05 ottobre 2016

Svizzera e Italia a confronto (2a parte)


IL RUOLO DEI GENERALI NEI PROCESSI DI UNIFICAZIONE


Sarebbe errato affermare che la Confederazione Svizzera e l’Italia sono state fatte dai generali, ma non c’è dubbio che all’origine dei processi unificativi dei Cantoni svizzeri e degli Stati italiani i comandi militari hanno svolto un’azione determinante. Basti pensare al ruolo svolto in Svizzera dal generale Dufour nel 1847 e in Italia dai generali La Marmora, Bixio, Garibaldi e altri tra il 1848 (prima guerra d’indipendenza) e il 1861 (unità d’Italia). Eppure, quante e quali differenze, anche sotto questo aspetto, tra la Svizzera e l’Italia!
Per semplificare il confronto, in questo articolo prenderò in considerazione soltanto due personaggi che operarono quasi contemporaneamente tra il 1847 e il 1849, ossia Guillaume-Henri Dufour (1787/1875) e Alberto La Marmora (noto anche come Alberto Ferrero della Marmora, 1789-1863). Del fratello di quest’ultimo Alfonso La Marmora, biasimato dai genovesi, si è parlato nell’articolo precedente.

Dal Sonderbund alla Confederazione
In Svizzera, nel 1847 era in atto da alcuni anni una lotta non solo ideologica tra i Cantoni (in maggioranza protestanti) che aspiravano a un maggiore centralismo (Stato federale) e i Cantoni (in maggioranza cattolici) che si battevano per la completa autonomia cantonale. Di fronte al pericolo di una concentrazione dei poteri nelle mani della Confederazione, per timore di perdere la propria autonomia e i propri privilegi, sette Cantoni conservatori cattolici (Lucerna, Uri, Svitto, Untervaldo, Zugo, Friburgo e Vallese) decisero di costituire una «Lega separata» o Sonderbund.
Gen. Guillaume-Henri Dufour
Non si trattava di una secessione (perché non esisteva ancora uno Stato comune di appartenenza) e nemmeno di una di una vera e propria separazione, ma di una prova di forza di alcuni Cantoni nei confronti di altri, che tuttavia avrebbe potuto degenerare e rompere in maniera irreparabile la «Lega dei Confederati» o Confederazione a cui il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva riconosciuto la sovranità territoriale e la garanzia internazionale delle grandi potenze continentali.
Sentendosi minacciati, i sette Cantoni ribelli, avevano costituito un proprio esercito, un po’ raccogliticcio, e cercavano di allearsi con l’Austria, Paese cattolico e antico nemico della Confederazione, ma violando con ciò le regole dell’alleanza. Per far rispettare gli accordi, i Cantoni rimasti fedeli alla Confederazione incaricarono il generale Guillaume-Henri Dufour (1787/1875) di mettersi alla testa di un esercito federale (da costituire immediatamente con contingenti messi a disposizione dai vari Cantoni) e fare cessare la ribellione.

Il generale Dufour
Prima di accettare l’incarico, il generale Dufour ebbe una grave crisi morale, perché si rendeva conto del rischio di combattere una guerra fratricida. D’altra parte era convinto dell’importanza vitale dell’unione tra tutti i Confederati per la sopravvivenza della Lega. Finì per accettare la nomina di generale con pieni poteri, non senza esitazione e reticenza, perché era consapevole che occorresse combattere sì i separatismi, ma si dovesse soprattutto cercare di ripristinare lo spirito della concordia e della coesione.
Assunto il suo compito, Dufour ispirò la sua azione militare a due principi fondamentali: terminare la guerra il più presto possibile, ma essere al tempo stesso il più umano possibile. Il risultato fu, sotto il profilo militare e politico eccellente. Infatti la guerra durò appena 25 giorni e fece soltanto 74 morti nell’esercito federale e 24 tra i combattenti del Sonderbund. Pretese inoltre condizioni di pace onorevoli per i vinti e in tal modo spianò la strada alla creazione dello Stato federale moderno.
Secondo Dufour, la maggioranza vincitrice non doveva infierire sui vinti ed egli stesso si fece promotore di una riconciliazione, per non compromettere la riforma della Lega, con una nuova costituzione, di cui si stava discutendo in quegli anni. La posta in gioco era altissima, anche perché gli eventi svizzeri erano attentamente seguiti dalle potenze confinanti e non si escludevano ingerenze indesiderate. In effetti, si riuscì, anche grazie a Dufour, ad evitare sanzioni umilianti per i ribelli e a costituire per la stesura del nuovo testo costituzionale una Commissione di moderati (anche se prevalentemente dell’area dei vincitori), attenta anche alle richieste dei Cantoni conservatori sconfitti.

Gli ultimi re del Regno di Sardegna
Il Regno di Sardegna, negli anni 1848-1849 si venne a trovare in condizioni analoghe a quelle della nascente Confederazione Svizzera e in più occasioni dovette affrontare contestazioni e rivolte al suo interno. Quella di Genova, soffocata nel sangue, non fu l’unica. Anche in Sardegna il Regno intervenne con mano pesante nel 1849 a sedare una rivolta di pastori.
Per rendersi conto del difficile momento storico, occorre ricordare che la proclamazione (4 marzo 1848) da parte del re Carlo Alberto dello Statuto albertino, ispirato a idee liberali, aveva alimentato enormi aspettative non solo nei territori del Regno (Piemonte, Liguria e Sardegna), ma anche nel resto d’Italia, soprattutto negli ambienti liberali e progressisti. Dando seguito a queste aspettative, Carlo Alberto iniziò le guerre d’indipendenza dal dominio austriaco sul Veneto e sulla Lombardia, ma subì pesanti sconfitte che lo costrinsero ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II (1820-1878).
Il nuovo re ebbe l’accortezza di non abrogare lo Statuto albertino (anche se aveva in alcune occasioni minacciato di abolirlo) e questo gli valse l’appellativo di «Re galantuomo». A lui riuscì di portare a compimento l’opera avviata dal padre, ossia l’unificazione dell’Italia, diventando il primo Re d’Italia e per questo viene spesso indicato come «Padre della Patria». A lui è stato dedicato nel 1911 il monumento nazionale «Vittoriano», noto anche come «Altare della Patria», a Roma.
Non tutti gli storici, tuttavia, sono concordi nell’esaltazione di Vittorio Emanuele II. Alcuni gli rimproverano la sfrenata ambizione, i sistemi impiegati per rafforzare il (suo) potere monarchico ispirato da «sentimenti assolutisti», e la spregiudicatezza con cui cercò di contrastare i movimenti democratici e di reprimere ogni tentativo d’insubordinazione. Per questo capita ancor oggi d’incontrare scritte quali «Vittorio Emanuele II dittatore», «Vittorio Emanuele II: giù dal piedistallo!»
Il re agiva sempre, evidentemente, per interposta persona, come avvenne a Genova per sedare la rivolta genovese del 1849, servendosi del fedelissimo generale Alfonso La Marmora, e come avvenne in Sardegna lo stesso anno, servendosi di suo fratello Alberto La Marmora anch’egli generale (come del resto gli altri due fratelli maschi).

Alberto La Marmora
Alberto La Marmora è noto non tanto come militare quanto piuttosto come studioso e come scrittore. La sua fama è molto legata alla Sardegna, di cui è stato un profondo conoscitore, sia per il suo celebre racconto di viaggi (Voyage en Sardaigne del 1826) e sia per la sua carta geografica minuziosa sulla Sardegna (Carta dell'isola di Sardegna del 1835/38).   
Gen. Alberto La Marmora
Egli ebbe anche altre benemerenze nei confronti della Sardegna, soprattutto come divulgatore a livello internazionale di ampie e particolareggiate informazioni geografiche e antropologiche sull’isola. Fra l’altro riuscì a misurare il punto più alto dell’isola sul monte Gennargentu che oggi porta il suo nome: Punta La Marmora (1834 metri). Nella rivista «Il Convegno» del marzo 1959, in occasione di una mostra di antiche carte geografiche sarde, si riconosceva all’«insigne Alberto La Marmora» di aver lasciato ai posteri, «con le sue Carte e le sue opere che ancora oggi fanno testo, un monumento perenne».
Di Alberto La Marmora, tuttavia, i sardi non hanno tenuto in considerazione solo le benemerenze. I libri di storia come pure i media isolani ricordano di tanto in tanto che è stato nei confronti dei sardi anche un oppressore. In quanto Regio Commissario e Comandante generale della Divisione militare della Sardegna aveva ricevuto pieni poteri per sedare una rivolta di pastori nel 1849. Riuscì in poco tempo a riportare l’ordine, ma fu accusato dal parlamentare sardo di Bitti Giorgio Asproni (1808-1876) di aver usato sistemi repressivi. L’accusa, naturalmente, non ebbe seguito e il comandante generale La Marmora poté restare tranquillamente in Sardegna. Nel 1851 gli venne persino concessa la cittadinanza cagliaritana.

Qualche considerazione tra federalismo e centralismo
A questo punto, osservando la soluzione del Sonderbund in Svizzera (1847-48) e il metodo repressivo del Regno di Sardegna negli anni 1848-49, non può sfuggire la differenza di comportamento nel sedare le rivolte tra il generale Dufour e i generali La Marmora. Si tratta solo di personalità diverse o rispecchiano una diversa visione dello Stato?
Non c’è dubbio che Dufour sentiva fortemente lo spirito conciliativo di fronte a forze contrastanti non senza legittime motivazioni da entrambe le parti in conflitto, mentre i generali La Marmora incarnavano piuttosto lo spirito militaresco, quasi «prussiano», tipico di Casa Savoia. Sarebbe tuttavia troppo riduttivo liquidare le differenze come una questione di carattere.
Il diverso comportamento di Dufour e dei generali La Marmora esprimono infatti una radicale differenza nella concezione dei due Stati che si stavano formando, non solo nella forma istituzionale, l’una repubblicana e l’altra monarchica, ma anche nella sostanza. La Svizzera, infatti, fin dal 1848 voleva essere federalista e quindi impegnata a ricercare la coesione attraverso il consenso, la concertazione e i compromessi, pena la disgregazione. Il Regno di Sardegna, invece, voleva essere, ad imitazione delle grandi
potenze europee, centralista, unitario e non disposto ai compromessi con gli oppositori democratici. Se nella Confederazione il potere era distribuito in modo equilibrato tra centro e periferia, nel Regno il potere era solo centrale e le periferie erano considerate poco più che colonie.
Dal confronto Dufour-La Marmora verrebbe anche da chiedermi come siano evoluti i due rispettivi Paesi. Mi viene spontanea la risposta: mentre la Confederazione è rimasta sostanzialmente tale e quale (proprio qualche giorno fa il Parlamento ha ancora una volta confermato che i ministri, i Consiglieri federali, devono restare sette esattamente come nel 1848), il Regno di Sardegna è diventato dapprima Regno d’Italia e poi Repubblica Italiana; la monarchia costituzionale è diventata repubblica parlamentare bicamerale, ma è sempre stata fondamentalmente centralista e non ha mai cercato un vero decentramento. Anche la riforma costituzionale sottoposta a referendum il prossimo 4 dicembre si muove in questa prospettiva centralistica, accentuandola. E chi sa se sia un bene o un male?
Giovanni Longu
Berna, 5.10.2016