendesse minimamente conto delle difficoltà ambientali, linguistiche, culturali, abitative e lavorative che avrebbe incontrato.
Molti racconti di immigrati di quegli anni rievocano il disagio provato già al passaggio della frontiera (a causa dell’obbligatoria visita medica), ma soprattutto alle prime difficoltà incontrate sul lavoro e nella vita sociale, soprattutto a causa della non conoscenza della lingua locale, alla sensazione di essere sfruttati, discriminati, considerati diversi ed estranei e accusati di tanti difetti (per esempio, di essere chiassosi, lamentosi, invadenti, arroganti, violenti, pericolosi…). Dominavano su tutti i sentimenti la nostalgia e il desiderio del ritorno al proprio paese, perché per quasi tutti gli immigrati italiani del dopoguerra l’emigrazione era come una missione: lavorare, guadagnare, risparmiare e tornare dov’era il principale centro degli interessi, la famiglia.
Il sorgere, negli anni ’60 e ’70, di centinaia, forse migliaia di associazioni di tutti i generi (associazioni locali, regionali, nazionali con le più svariate finalità: assistenziali, scolastiche, culturali, sportive, politiche, religiose, ecc.) denota non solo il grande isolamento e l’incomunicabilità degli immigrati nei confronti degli svizzeri, ma anche la difficile convivenza tra gli stessi immigrati. La voglia di respirare aria di casa propria, parlare la stessa lingua (molto spesso lo stesso dialetto), praticare le stesse usanze spingevano gli immigrati a rifugiarsi solo o prevalentemente in quelle associazioni dove erano maggiormente presenti compaesani o immigrati provenienti dalla stessa provincia o dalla stessa regione.

La risposta dell’associazionismo
Molte associazioni favorivano tale rigenerazione e non c’è dubbio che esse hanno rappresentato per molti immigrati una sorta di ancora di salvezza dalla depressione, dal senso di profondo isolamento e di abbandono. L’associazione rappresentava una sorta di luogo protetto e sicuro dove potersi esprimere liberamente, sorridere e per qualche ora dimenticare. Soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, quando maggiormente si sentiva soprattutto tra gli immigrati italiani il disagio di essere confrontati con diffusi sentimenti xenofobi tra la popolazione svizzera e con misure politico-amministrative percepite come limitazioni dei diritti politico-sociali, l’attività delle associazioni era rassicurante.
Classe dell'UNITRE di SO durante un corso sulla Svizzera
Basterebbe ricordare i successi che riscuotevano le feste tra soci e quelle aperte al pubblico con musica e balli. Pochi si accorgevano che queste associazioni o alcune di esse non facevano comunque che «aggravare la situazione di isolamento non soltanto verso il Paese d’arrivo, ma verso gli stessi emigrati di altre nazionalità, o addirittura della medesima nazione, conservando intatti i vari regionalismi e campanilismi della zona di partenza» (G. Blumer).
In alcuni ambienti, nonostante si percepisse la pochezza dell’offerta associazionistica, non si riteneva possibile fare di più, aprirsi. Una testimonianza di quegli anni, riferita ad alcune Colonie libere (ma con una valenza sicuramente più ampia) è molto schietta: «Tutte queste attività [sportive, ricreative, ecc.] sono finalizzate ad offrire qualche cosa ai soci, ma nel medesimo tempo ci si rende conto che esse perpetuano la situazione di “ghetto”, limitando l’apertura verso l’esterno. D’altra parte non si vede altra strategia possibile date le condizioni di netta separazione esistenti tra Italiani e Svizzeri» (De Marchi 1971-72).

Modello coloniale dell’associazionismo italiano
C’erano anche associazioni con altre finalità apparentemente più serie perché si proponevano la lotta alla xenofobia, l’elevazione degli emigrati, la lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori emigrati, ecc. Anch’esse non si rendevano conto che favorendo le contrapposizioni e tentando di scatenare piccole lotte di classe non facevano che aggravare la situazione, allontanandosi sempre di più dal terreno fertile dell’incontro e del dialogo con la popolazione locale.
Ovviamente non tutte le associazioni erano uguali, ma almeno tutte quelle che avevano un certo peso «politico» e una notevole capacità di mobilitazione e di comunicazione avevano in comune una dipendenza più o meno stretta da istituzioni centrali italiane. Non va infatti dimenticato che l’associazionismo italiano in Svizzera, specialmente nel dopoguerra, si è sviluppato secondo un modello di tipo coloniale.
La collettività italiana immigrata era concepita come una «colonia» italiana in diaspora, cioè un insieme di cittadini italiani residenti più o meno stabilmente fuori dall’Italia, ma pur sempre parte integrante dell’Italia. Doveva avere caratteristiche «italiane» e pertanto anche i principali organismi di aggregazione (associazioni) e di rappresentanza dovevano far capo, almeno indirettamente, a istituzioni centrali (governo, regioni, patronati, sindacati, partiti, ecc.). Nemmeno le grandi associazioni come le ACLI, le Colonie libere o i patronati, per non parlare dei cosiddetti organi di rappresentanza (Comites, CGIE, ecc.), sono stati mai veramente autonomi.
Questo modello «coloniale» ha funzionato almeno fino agli inizi degli anni ’70, quando sembrava che il sistema associazionistico avesse raggiunto finalmente l’unità o quasi. Un importante processo di unificazione era stato avviato nel 1969 ed era culminato nella convocazione di un Convegno (Lucerna 25 e 26 aprile 1970) a cui parteciparono oltre 400 delegati in rappresentanza della principali associazioni di immigrati in Svizzera. Il Convegno venne salutato come un evento decisivo dalle principali associazioni, ma rivelò anche le lacune e la fragilità del sistema associazionistico italiano.
Apparentemente, il risultato più importante del Convegno di Lucerna fu l’elezione del Comitato Nazionale d’Intesa, che per oltre un decennio fungerà da principale interlocutore delle autorità italiane in Svizzera. Ad esso veniva affidato il compito impossibile di rappresentare «unitariamente» le anime di oltre 400 associazioni di base «per affrontare e risolvere concretamente i problemi dell’emigrazione». Non vi riuscì. Le sue prese di posizione e i suoi appelli rimasero quasi sempre lettera morta, soprattutto quando si chiedevano cambiamenti che la Svizzera non era disposta a concedere (per esempio l’abolizione dello statuto dello stagionale) e lo Stato italiano non aveva la forza per sostenere una linea dura. L’influenza dei partiti è stata spesso deleteria.

Crisi dell’associazionismo tradizionale e nuove sfide
Molte associazioni cominciarono ad entrare in crisi fin dagli anni ’70 perché non si resero conto dei cambiamenti che stavano avvenendo proprio all’interno della collettività immigrata. Si stava passando da un tipo di emigrazione temporanea (quando si veniva per qualche stagione o anno e poi ritornare) in emigrazione stabile e gli italiani cominciavano ad essere considerati non più Gastarbeiter (lavoratori ospiti), ma parte integrante della società svizzera (grazie soprattutto alla seconda generazione). Per di più, molte associazioni erano talmente cresciute su misura di certi presidenti e dirigenti che col loro ritiro decretavano di fatto l’estinzione delle loro organizzazioni.
Oggi, solo alcune delle vecchie associazioni sono rimaste, soprattutto quelle con forti contenuti assistenziali, politici e religiosi. Nel frattempo ne sono sorte nuove, poche in verità, per venire incontro a nuove esigenze di una collettività italiana diversa, meno «colonia» e più integrata e complessa. Penso in particolare a quelle dedite all’integrazione culturale, politica, sindacale, alla diffusione dell’umanesimo e dell’italianità. Un esempio per tutte: la moderna rete delle Università delle Tre Età (UNITRE) in Svizzera.
In visita al Palazzo federale
Ha scritto nel 2010 il missionario Graziano Tassello, molto attento al fenomeno associazionistico, che «le associazioni tradizionali sono da tempo in crisi. Non tanto perché abbiano cessato di svolgere attività, mantenere contatti tra i soci, essere visitate dagli assessori di turno o da aspiranti parlamentari che pensano di trovarvi una buona base elettorale. Sono in crisi perché non sembrano capaci di generare qualche cosa di nuovo e di illuminare questo tempo di oscuramento a cui il governo italiano ha condannato la diaspora italiana nel mondo».
Tassello si riferiva alla crisi dell’associazionismo tradizionale italiano nel mondo, ma la validità della sua osservazione in riferimento alla Svizzera mi pare evidente. Qui l’associazionismo che svolge ancora qualche attività è talmente politicizzato che le stesse persone che ricoprono cariche nelle associazioni sono spesso a Roma in rappresentanza (politica) della vecchia «colonia» italiana, cercano voti per qualche candidatura (partitica) propria o di altri. L’attrazione di qualche poltrona a Roma dev’essere enorme!
Forse dipende tutto dal fatto che i rappresentanti eletti dagli italiani all’estero sono ormai giunti in Parlamento e questo basta? Spero di no, anche perché dalla loro elezione ben poco o quasi nulla è cambiato, in meglio, per gli italiani all’estero. Le potenzialità dell’associazionismo spontaneo non sono ancora esaurite, ma bisogna saperle indirizzare bene, sul territorio, affrancandosi dalle influenze politiche estranee, abbandonando definitivamente il modello «coloniale» romano. E’ un’opportunità da non perdere. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 14.06.2017