07 giugno 2017

Italiani in Svizzera: 18. Comunismo e anticomunismo frenarono l’integrazione



La Svizzera, durante la guerra fredda, sebbene in quanto Paese neutrale rifiutasse di schierarsi apertamente col blocco occidentale di cui geograficamente e culturalmente faceva parte, fu molto decisa nel combattere il comunismo che caratterizzava il blocco sovietico. Riteneva, infatti, che solo dall’Unione Sovietica provenisse il pericolo di un altro conflitto mondiale e la penetrazione ideologica comunista fosse finalizzata a scatenare una rivoluzione in tutti i Paesi democratici compresa la Svizzera. Le autorità politiche, ma anche gli ambienti economici, erano concordi nel ritenere che il comunismo andasse combattuto con misure preventive e repressive. Una di esse doveva consistere nel controllo sistematico dell’attività politica degli immigrati, soprattutto italiani.

Divieto di propaganda
La Svizzera, fin dall’inizio del XX secolo, aveva fatto chiaramente intendere agli stranieri che cercavano rifugio o che volevano stabilirsi in questo Paese di non tollerare qualsiasi propaganda politica che potesse rappresentare una minaccia alla sicurezza interna o esterna dello Stato o all’ordine pubblico (compresa la «pace del lavoro», siglata tra le parti sociali nel 1937). Molti politici e intellettuali svizzeri consideravano la penetrazione di ideologie sovversive straniere una delle forme più pericolose d’inforestierimento «spirituale», perché agiva sulle coscienze e minava le basi culturali della Svizzera.
Il pericolo rosso!
Per questo, già il 5 dicembre 1938 il Consiglio federale aveva preso provvedimenti severi non solo contro il pericolo delle ideologie fascista e nazionalsocialista, ma anche contro le «mene comuniste» e la «propaganda sovversiva». Tuttavia, man mano che il fascismo e il nazismo perdevano consensi in tutta la Svizzera, le preoccupazioni maggiori delle autorità politiche e dell’opinion pubblica si concentravano sul «pericolo comunista». Nel 1940, un quotidiano ticinese riteneva che fosse «un dovere di tutti gli svizzeri, autorità e popolo, premunirsi contro tale pericolo […] che è grave in tutta la sua realtà».

Italiani «pericolosi»
Finita la guerra, il «pericolo comunista» apparve tutt’altro che eliminato. Non era solo rinato il partito comunista svizzero nelle vesti del Partito del Lavoro (1944), ma con l’arrivo in massa di lavoratori immigrati dall’Italia, dove il Partito comunista italiano (PCI) era considerato molto influente, il rischio che tra loro ci fossero molti comunisti sembrava reale e da prendere sul serio. Le autorità federali ritenevano che alcuni fossero veri e propri attivisti inviati appositamente per fare propaganda tra gli immigrati.
Fu anche per questa ragione che il 24 febbraio 1948 il Consiglio federale emanò un decreto molto severo riguardante i discorsi politici di stranieri. All’articolo 2 si diceva chiaro e tondo che «gli stranieri che non sono in possesso di un permesso di domicilio possono prendere la parola su argomenti politici nelle assemblee pubbliche o private solamente se hanno ottenuto un’autorizzazione speciale». L’articolo 3 avvertiva: «L’autorizzazione sarà negata se vi sia da temere che venga posta in pericolo la sicurezza interna o esterna del Paese o che sia turbato l’ordine pubblico. Gli oratori stranieri devono astenersi da qualsiasi intromissione in questioni che riguardano la politica interna della Svizzera».
In piena guerra fredda, alcune associazioni di italiani sembravano ignorare tale divieto e non solo introducevano dall’Italia ogni tipo di materiale di propaganda, ma facevano intervenire come oratori alle loro riunioni anche esponenti politici, talvolta di prim’ordine, del PCI. Le autorità svizzere divennero sempre più sospettose e guardinghe.

Passione politica e rischio di disordini sociali
Protesta di italiani che gli svizzeri non gradivano
Ripensando quegli anni, è facile immaginare quanto fosse improbabile e tutt’altro che semplice, per i pochi funzionari incaricati della sorveglianza, riuscire a controllare tutta l’attività politica degli immigrati, soprattutto nelle assemblee private. Anni più tardi risulterà evidente quanto tali controlli fossero indiscriminati, eccessivi e confusi. Risulterà tuttavia altrettanto evidente che per oltre un ventennio si era trasferita anche in Svizzera, tra gli immigrati italiani, quella passione politica che caratterizzò il dopoguerra italiano attorno allo scontro tra partiti di centro, a guida democristiana, e partiti di sinistra, a guida comunista. Per la politica e l’opinione pubblica svizzera era apparso indispensabile impedire non solo che quella passione potesse degenerare in conflitti sociali, ma anche che l’organizzazione allora più vicina al Partito comunista, la Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS), acquistasse una posizione dominante.
Durante il fascismo, le collettività italiane emigrate erano considerate come «colonie» da governare alla stregua degli italiani in Italia. Per questo, nelle principali città, erano stati istituiti Fasci, scuole, associazioni, Case d’Italia, ecc. anche se non tutti gli italiani vi aderirono. Alcuni gruppi di immigrati e soprattutto i fuorusciti preferirono altre strutture e organizzazioni, prive dei sussidi governativi, ma libere. Caduto il fascismo, ci fu un’importante operazione di «liberazione» delle colonie fasciste, ad opera soprattutto delle Colonie «libere» italiane (CLI) costituite nelle principali città svizzere a partire dal 1943 da esuli antifascisti di grande levatura morale e intellettuale oltre che politica come Fernando Schiavetti, Egidio Reale, Giuseppe Chiostergi e altri.

La FCLIS sorvegliata speciale
Finita la guerra, la FCLIS, rivendicò subito «la rappresentanza unitaria di tutti gli italiani dimoranti in Svizzera e rimasti fedeli alle grandi tradizioni di libertà e di umanità». Si trattava soprattutto di una rappresentanza morale (ispirata ai principi della libertà, della solidarietà e della difesa dei lavoratori) e politica (caratterizzata da un forte spirito antifascista e, da quando il PCI guidò l’opposizione, anche antigovernativo), che sollevò però forti dubbi e contrasti persino all’interno della FCLIS e mise in allarme tanto le autorità svizzere quanto quelle italiane. Divenne una sorta di sorvegliata speciale.
La FCLIS sorvegliata speciale
Una delle prime operazioni controverse riguardava infatti l’epurazione dei fascisti dalle organizzazioni e istituzioni fasciste o che in qualche misura erano state compromesse col regime (Consolati, Dante Alighieri, Case d’Italia, Istituti di cultura, scuole, gruppi sportivi, ecc.). Quanto bastava per avere contro numerose istituzioni e soprattutto le rappresentanze diplomatica e consolari italiane. Alla base di queste operazioni non c’era infatti solo il desiderio di far valere le ragioni dell’antifascismo, ma anche l’obiettivo di «iniziare alla pratica della libertà le collettività italiane uscenti da una specie di medioevo spirituale». Per molti svizzeri non era escluso anche l’obiettivo di far penetrare in Svizzera l’ideologia comunista attraverso il metodo tradizionale della propaganda sovversiva.
Le autorità svizzere erano talmente convinte che le CLI potessero diventare uno strumento di propaganda comunista guidato dal PCI, che già nel 1948 ordinarono un’indagine sull’attività politica dei lavoratori italiani in Svizzera. Dal rapporto che ne fu fatto non emersero particolari situazioni preoccupanti, anche se venne accertata la presenza in Svizzera di attivisti comunisti e soprattutto tentativi di infiltrazioni in diverse organizzazioni di emigrati. Sta di fatto che, probabilmente per dare un segnale chiaro, furono decise alcune espulsioni di italiani presunti aderenti al PCI.
Dall’indagine erano emersi sospetti anche a carico delle Colonie libere italiane, divenute sempre più critiche nei confronti sia dell’Italia (allora a guida democristiana) che della Svizzera. Fra l’altro avevano fortemente criticato l’Accordo italo-svizzero del 1948, soprattutto per non essere state coinvolte nelle trattative, ma anche perché lo ritenevano povero di risultati.

Contrasti in seno all’associazionismo italiano
A sua volta, la FCLIS era criticata all’interno di numerose organizzazioni italiane perché sospettata di voler in qualche modo sostituire nelle «colonie» degli immigrati l’ideologia fascista con l’ideologia social-comunista e assumerne il controllo. Dalle Missioni cattoliche italiane, oggetto di continui attacchi, le CLI erano considerate inaffidabili perché «manovrate dal partito comunista italiano».
Per questa vera o presunta dipendenza dal PCI, molti dirigenti della FCLI non ebbero una vita facile, anzi furono spesso spiati e schedati dalla polizia federale, alcuni vennero arrestati e forse maltrattati, altri vennero espulsi. Nell’agosto 1963 vennero espulsi 18 attivisti comunisti, accusati di propaganda politica e di essere pericolosi per la «pace sindacale» e alcuni deputati comunisti italiani vennero espulsi insieme a loro o non fatti entrare in Svizzera. Nonostante le critiche dell’opinione pubblica sia in Italia che in Svizzera, le autorità svizzere erano oltremodo convinte che la propaganda comunista tra gli immigrati italiani andasse stroncata.
Non diversa era l’opinione prevalente tra i sindacati svizzeri (probabilmente a causa soprattutto della frequente contrapposizione ai sindacati italiani). Persino i patronati italiani, specialmente l’INCA (emanazione del sindacato «comunista» italiano CGIL), erano sospettati di infiltrazioni comuniste e perciò tenuti sotto controllo.
Bisogna anche dire che per molti anni le CLI non godettero nemmeno del sostegno e della fiducia delle autorità italiane, per cui gran parte delle rivendicazioni promosse da loro, spesso in collaborazione con altre organizzazioni, rimase senza esito alcuno.

Conclusione critica
A questo punto, chi pensasse che il comunismo italiano e l’anticomunismo svizzero abbiano prodotto solo attacchi verbali, divisioni tra le associazioni italiane, sospetti, diffidenze, schedature e qualche espulsione, dimentica probabilmente che le contrapposizioni all’interno dell’associazionismo e nei confronti delle autorità e della società svizzere hanno prodotto anche, a mio parere, conseguenze negative rilevanti sull’evoluzione della collettività italiana in Svizzera.
In particolare, non hanno prodotto comprensione, tolleranza, rispetto e vicinanza tra due comunità che per decenni si sono sentite diverse ed estranee l’una all’altra. Il danno arrecato al processo d’integrazione è stato incalcolabile perché invece di essere accelerato, come avrebbe potuto almeno dall’inizio degli anni ’60, è stato di molto ritardato, senza alcun contraccambio. Un po’ di autocritica ogni tanto sarebbe utile. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 7.6.2017