17 maggio 2017

Italiani in Svizzera: 16. La xenofobia



Quando a metà degli anni Sessanta cominciarono a diffondersi malcontenti e atteggiamenti xenofobi contro gli italiani, ritenuti troppo numerosi e pericolosi, si chiese a più riprese l’intervento della Confederazione per limitare l’immigrazione. Il governo federale, sollecitato in questo senso anche dai sindacati, non esitò a ricordare a politici e sindacalisti e in genere all’opinione pubblica, ch’era troppo facile criticare gli stranieri per qualche svantaggio e dimenticarsi completamente dei vantaggi derivanti dall’immigrazione. Ma dovette in qualche misura tener conto delle critiche.

I vantaggi dimenticati
Anni ’60: l’immigrazione di massa di italiani
Dalla fine della guerra fino a quel momento, l’esercito dei lavoratori stranieri, in gran parte italiani, aveva consentito all’economia svizzera uno sviluppo che sarebbe stato impossibile avvalendosi delle sole forze di lavoro interne. Le aziende avevano potuto sfruttare al massimo le loro capacità perché attinsero a piene mani dall’ampio mercato del lavoro straniero tutti i lavoratori necessari per occupare i nuovi posti che si stavano creando in continuazione e quelli lasciati liberi da svizzeri passati ad altre attività. La partecipazione di centinaia di migliaia di stranieri aveva accresciuto il volume dei beni e servizi prodotti più di quanto servisse al consumo interno. Con l’aumento della produzione e delle esportazioni erano cresciuti notevolmente i profitti delle imprese, i salari degli operai e il reddito nazionale lordo e pro capite, contribuendo alla diffusione del benessere. Per un certo tempo nessuno si preoccupò dell’inforestierimento.
Quanto sia stato importante il contributo degli stranieri (che in quel periodo erano soprattutto italiani) lo dimostrano alcune cifre. Il prodotto nazionale lordo della Svizzera passò dal 1946 al 1969 da 20 miliardi di franchi a circa 80 miliardi, e tra il 1950 e il 1973 aumentò di quasi il 100%. Il tasso annuo medio di crescita economica era del 4,6% negli anni ‘50 e del 4,7% negli anni ‘60. La produzione industriale cresceva fino all’11%. L’occupazione era al massimo, la disoccupazione al minimo (81 disoccupati nel 1973).
Eppure c’era sempre qualcuno che aveva da ridire sugli immigrati (italiani) non solo per certi loro comportamenti (in pubblico e in privato), ma anche per l’attaccamento alle proprie tradizioni, per il loro scarso interesse a integrarsi e molto altro ancora.

La ripresa della xenofobia
Una certa paura degli stranieri c’è sempre stata in Svizzera fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, perché, e spesso non senza ragione, erano percepiti come un corpo sociale estraneo (fremd) al resto della popolazione, quasi volessero restarne fuori. Non bisogna nemmeno dimenticare che questo gruppo sociale era diventato in certi periodi alquanto influente, in particolare quello tedesco, tanto da creare almeno in alcuni ambienti dell’amministrazione e della borghesia la paura dell’inforestierimento «spirituale», oltre che economico e finanziario. La mancata integrazione faceva temere la perdita dell’identità e delle caratteristiche nazionali.
Gli italiani, soprattutto da quando divennero la maggioranza degli stranieri, ossia dal secondo dopoguerra, furono presi di mira non per la loro influenza intellettuale, finanziaria o economica, ma perché erano tanti, per alcuni addirittura troppi e soprattutto diversi, «inassimilabili»: per la lingua (nella Svizzera tedesca e francese), la religione (quasi tutti cattolici in regioni prevalentemente protestanti), le aspettative della vita, le abitudini alimentari, i modi di vestire, ecc.
Negli anni ’60 agli italiani  era talvolta
vietato agli italiani l’ingresso in certi locali.
Il primo movimento organizzato contro l’inforestierimento nacque a Winterthur nel 1961 e si diffuse soprattutto tra insegnanti di scuola, operai, piccoli impiegati e contadini nella Svizzera tedesca, reclamando «la Svizzera agli Svizzeri». Nel 1963 diventerà un partito (Azione nazionale contro l'inforestierimento del popolo e della patria) e si segnalerà per oltre un decennio nella lotta per il ridimensionamento della popolazione straniera. Lo stesso anno venne fondato a Zurigo un altro movimento, costituito da fanatici razzisti dichiaratamente anti italiani, che fortunatamente ebbe vita breve. I sentimenti xenofobi continuavano invece a diffondersi.
Fin verso la metà degli anni ’60 gli xenofobi erano ancora pochi e forse per questo la pericolosità delle loro idee fu sottovalutata. La loro pericolosità cominciò a manifestarsi in occasione del dibattito parlamentare per la ratifica dell’accordo tra la Svizzera e l’Italia del 1964 in materia di emigrazione/immigrazione: sembra che agli italiani si concedesse troppo e si spalancassero le porte all’inforestierimento.

Stranieri (italiani) pericolosi?
Ad alimentare sentimenti xenofobi furono diversi fattori, ma uno in particolare, perché era facilmente osservabile: l’inarrestabile flusso immigratorio dall’Italia. Nella prima metà degli anni ’60, con l’arrivo massiccio dei migranti dal Sud Italia molti svizzeri si sentirono come «invasi» e non più padroni a casa propria.
Di per sé gli stranieri non erano pericolosi e per quanto diversi e numerosi non erano in grado di mettere in pericolo né la sicurezza né l’identità della nazione. Eppure, specialmente gli italiani, facevano paura. «A dire il vero, scrisse nel 1965 il grande scrittore svizzero Max Frisch, questa minaccia non è pronunciata apertamente, salvo da qualche testa calda che non capisce niente di economia». Specialmente nei loro confronti non ci sarebbe stato davvero alcun motivo per avere paura, erano utili e contribuivano al benessere generale; ma la paura non è razionale e facilmente dominabile. Di fatto essa aumentava fino ad invadere persino alcuni settori importanti del sindacalismo svizzero.
Anche il Consiglio federale dovette tenerne conto e già il 1° marzo 1963 intervenne con un’ordinanza per limitare l’immigrazione, che cresceva ad un ritmo fino all’11% annuo, introducendo il «contingentamento» della manodopera estera, ossia fissando annualmente con apposita ordinanza il numero massimo di stranieri per azienda. Con questo provvedimento il Consiglio federale intendeva soprattutto frenare le tendenze inflazionistiche (aumento della domanda di alloggi e di beni di consumo e quindi dei prezzi) ma anche dare un segnale di risposta ai movimenti xenofobi, che cominciavano a creare malcontento nel Paese.

Gli stranieri erano troppi? Paura del cambiamento!
Sebbene non esistessero vere «ragioni» di una paura «irrazionale» come la xenofobia, data la portata dei movimenti xenofobi degli anni ’60 e ’70, è opportuno cercare di spiegarla, anche se non è facile. Di sicuro ha origini lontane, quando il giovane Stato federale non aveva ancora consolidati i propri valori costitutivi e gli influssi dei Paesi confinanti potevano apparire minacciosi. Ma dopo, quando la Confederazione era diventata uno Stato solido, affermato, ricco, divenuto Paese d’immigrazione dopo essere stato per decenni, aveva ancora un fondamento oggettivo la paura degli stranieri?
La risposta più convincente, credo, l’ha data ancora Max Frisch, quando scrisse che per molti svizzeri gli stranieri «sono semplicemente troppi, non sul cantiere né in fabbrica né nella stalla né in cucina, ma dopo il lavoro, soprattutto la domenica, di colpo sono troppi. Balzano all’occhio. Sono diversi. Guardano le ragazze e le signore, a meno che non abbiano potuto portare le loro all’estero […], sono semplicemente diversi, minacciano la natura del piccolo popolo dominatore».
In queste frasi, estrapolate da un testo più lungo e articolato, Frisch cercava di spiegare perché gli immigrati italiani, 500.000 in un Paese di cinque milioni e mezzo di abitanti, facevano paura: perché, a parere di molti, erano troppi, diversi e disturbavano la loro tranquillità.
Anche concretamente, tuttavia, oltre 700 mila stranieri rappresentavano un forte cambiamento nella vita sociale, nel mercato del lavoro, nei sistemi di produzione con l’introduzione di nuove tecnologie, nei consumi, nell’edilizia abitativa, nella scuola, nella religione, nella vita quotidiana. Ma il cambiamento forse più difficile da metabolizzare dev’essere stato quello del passaggio in pochi anni da una popolazione di immigrati «ospiti», di passaggio, temporanei, a una popolazione sempre più stanziale di stranieri che non li si poteva più nemmeno chiamare «ospiti», ma al massimo «lavoratori stranieri» (Fremdarbeiter) o, più semplicemente, «stranieri» (Ausländer). Non tutti, infatti, erano lavoratori perché molti avevano messo su famiglia e risiedevano ormai stabilmente in questo Paese con tutti i familiari.

Paura di essere sopraffatti?
La popolazione straniera in continua crescita faceva paura: da meno di 600.000 persone nel 1960 si era superato il milione nel 1970. Solo gli italiani, nello stesso periodo, erano passati da 346.223 a 583.850: un bel balzo, che lasciava aperta la domanda per molti inquietante: andando avanti di questo passo, che fine faranno gli svizzeri, che oltretutto mettono al mondo, in proporzione, molti meno figli degli stranieri?
Poiché a questa e ad altre simili domande nessuna autorità era in grado di dare risposte rassicuranti, sul finire degli anni ’60 la xenofobia esplose, costringendo il popolo sovrano a decidere quanti stranieri poteva ospitare la Svizzera. Nel 1970, si sa, nella famosa votazione sull’iniziativa popolare promossa dal nazionalista James Schwarzenbach, il popolo respinse la proposta di ridurre drasticamente il numero degli stranieri, ma fece chiaramente intendere che mal tollerava un incremento incontrollato della popolazione straniera. E il governo svizzero dovette adeguarsi.
Un altro elemento, su cui seguirà un approfondimento separato, che spiega almeno in parte la paura dell’inforestierimento degli anni ’60 e ’70 è legato anche alle più influenti organizzazioni degli stranieri, specialmente di quelli italiani, considerate comuniste o filocomuniste o comunque di sinistra, ossia, per molti svizzeri, pericolose. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 17.5.2017