12 aprile 2017

Italiani in Svizzera:12. Ripresa dell’immigrazione nel dopoguerra



Con la legge sugli stranieri del 1931, molti ambienti economici, sindacali e politici si sentirono al sicuro da una possibile «invasione» di stranieri: le frontiere si sarebbero aperte secondo i bisogni dell’economia, ma avrebbero potuto rimanere semiaperte nei casi di un reale pericolo d’inforestierimento o di una grave crisi economica. Già nel 1933 il Consiglio federale aveva invitato i Cantoni a vegliare sulla situazione del mercato del lavoro e sul collocamento. Nell’occupazione dei posti liberi la precedenza doveva essere accordata ai lavoratori indigeni e agli stranieri domiciliati. Finita la guerra, tuttavia, il problema non si poneva più perché l’economia svizzera aveva interamente prosciugato il mercato del lavoro interno e abbisognava nuovamente di manodopera supplementare straniera.

Il nuovo quadro giuridico
L’entrata in vigore della legge sugli stranieri, pose fine, di fatto, alla libera immigrazione prevista da numerosi trattati bilaterali di domicilio (compreso quello del 1868 con l’Italia) e avviò la lunga fase dell’immigrazione selettiva, temporanea e precaria sotto il controllo della Polizia degli stranieri.
La legge era chiara: «l’autorità decide liberamente» e pertanto lo straniero non ha alcun diritto al permesso di dimora o di domicilio (art. 4). Nessuno poteva soggiornare e lavorare in Svizzera senza un regolare permesso di soggiorno. Di regola, per i nuovi immigrati per motivi di lavoro, questo era temporaneo, stagionale o annuale. Quando questo scadeva e non veniva rinnovato, l’immigrato doveva accettare la decisione dell’autorità e rientrare in patria: non aveva infatti alcun diritto di restare in Svizzera. Nemmeno il permesso di domicilio dei residenti stranieri stabili era irrevocabile, in quanto anche i domiciliati potevano essere espulsi, per gravi motivi.
Sempre per la stessa legge, le autorità erano tenute a concedere i permessi tenendo conto degli «interessi morali ed economici del Paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». Questa disposizione imponeva non solo di tener sempre presente le esigenze dell’economia, ma anche della società (equilibrio tra popolazione svizzera e stranieri per scongiurare l’inforestierimento). Per esempio, non si dovevano reclutare soltanto scapoli (che avrebbero finito per sposare donne svizzere, rendendo quasi impossibile il rimpatrio) o solo persone sposate (perché i problemi dei ricongiungimenti familiari erano di difficile soluzione, non da ultimo per la penuria di alloggi, ma anche le questioni morali che poneva la separazione della famiglia).
Oltre che a queste disposizioni di legge, i lavoratori immigrati stagionali e annuali, almeno nei primi anni di soggiorno in Svizzera, erano sottoposti a numerose limitazioni. Senza un’autorizzazione non avevano diritto di cambiare posto di lavoro, professione, Cantone e, se sposati, di farsi raggiungere dai familiari. Le condizioni di lavoro, salariali, abitative e sociali, pur essendo azzardato considerarle sistematicamente discriminatorie o peggiori di quelle degli svizzeri, non c’è dubbio ch’esse erano gravate da molti condizionamenti (come risulterà meglio in una prossima trattazione separata e contestualizzata).

La Svizzera chiamò e l’Italia rispose
Alla fine della guerra, la Svizzera, risparmiata dalle distruzioni belliche, conservava un apparato produttivo quasi intatto. Venne immediatamente sollecitato a produrre sempre più per soddisfare la crescente domanda sia interna che esterna, ma la carenza di manodopera indigena, manifestatasi già durante la guerra (nel 1945 la disoccupazione era lo 0,3% della popolazione attiva), rappresentava un freno.
In seguito all’insistente richiesta degli ambienti economici perché venisse autorizzato il reclutamento di manodopera estera, nell’autunno del 1945 il Consiglio federale acconsentì a prendere contatto con tutti i Paesi confinanti, ma poneva agli incaricati delle trattative precise condizioni. La prima era di tener conto delle eventuali difficoltà che si sarebbero potute avere tra qualche anno se si fosse voluto ridurre la manodopera estera in caso di recessione. La seconda mirava ad assicurarsi che quanti fossero venuti in Svizzera avessero potuto senza difficoltà rientrare nuovamente al proprio Paese. Una terza condizione mirava ad ottenere dai Paesi contraenti il consenso e la possibilità di scegliere la manodopera. In pratica si voleva impedire il più possibile una lunga permanenza degli stranieri in Svizzera e la possibilità di attingere liberamente al mercato del lavoro dei Paesi contraenti.
Sulla base di questi principi, già nell’ottobre 1945 la Svizzera aveva preso contatto con i Paesi confinanti, ma né la Germania né l’Austria avevano fornito alcuna garanzia in quanto le potenze occupanti non autorizzavano alla manodopera locale di andare a lavorare all’estero e altrettanto faceva la Francia per ragioni interne. Solo l’Italia si dichiarò disponibile e tanto bastò perché divenisse il principale Paese di reclutamento della manodopera straniera della Svizzera almeno fino agli anni Settanta.
A questo punto, credo che sorgano spontanee alcune domande. Anzitutto: perché solo l’Italia? Inoltre: le autorità italiane erano al corrente della politica immigratoria svizzera, del nuovo quadro giuridico degli stranieri e in particolare delle limitazioni che si ponevano alla libera immigrazione prevista dal Trattato del 1868 ancora in vigore? Perché si è giunti a un Accordo bilaterale sull’immigrazione solo nel 1948? E fu un buon accordo? Infine: perché nel dopoguerra milioni di italiani vennero in Svizzera per lavorare? Le risposte seguiranno. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 12.04.2017