20 luglio 2016

Brexit: un avvertimento per l’UE



Ricollegandomi a quanto detto nell’articolo precedentedel 4.7.2016, la Brexit è stata vista in Europa quasi unanimemente come un errore e un danno per la Gran Bretagna (GB), non per l’Unione europea (UE). Eppure, anche ammettendo che le conseguenze per la GB saranno rilevanti, certamente per l’UE potrebbero essere ben più gravi. Il condizionale è d’obbligo perché dipende da come reagiranno non solo i grandi burocrati di Bruxelles ma anche i singoli capi di Stato e di governo e i Parlamenti dei Paesi membri.

Un avvertimento
Per tutti gli europei, fino al 23 giugno scorso, la Brexit, ossia l’uscita della GB dall’UE, era nient’altro che una possibilità, per altro abbastanza remota perché quasi tutti i sondaggi davano i contrari in maggioranza. Il premier britannico Cameron aveva avvertito i connazionali che Brexit sarebbe stata una scelta irreversibile e un voto favorevole avrebbe procurato alla GB molti guai. Il NO era dunque dato quasi per scontato.
L’esito del voto ha perciò creato il panico, non solo in mezza GB, ma anche, e forse soprattutto, nel resto dell’UE. I vertici di Bruxelles hanno reagito con durezza: peggio per loro, i britannici, ora devono uscire dall’UE alla svelta. Nessuno sembrava rendersi conto che la Brexit era soprattutto un avvertimento per l’UE: se non cambia, le spinte antieuropee di molti cittadini provocheranno altri referendum e nessuno può escludere che altri Paesi potrebbero seguire la Gran Bretagna. I popoli vogliono essere più protagonisti invece di essere trattati come minorenni irresponsabili, privati persino della libertà di decidere se restare o uscire dall’UE. Vogliono soprattutto più attenzione ai loro problemi, a cominciare dall’insicurezza (aggravata dai frequenti atti di terrorismo e di criminalità), dall’immigrazione incontrollata, dalla crescente povertà, dalla disoccupazione giovanile, ecc.

Brexit per Hollande, Renzi e altri
Angela Merkel con Matteo Renzi (s.) e François Hollande (d.)
Superato lo shock iniziale, ai grandi burocrati dell’UE, ma anche a diversi capi di Stato e di governo, compreso quello italiano, sembrava aver trovato nella Brexit una spiegazione plausibile delle previsioni poco rassicuranti del futuro dell’Unione. Per cui, in coro, diretto da Hollande, si sono affrettati a far sapere a Londra: «ora si deve fare in fretta, via subito la GB dall’UE». Non sembrerà vero a Hollande, quando perderà le prossime elezioni presidenziali, e a Renzi, quando perderà con ogni probabilità il referendum costituzionale, invocare la Brexit come la spiegazione della disfatta.
Non per nulla, al vertice di Berlino tra la Merkel, Hollande e Renzi convocato dalla padrona di casa per individuare una linea comune sul prossimo negoziato che concretizzerà l’uscita della GB dall’UE, Hollande si è affrettato a dire che «non possiamo perdere tempo per non creare incertezza» e Renzi ha aggiunto che «questo è un tempo propizio per una nuova pagina dell’UE». Nessuno ha saputo indicare che cosa conterrà, chi la scriverà e soprattutto se anche i popoli potranno apportare aggiunte e correzioni o anche solo esprimere richieste.
Referendum quale espressione della volontà popolare
So bene che ci sono molti politici, politologi e giornalisti di spicco (tra cui, giusto per fare un esempio, Beppe Severgnini) i quali reputano il referendum uno strumento pericoloso in mano al popolo, ritenuto incapace di decidere con un sì o con un no questioni molto complesse. Queste andrebbero lasciate ai parlamenti, mentre il popolo potrebbe decidere questioni più semplici.
Non condivido l’opinione di Severgnini e di altri che la pensano alla stessa maniera, perché sembrano considerare la «democrazia rappresentativa» (che si esprime attraverso le decisioni parlamentari) superiore alla «democrazia diretta» (che fa spesso riferimento al referendum). Se penso, per esempio, alla democrazia rappresentativa italiana non mi sembra particolarmente brillante, dipendente com’è più dalle segreterie dei partiti politici che dalla competenza e dal senso di responsabilità e di rappresentanza dei parlamentari, spesso voltagabbana e irriguardosi della volontà degli elettori.
Pur ritenendo la «democrazia diretta», com’è esercitata per esempio in Svizzera, non esente da difetti e certamente non in condizione di poter sostituire completamente quella rappresentativa, la considero un ottimo complemento e una forma di espressione diretta della volontà popolare insostituibile proprio quando si tratta di decidere questioni fondamentali, come può essere una riforma costituzionale importante o l’adesione a un organismo internazionale che implica un condizionamento e persino la limitazione della sovranità popolare.

Informazione indispensabile
La complessità dell’oggetto in votazione non è una buona ragione per non sottometterlo a referendum, semmai dovrebbe impegnare il governo e il servizio pubblico ad informare meglio i cittadini su ciò che stanno per decidere, chiarendo in modo equilibrato e veritiero le conseguenze positive e negative del voto favorevole o contrario. Trovo al riguardo esemplare (quasi sempre) lo sforzo di chiarezza e di equilibrio compiuto in Svizzera ad ogni referendum da parte del Governo, persino quando la sua posizione riguardo all’oggetto in votazione è arcinota. Non ritengo poi un male obbligare ogni tanto i cittadini ad informarsi meglio su ciò che stanno per votare, facendo soprattutto attenzione alle conseguenze del voto in un senso o nell'altro.
Sono convinto che il popolo finirebbe per avvicinarsi maggiormente alle istituzioni e incarnare quel sentimento che Calamandrei ricordava agli italiani del dopoguerra: «lo Stato siamo noi», perché «solo con la partecipazione collettiva e solidale alla vita politica un popolo può tornare padrone di sé». Anche la costruzione dell’Europa dovrebbe presupporre le stesse basi.
Giovanni Longu
Berna, 20.7.2016