14 febbraio 2017

Italiani in Svizzera: 5. Gli inizi del benessere e della xenofobia



Gli immigrati italiani in Svizzera di fine Ottocento e inizio Novecento lavoravano non solo sui cantieri delle infrastrutture ferroviarie e stradali, ma anche nell’edilizia urbana e nelle fabbriche dei grandi centri industriali di Zurigo, Basilea, Winterthur, Berna, La Chaux-de-Fonds, ecc. Il loro contributo alla creazione del benessere diffuso e, più in generale, di quella che anche in Svizzera fu la «Belle Époque» (dall’ultimo decennio dell’Ottocento al 1914), è stato determinante, ma non è stato sempre apprezzato quanto meritava.

Forte crescita demografica a cavallo tra XIX e XX secolo
L’apertura della galleria del San Gottardo (1882) e la possibilità di trasporti veloci tra nord e sud diedero slancio a tutta l’economia elvetica, proiettandola decisamente verso la modernità. In breve tempo, sul finire del XIX secolo, fu raggiunto un livello di produzione industriale e di prosperità pari o superiore a quello degli Stati europei più avanzati. Il prodotto interno lordo (PIL) pro capite della Svizzera superava nettamente quello di tutti i Paesi vicini. Le condizioni d’abitazione e di vita miglioravano ovunque. I beni di consumo si diffondevano rapidamente, il tenore di vita si elevava, la speranza di vita aumentava.
Berna: tipiche case in mattoni nel quartiere di Kirchenfeld (gl)
Causa e conseguenza di questo straordinario sviluppo era la crescita della popolazione, con i suoi bisogni e le sue aspettative. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, l’incremento demografico raggiunse ritmi più che doppi rispetto ai decenni precedenti, soprattutto nelle città. A Zurigo, per esempio, tra il 1880 e il 1910 la popolazione residente passò da 86.890 a 215.488, a Berna da 45.743 a 90.937, a Basilea da 61.737 a 132.276, a Ginevra da 70.355 a 115.243, ecc.
Ad aumentare non era solo la popolazione svizzera, nonostante fosse ancora considerevole fino alla fine del secolo l’emigrazione, ma anche quella straniera, che compensava ormai abbondantemente le partenze degli svizzeri e soddisfaceva con forze giovani le esigenze crescenti di un’economia in espansione. Tra il 1880 e il 1910 gli stranieri passarono dal 7,4 al 14,7% della popolazione residente. Il contributo maggiore a questo incremento lo fornivano gli italiani. Infatti, mentre nello stesso periodo la percentuale dei tedeschi (fino ad allora il gruppo nazionale di gran lunga più numeroso) sull’insieme degli stranieri scendeva dal 45,1 al 39,8 per cento, quella degli italiani cresceva dal 19,7 al 36,7 per cento.

Trasformazione delle città e boom edilizio
Il segno forse più evidente dello sviluppo economico e dell’incremento demografico era la trasformazione in corso di tutte le grandi città svizzere con nuovi piani urbanistici, creazione di nuovi quartieri, sistemazioni di strade e piazze, costruzione di edifici industriali, commerciali, amministrativi (per la Confederazione e per i Cantoni e Comuni), di servizio (stazioni, uffici postali, scuole, ospedali, chiese, musei…), turistici e di svago (alberghi, teatri, caffè, ristoranti, cinematografi…), residenziali (ville lussuose, ma anche case-giardino per operai e impiegati e «alloggi di utilità pubblica»), alimentando un boom edilizio senza precedenti.
Se nel 1888 l’attività edilizia occupava poco più di 62.000 addetti in tutta la Svizzera, nel 1910 il loro numero era più che doppio. Il 40% di essi (nelle grandi città addirittura il 50%) era costituito da stranieri. Molti erano italiani.
La costruzione della ferrovia e della galleria del San Gottardo ebbe l’effetto, fra l’altro, di accreditare gli italiani come ottimi lavoratori non solo nel ramo del genio civile (strade e ferrovie in particolare), ma anche nell’edilizia generale. Sul finire dell’Ottocento, l’attività edilizia frenetica richiamò pertanto nelle grandi città svizzere un gran numero di muratori e operai generici italiani da adibire nell’urbanizzazione dei terreni e nella costruzione di edifici di ogni genere. Provenivano, come per le costruzioni ferroviarie e stradali, prevalentemente dall’Italia settentrionale e trovavano facilmente lavoro.
I muratori italiani erano molto richiesti perché costavano di meno e producevano più di tutti gli altri. Nonostante i salari bassi, fissati dall’imprenditore e non certo dai salariati, spesso gli italiani riuscivano a guadagnare più di molti svizzeri perché lavoravano generalmente a cottimo. Già questo bastava per attirarsi molte invidie e accuse da parte delle maestranze e degli operai svizzeri. Il colmo si raggiungeva quando, nei periodi di contrazione dell’attività edilizia, molti svizzeri restavano disoccupati e gli italiani continuavano a lavorare. Le risse erano inevitabili e frequenti.

Violenze contro gli italiani
L’episodio più clamoroso fu quello avvenuto a Berna nel 1893, mentre si stava edificando un intero quartiere, Kirchenfeld. Ne ho già parlato in passato, ma merita ricordarlo ancora perché alquanto significativo dell’impatto (negativo) che avevano spesso gli italiani nell’opinione pubblica svizzera, anche quando le presunte cause dei contrasti non dipendevano dai loro comportamenti o dalla loro volontà.
Berna 1893: Käfigturmkrawall (disegno dell'epoca)
Ecco in breve i fatti. L’attività edilizia nel nuovo quartiere era frenetica. Vi lavoravano numerose imprese (anche italiane), che si avvalevano soprattutto di manodopera italiana e ticinese (spesso nelle statistiche dell’epoca la distinzione non è chiara) perché costava meno e rendeva più di quella indigena. Gli italiani lavoravano infatti generalmente a cottimo, solitamente non scioperavano e soprattutto erano più esperti degli svizzeri nell’utilizzo del mattone (Backstein), usato abitualmente in Italia, mentre a Berna cominciava solo allora ad essere preferito all’arenaria (Sandstein) tradizionale.
In questa situazione, per muratori e manovali svizzeri diventava sempre più difficile trovar lavoro. A molti di essi, il fatto che la stessa sorte non colpisse gli italiani dovette apparire un’onta insopportabile. Il passaggio dalle proteste alle violenze fu quasi inevitabile. Il 19 giugno 1893, 50-60 manovali bernesi, per lo più disoccupati, decisero di dare una lezione agli italiani. Radunata una piccola folla, marciarono in direzione dei cantieri dove c’erano molti italiani. Giunti sul luogo, distrussero ponteggi e quant’altro, picchiando gli operai italiani che non erano riusciti a scappare prima. Fortunatamente non ci furono morti, ma molti immigrati italiani decisero in quel momento di andar via da Berna.
Per evitare l’estendersi della violenza intervenne la polizia e arrestò una settantina di assalitori, sistemandoli nella Torre delle prigioni (Käfigturm). Attorno all’edificio si radunò allora una folla inferocita, che si era nel frattempo ingrossata a più di mille persone, reclamando la liberazione degli arrestati. Per paura di essere sopraffatta, la polizia chiese l’intervento dell’esercito e solo dopo l’arrivo di centinaia di militari da Thun e da Lucerna si riuscì a disperdere i manifestanti. Per precauzione, tuttavia, per oltre un mese 450 soldati venuti dall’Argovia  restarono a presidiare i cantieri più a rischio, al fine di evitare altre violenze e danni materiali.

Opinioni discordanti tra pubblico e autorità
A differenza di quanto era avvenuto in seguito allo sciopero durante lo scavo della galleria del San Gottardo, l’opinione pubblica si divise nel giudicare la «rivolta del Käfigturm» (Käfigturmkrawall). Una parte considerava legittime le rivendicazioni dei disoccupati bernesi, un’altra riteneva invece che la rabbia dei manovali svizzeri non fosse altro che un tentativo rivoluzionario della classe operaia organizzata sotto la guida di capi stranieri (tedeschi).
Le autorità cantonali bernesi, invece, pur essendo intervenute in questa occasione in difesa degli operai italiani, adottarono un atteggiamento del tutto in linea con quello delle autorità del Cantone di Uri quando fecero intervenire la milizia contro i manifestanti italiani. Per esse, infatti, «gli imprenditori non devono cedere alle rivendicazioni degli scioperanti e devono fare di tutto per trattenere i loro operai italiani pronti a partire. Facendo così agiranno nell’interesse superiore del Paese e saranno certi di avere il sostegno di una popolazione giustamente irritata». Evidentemente gli italiani era ritenuti quantomeno utili.
Le autorità federali agirono invece diversamente. Per evitare altri disordini, esclusero gli italiani dalla costruzione del Palazzo federale che stava per essere avviata (1894-1902), ma si attirarono non poche critiche. Per esempio, il corrispondente da Berna di un quotidiano romando, non avendo dubbi sulla  superiorità dell’operaio italiano nei confronti di quello svizzero perché più produttivo, si domandava ironicamente se le amministrazioni pubbliche pensassero seriamente di migliorare l’operaio indigeno escludendo dai cantieri il lavoro italiano. Per lui, infatti, sopprimendo la concorrenza si sopprimeva «uno stimolo al progresso» e lanciava una pesante accusa alle autorità federali affermando: «questo protezionismo costa caro allo Stato che, sotto forma di prezzo unitario più elevato ha dovuto prendere a suo carico l’inferiorità della manodopera locale».

Italiani utili, anzi indispensabili
Numa Droz (1844-1899)
Queste forme di protezionismo, l’opposizione tra manodopera locale e manodopera straniera, i disordini, i sospetti e le facili accuse nei confronti di una parte della popolazione straniera (quella italiana, perché quella tedesca era più rispettata anche se ritenuta più pericolosa, come si vedrà in seguito) segnarono purtroppo l’inizio di un progressivo distacco tra la collettività svizzera e quella degli italiani, che finiranno per condurre praticamente vite parallele ancora per molto tempo. Erano anche le prime avvisaglie di una xenofobia che avrebbe caratterizzato per quasi un secolo i rapporti tra svizzeri e stranieri e soprattutto tra svizzeri e italiani.
La difficile convivenza non impedirà, tuttavia, l’arrivo in Svizzera di decine di migliaia di italiani fino a divenire, specialmente in alcuni rami dell’economia, una forza insostituibile, come attestò nel 1899 l’ex presidente della Confederazione Numa Droz: «considero l’immigrazione italiana non solo utile, ma necessaria». (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 14.02.2017