03 maggio 2017

Italiani in Svizzera: 14. Gli immigrati non erano «clandestini»!


Quando il flusso emigratorio verso la Svizzera superò (1947) la soglia delle 100.000 persone, il governo italiano ritenne opportuno concludere con le autorità svizzere un accordo di emigrazione (1948). Più che tutelare il lavoro italiano all’estero, come imponeva ormai la Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, al governo interessava controllare il reclutamento dei migranti, per evitare che le imprese svizzere scegliessero il personale direttamente, soprattutto al nord (trascurando i disoccupati meridionali), e che dietro le persone autorizzate a emigrare partissero «clandestinamente», ossia senza i permessi previsti, anche altre persone.

«Quando i clandestini eravamo noi»?
Spesso, in questi ultimi anni, si sono lette affermazioni del tipo «quando i clandestini eravamo noi» (Gian Antonio Stella) e forse pochi si sono chiesti se esse contengano più verità o falsità. Non è facile rispondere senza conoscere, anche solo a grandi linee, la storia dell’emigrazione/immigrazione italiana, ma conoscendola, si scopre facilmente che, soprattutto nel caso dell’immigrazione in Svizzera, quelle frasi sono infondate, false e persino offensive. 
Benvenuti in Svizzera!
Basterebbe chiedersi: è mai possibile che gli immigrati in Svizzera, ormai milioni, siano usciti dall’Italia ed entrati in Svizzera «clandestinamente» (nel significato comunemente inteso), senza documenti, senza permessi? NO, nella stragrande maggioranza non sono mai stati «clandestini», anche se in centocinquant’anni ci sono sempre stati casi di «clandestinità» fin dai tempi dello scavo della galleria del San Gottardo. Spesso, tuttavia, si trattava non di veri e propri migranti per motivi di lavoro, ma di fuoriusciti che, a ragione delle loro idee o delle loro malefatte, avevano tutto l’interesse a vivere nascostamente. In ogni caso, rispetto ai grandi numeri di «immigrati regolari», i clandestini hanno rappresentato le eccezioni, mai la regola.
Tuttavia, il fatto che quelle frasi vengano ancora ripetute merita una spiegazione, anche se potrebbe apparire un po’ strana. Generalmente, infatti, è lo Stato d’immigrazione che vuole proteggersi dall’immigrazione clandestina. Nel caso italiano, invece, è l’Italia, Paese d’emigrazione che, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, ha cercato di impedire l’«emigrazione clandestina», ossia l’espatrio di persone che non avevano tutti i documenti in regola. Perché questo atteggiamento italiano non appaia affatto strano, occorre anzitutto riferire brevemente la situazione migratoria di allora verso la Svizzera. 

La situazione migratoria nel dopoguerra
Anzitutto è bene ricordare che in Italia, per diverso tempo, la classe politica (da destra a sinistra) e l’opinione pubblica furono (almeno apparentemente) concordi sull’utilità dell’emigrazione, sia come rimedio alla disoccupazione e sia sotto l’aspetto economico, perché assicurava all’Italia le provvidenziali rimesse degli emigrati che servivano a ripianare i bilanci. Dalla Svizzera, poi, oltre alle rimesse, entravano direttamente nelle casse statali le tasse di visto sui contratti di lavoro per un importo che si aggirava sui 100 milioni di lire l’anno. Tutte valide ragioni per incoraggiare l’emigrazione verso questo Paese, che nel dopoguerra era particolarmente bisognoso di manodopera, ma anche un’ambita destinazione per moltissimi emigranti.
In Italia, allora, dell’emigrazione in Svizzera si aveva un’idea piuttosto superficiale, ma positiva: si riteneva che gli emigrati fossero in generale fortunati perché potevano lavorare, guadagnare e tornare a casa con un bel gruzzolo da impiegare a loro piacimento. Per di più, di solito, potevano continuare a lavorare in Svizzera, se volevano.

Il punto di vista degli emigrati e della stampa
A creare e diffondere questa immagine fondamentalmente positiva contribuivano gli stessi emigrati, che rientravano dalla Svizzera a fine stagione (se stagionali) o per le ferie (se annuali o domiciliati) solitamente soddisfatti della loro esperienza, del lavoro svolto (anche se spesso penoso e pericoloso) e dei loro guadagni. Molte biografie di emigrati della fine degli anni ’40 e inizi anni ’50 parlano persino di un’accoglienza simpatica da parte degli svizzeri.
Anche la stampa di allora (1949-1951) non faceva che amplificare l’immagine di una Svizzera accogliente in cui gli italiani si trovano pienamente a loro agio. In una serie di reportage veniva descritta una situazione quasi irreale (dal punto di vista italiano) di un popolo onesto, ben amministrato, dedito soprattutto al lavoro, in cui i compiti tra uomo e donna erano ben ripartiti, rispettoso degli stranieri, ecc.
Nel 1949, il Corriere della Sera dedicava un articolo agli italiani che lavoravano nel Cantone Argovia nelle aziende di Wettingen e Baden, intitolato: «Perfettamente ambientati i nostri operai in Svizzera».
Egidio Reale
Un altro articolo del 1951 sul Giornale d’Italia, dopo aver accennato alla presenza animata di molti italiani nelle principali città svizzere, forniva queste significative indicazioni: «Alloggiati in impeccabili Hospize [baracche?], ben nutriti, non oppressi da alcun pregiudizio linguistico o nazionale, non sovreccitati da appelli convulsi e propagande ribelliste, essi lavorano e prosperano, fumano ottime sigarette […]. Si rigenerano moralmente in questa benevola democrazia montana e lacustre». Il giornalista rendeva poi omaggio al ministro (allora non ancora ambasciatore) Egidio Reale, ritenuto il principale artefice di questa situazione per essere riuscito, grazie alle sue «influenti amicizie», ma soprattutto all’impegno e alla sua competenza imbattibile, a «sormontare difficoltà e sbarazzare pregiudiziali alla mano d’opera».

Le maggiori preoccupazioni delle autorità
Che la rappresentazione dell’immigrazione italiana in Svizzera in quegli anni fosse in larga misura fedele alla realtà lo prova anche il fatto che nella stampa locale, ma anche nei documenti diplomatici tra l’Italia e la Svizzera, non vi è quasi traccia di situazioni particolarmente problematiche. Solo nell’agricoltura gli italiani erano soliti lamentarsi sia perché ritenevano gli orari di lavoro eccessivi (rispetto a quelli delle fabbriche) e sia perché era loro vietato cambiare posto di lavoro (una misura introdotta nel 1949 proprio per evitare che gli addetti all’agricoltura e alle piccole aziende abbandonassero quelle attività per cercare lavoro nei centri industriali e nelle medie e grandi imprese, che assumevano più facilmente personale già in Svizzera).
In generale, tuttavia, almeno fino agli inizi degli anni ’50, la situazione riguardante gli immigrati italiani in Svizzera appariva non solo tranquilla, ma anche soddisfacente. Questo non significa che non ci fossero questioni potenzialmente critiche, ma che al momento erano tenute sotto controllo, soprattutto da parte svizzera.
La Svizzera si mostrava piuttosto tranquilla perché, dopo l’adozione della legge sugli stranieri del 1931, era convinta di avere a disposizione gli strumenti adatti per far fronte a due eventuali emergenze: un eccesso di manodopera estera e l’ingresso di persone indesiderate. Nel primo caso sarebbe bastato rendere più difficile non tanto l’ingresso in Svizzera (a causa dei trattati internazionali) quanto l’ottenimento del permesso di soggiorno o il suo rinnovo. Nel secondo caso, la stessa legge rendeva più facile di prima l’individuazione e l’espulsione delle persone considerate «pericolose», allora rappresentate soprattutto da infiltrati comunisti attraverso le Legazioni dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica, ma anche attraverso gli immigrati italiani.
L’Italia, invece, almeno inizialmente, aveva una doppia preoccupazione, da una parte avviare il maggior numero possibile di emigrati verso la Svizzera (oltre che verso altri Paesi) e dall’altra riuscire a mantenere sotto controllo il flusso degli emigrati. In entrambi i casi appariva indispensabile la collaborazione della controparte svizzera, che non era sempre garantita. Il caso degli emigrati italiani «clandestini» è emblematico.

Perché l’Italia considerava molti emigranti «clandestini»?
Sull’onda della corrente migratoria sempre più intensa verso la Svizzera, un numero crescente di italiani e italiane entrava in Svizzera senza documenti di lavoro e di soggiorno previsti dagli accordi con l’Italia, convinti di trovare un posto di lavoro di propria scelta e ben remunerato, più facilmente che seguendo la complicata burocrazia italiana.
Molti italiani desiderosi di emigrare trovavano infatti troppo lunga la trafila burocratica delle domande, dei permessi, del passaporto, del contratto di lavoro, dei visti sui contratti, ecc. e preferivano recarsi sul posto, sperando persino di poter scegliere l’occupazione desiderata e magari più redditizia. Questa pratica, di cui le autorità italiane erano ben al corrente, provocò più di un intervento del Ministro Reale presso le competenti autorità federali, ma invano.
Alfred Zehnder
Per le autorità federali, infatti, se gli italiani espatriavano «clandestinamente», cioè senza passare attraverso i sistemi di controllo predisposti dall’Italia, era una questione tutta italiana. Chiunque infatti poteva entrare in Svizzera, purché titolare di un passaporto, anche turistico, e non era ritenuto illegittimo cercare un posto di lavoro entro i tre mesi consentiti dal permesso turistico. L’Italia, al contrario, li considerava «falsi turisti» e parlava ancora nel 1954 di «esodo clandestino». Lo stesso anno l’ambasciatore Reale denunciava, nell’ambito della Commissione mista prevista dall’Accordo italo-svizzero del 1948, l’arrivo «irregolare» sempre più frequente dal 1951 di lavoratori italiani muniti del solo passaporto turistico, di ben 4000 italiani «entrati irregolarmente in Svizzera» in un solo semestre.
Proprio in quell’occasione, il capo della delegazione svizzera Alfred Zehnder rispose a Reale, come si legge nel verbale della Commissione, di considerare «il mercato nero della manodopera italiana come un mercato regolare. Questo mercato non è illegale e la Svizzera non è tenuta a impedirlo». In altre parole, per la Svizzera, anche i «falsi turisti», non potevano essere ritenuti clandestini, eventualmente da rinviare perché senza un visto sul contratto di lavoro o senza contratto di lavoro. In ogni caso, riteneva Zehnder, 4000 «irregolari» su 160.000 italiani che ogni anno entravano in Svizzera «regolarmente» sono ben poca cosa e poi «le eccezioni sono simpatiche in tutti gli accordi».
Tant’è che ancora oggi qualcuno continua a parlare di emigrati italiani «clandestini» (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 3.5. 2017