07 febbraio 2017

Italiani in Svizzera: 4. La «febbre ferroviaria»



La costruzione della galleria ferroviaria transalpina sotto il San Gottardo (1872-1882) fu percepita dagli ambienti del trasporto ferroviario come un successo ripetibile. Progetti di altre gallerie transalpine erano già pronti o in discussione prima ancora che entrasse in esercizio quella del Gottardo. La «febbre ferroviaria» si stava diffondendo in tutta la Svizzera. Il lavoro per minatori, muratori, carpentieri e manovali italiani sembrava garantito almeno per qualche decennio, perché senza di loro era impensabile aprire nuovi cantieri di montagna.

Italiani fidati ed esperti
Italiani al lavoro nella galleria della Jungfraubahn (1900)
Durante i brindisi ufficiali in occasione dei festeggiamenti per l’inaugurazione della galleria e dell’intera ferrovia del Gottardo da Lucerna a Chiasso, alle maestranze e ai lavoratori italiani si accennò appena, ma tutti, autorità e imprenditori, sapevano che senza di essi quell’inaugurazione, in quel moment o e chi sa per quanto tempo ancora, non ci sarebbe stata. Ed è probabile che anche gli stessi italiani ne fossero consapevoli, perché proprio durante quei lavori si crearono intensi legami con le imprese che li avevano ingaggiati. Diversamente non si spiegherebbe perché molte di esse, chiuso un cantiere, erano pronte ad aprirne un altro. Evidentemente partecipavano alle gare d’appalto sapendo di poter contare su squadre di lavoratori italiani bravi e fidati, soprattutto minatori, carpentieri, muratori, ecc. Del resto il lavoro non mancava.
Tra il 1872 (inizio dei lavori della galleria del San Gottardo) e il 1914 (scoppio della prima guerra mondiale), la Svizzera fu pervasa da una specie di febbre ferroviaria. La Confederazione, i Cantoni, le Città volevano proprie ferrovie, tranvie, funicolari, ferrovie di montagna. Le reclamavano il progresso, interessi nazionali e internazionali, i commerci, le comunicazioni, il turismo e persino il prestigio. Tra il 1872 e il 1914 furono costruiti migliaia di chilometri di ferrovia e una sessantina di ferrovie di montagna per migliorare le comunicazioni e a scopo eminentemente turistico e commerciale.

Italiani protagonisti indispensabili
Per la realizzazione di questa densa rete ferroviaria il contributo dei lavoratori italiani fu determinante. Parteciparono ai lavori di preparazione e realizzazione decine di migliaia di italiani, sia come manovali che come operai specializzati. In alcuni cantieri la manodopera era costituita quasi al 100% da italiani. Nel 1905, anno in cui venne realizzato il primo censimento delle aziende in Svizzera, oltre la metà (51%) degli 85.866 lavoratori italiani del settore secondario risultava addetta alla costruzione delle linee ferroviarie e delle strade. Su poco più di 70.000 addetti a questa attività, gli italiani erano ben 45.321, gli svizzeri poco più di 20.000, i tedeschi 1960, gli austriaci 1374, i francesi 584..
Dopo la galleria del San Gottardo (1872-1882), gli italiani furono determinanti per la realizzazione di tutti gli altri grandi trafori ferroviari: Sempione (1898-1906), Ricken (1904-1910), Lötschberg (1906-1913), Mont d’Or, tra la Svizzera e la Francia, (1910-1915), Grenchen-Moutier (1911- 1915), la galleria di base dell’Hauenstein, tra Trimbach e Tecknau (1912-1916), ecc.
I lavoratori italiani furono protagonisti anche nelle costruzioni di gran parte delle ferrovie di montagna, da quelle più celebri, come la Jungfraubahn (1889-1892) e la ferrovia retica (1888-1910, dal 2008 patrimonio mondiale dell’UNESCO) a quelle forse meno famose ma ancora oggi molto efficienti come la Vitznau-Rigi-Bahn (1869-1871, la prima ferrovia a cremagliera d’Europa), la Arth-Rigi-Bahn (1873-1875), l’Alpnachstad-Pilatus (1886-1889, la ferrovia a cremagliera più ripida del mondo), la Gornergratbahn (1896-1898, che collega Zermatt a Gornergrat nella regione del Monte Rosa), la Brienz-Rothorn (1889-1891), la Furka-Oberalp (1911-1915), ecc.

Riconoscimenti federali
Ben a ragione, anni più tardi nel corso di una cerimonia celebrativa, l’ex presidente della Confederazione Enrico Celio poteva affermare: «Né la galleria ferroviaria del San Gottardo nel 1872, né quella del Sempione (1905), né i ponti riallaccianti i dossi dei valloni nelle nostre valli, né i diversi manufatti su cui si snodano le nostre strade ferrate, automobilistiche, del piano ed alpine, né i muraglioni atti a raccogliere le nostre acque nei bacini delle montagne, né molte opere edili d’eccezionale o anche di minore consistenza sarebbero state materialmente realizzate senza l’apporto di lavoro e di sacrificio della mano d’opera italiana».
Della stessa opinione era anche il consigliere nazionale ticinese Nello Celio, divenuto poi anche lui Presidente della Confederazione, che nel 1965 ebbe a dire in Parlamento: «In collaborazione con l'eccellente operaio svizzero, l'emigrazione italiana ha da noi impresso il marchio alle più grandi opere, dalle gallerie ferroviarie agli impianti idrici, e le grandi costruzioni del genio civile non avrebbero visto la luce se umili e meno umili lavoratori di quella nazione che nei tempi illuminò il mondo con la sua civiltà, non vi avessero posto mano. Il padronato svizzero non può misconoscere di avere, grazie alla mano d'opera italiana, risolto il problema della espansione ed i lavoratori del nostro paese, dopo aver fino a ieri predicato la solidarietà internazionale, non avranno dimenticato il contributo dell'estero all'incremento del prodotto sociale di cui essi stessi hanno beneficiato in larga misura».

Italiani sempre più numerosi
La costruzione della galleria del San Gottardo aveva inaugurato, per così dire, la grande immigrazione in Svizzera degli italiani, dapprima principalmente dalle regioni del nord (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), poi anche dal centro e dal sud.
Per la galleria del Sempione furono fatti arrivare anche dal sud, specialmente dalla Calabria, ritenendo che i meridionali avrebbero sopportato meglio le alte temperature che si prevedevano in galleria. Per la costruzione della galleria del Lötschberg, in cui furono ancora impiegati quasi esclusivamente lavoratori italiani, il 40% proveniva dal Sud, il 30% dall’Italia centrale e il 27% dal Nord.
Cippo commemorativo e targa (v. sotto) con i nomi delle vittime
della sciagura del Lötschberg, nel cimitero di Kandersteg (gl).
Poiché il lavoro ferroviario sembrava non finire mai, di «figli d’Italia che vanno pel mondo offrendo coraggiosamente sé stessi per opere ardue e rischiose» (così scriveva lo scrittore Niklaus Bolt nel 1913 subito dopo l’inaugurazione del Lötschberg) ne arrivavano sempre di più. Se nel 1870 gli italiani residenti in Svizzera erano poco più di 18.000, nel 1900 superarono le 117.000 unità. Erano attratti soprattutto dal guadagno, per lo più ignari dei rischi e delle condizioni di lavoro e di vita alle quali sarebbe stati sottoposti.

Condizioni di vita e di lavoro pessime

La targa dedicata "Ai Figli d'Italia Martiri del lavoro per l'unione
dei vincoli internazionali nel traforo del Lötschberg..." (gl)
Dopo l’esperienza della galleria del San Gottardo, negli altri scavi migliorarono notevolmente le tecniche, che consentivano un avanzamento sempre maggiore (fino al doppio, 12 metri al giorno, nella galleria del Lötschberg). Non altrettanto si può dire delle condizioni di lavoro, che anzi, soprattutto nella galleria del Sempione, risultarono persino peggiori a causa delle alte temperature e dell’insufficiente ventilazione.
I salari, inizialmente molto bassi, salirono in seguito lentamente soprattutto a seguito di lunghi scioperi. Anche le condizioni abitative dei lavoratori, ancora pessime durante il traforo del Sempione, migliorarono in seguito con significativi progressi già nei cantieri per lo scavo del Lötschberg.
Durante la costruzione di queste opere grandiose del lavoro umano gli italiani pagarono un grande contributo di sangue. Oltre alle centinaia di morti collegate allo scavo del Gottardo, 67 furono gli operai deceduti durante il traforo del Sempione (ma almeno altri 200 morirono in seguito di pneumoconiosi, un’affezione dei polmoni provocata dall’inalazione di polvere). Durante i lavori nella galleria del Lötschberg i morti furono 64, 25 dei quali travolti da un’improvvisa e imprevista (!) massa di circa 10 mila metri cubi di acqua, fango e detriti che invase la galleria dove stavano lavorando. 29 italiani (su 30 in tutto) morirono durante la realizzazione della Jungfraubahn. Complessivamente, tuttavia, gli italiani caduti sul lavoro in Svizzera furono migliaia.
Può essere illuminante, a questo punto, un breve dialogo contenuto in un romanzo dello scrittore Bolt già menzionato. Il romanzo, del 1913, è intitolato «Svizzero» anche in tedesco e racconta la storia di uno dei pochi svizzeri che lavorarono in galleria insieme agli italiani. Si chiamava Christen Abplanalp, ma gli italiani lo chiamavano «Svizzero». Prima di cominciare a lavorare, uno svizzero adulto aveva cercato invano di dissuaderlo perché ancora minorenne con queste parole: «Senti, ragazzo, sei quassù fra neve e ghiaccio, è terribilmente pericoloso: non vedi quanti sono già caduti ed hanno braccia o la testa fasciate? Ci devono essere uomini che si sacrificano e mettono a repentaglio la loro vita per compiere un’opera così grandiosa, ma gli italiani sono più abituati di noi». Ma il ragazzo, nel racconto di Bolt, replicò: «Sono più abituati a morire? Rimango proprio, non posso cedere».
A distanza di oltre un secolo, il ricordo di quelle imprese resta affidato unicamente a qualche scritto e a qualche lapide commemorativa. Raramente se ne ricordano i protagonisti, quasi tutti italiani rimasti per lo più anonimi, che le realizzarono in condizioni di estrema durezza. Eppure essi furono, per lo più inconsapevolmente, artefici delle principali linee ferroviarie di collegamento tra Nord e Sud dell’era moderna.

Giovanni Longu

Berna, 7.2.2017