23 febbraio 2016

Iniziativa per l’attuazione: ingiustificata e odiosa!


E’ auspicabile che il popolo svizzero il prossimo fine settimana (28 febbraio 2016) dimostri chiaramente quanto sia ingiustificata e odiosa l’iniziativa per l’attuazione dell’espulsione dei criminali stranieri.

L’iniziativa mi pare ingiustificata perché la materia è già disciplinata esaustivamente dalla legge e i tribunali sono i soli competenti per la sua applicazione. Occorre anche tener conto che qualsiasi legge ha attenuanti e aggravanti e solo i giudici possono valutare la gravità del reato commesso e commisurare la pena da infliggere al condannato.
Accettando l’iniziativa si sottrarrebbe al giudice ordinario la pienezza delle sue prerogative. Inoltre, nel caso di reati gravi, i giudici sarebbero obbligati ad espellere lo straniero «a prescindere dall’entità della pena inflitta» e persino nel caso di reati minori se ripetuti nell’arco di dieci anni.
L’espulsione quale pena accessoria deve poter essere inflitta caso per caso, ma dev’essere il giudice a deciderla in base alle sue opportune valutazioni. Guai, per uno Stato di diritto – e la Svizzera lo è - se il giudice venisse privato di questo potere.
L’iniziativa è anche particolarmente odiosa, dal punto di vista dei cittadini immigrati o rifugiati e, si spera, della maggioranza del popolo svizzero, perché presuppone ancora una concezione dello straniero già superata da tempo. Era la concezione, tanto per intenderci, di Schwarzenbach e seguaci, secondo cui gli stranieri in questo Paese potevano restare finché servivano e si comportavano bene e dovevano andarsene quando non servivano più o non erano più graditi, secondo il motto «braccia sì, uomini no» (film del 1970), che richiamava la celebre frase di Max Frisch: «Abbiamo chiamato braccia… e sono venuti uomini» (1965). Da allora però sono passati, si spera non invano, cinquant’anni.
Andrebbe inoltre ricordato ai sostenitori dell’iniziativa che gli stranieri residenti non sono più solo numeri o solo braccia da sfruttare, ma persone titolari di tutti i diritti, tranne quelli politici, spettanti ai cittadini di questo Paese, in cui vivono, pagano le tasse e si comportano come loro. Non sarebbe giusto se dovessero pagare, anche penalmente, più dei cittadini svizzeri. Pertanto nei loro confronti si deve applicare né più né meno la stessa giustizia applicata ai cittadini svizzeri. La giustizia è raffigurata bendata proprio perché non fa e non deve fare distinzione in base alla nazionalità, alla provenienza o al colore della pelle. La giustizia è uguale per tutti.
Sono fiducioso. Non penso che la maggioranza del popolo svizzero sia rimasta ferma all’epoca della xenofobia imperante o che sia disposta a rinnegare gli indubbi progressi compiuti nel campo del rispetto e dell’integrazione degli stranieri. Tanto più che, accettando l’iniziativa, rinnegherebbe la stessa democrazia diretta, di cui a giusta ragione gli svizzeri vanno fieri, perché significherebbe lasciarsi manipolare facilmente e soccombere allo strapotere di una sola parte, populista e certamente minoritaria nel Paese.
Giovanni Longu

22 febbraio 2016

Italiani in Svizzera: da manovali a eccellenze



Sabato scorso 20.2.2016 si è conclusa a Grenchen, al Kultur-Historisches Museum, alla presenza di un pubblico folto e interessato, la Mostra fotografica sull’Emigrazione italiana, visitata in pochi mesi da centinaia di visitatori. La mostra, organizzata da un gruppo misto italo-svizzero guidato da Salvatore Faga, presentava uno spaccato di vita quotidiana, lavorativa, formativa e associativa di generazioni di immigrati italiani nella regione. Aveva un titolo significativo: «Si pensava di rimanere poco», che lascia facilmente intuire il seguito «e invece...). Per l’occasione sono stato invitato a tenere una relazione con un titolo non meno significativo e più esplicito: «Italiani in Svizzera: da manovali a eccellenze».

Una metafora della lunga storia dell’immigrazione italiana in Svizzera
Prendendo lo spunto dall’immagine di due bandiere, quella italiana e quella svizzera, che mosse dal vento sembrano toccarsi, scontrarsi, baciarsi, intrecciarsi e confondersi, ho cercato di tracciare un percorso a volo d’uccello della lunga e avvincente storia dell’immigrazione italiana in Svizzera di quasi 150 anni «da manovali a eccellenze».
Commentando il titolo della mostra fotografica ho detto che la verità nascosta nell’espressione «si pensava di rimanere poco» è che agli immigrati, soprattutto dal 1946 fino all’abolizione dello statuto stagionale (2002), non era possibile scegliere o prolungare a piacere la durata del soggiorno. Gli immigrati erano essenzialmente «braccia», che servivano fintanto che l’economia ne aveva bisogno. Per questo erano soprattutto «stagionali» e «manovali».
Esisteva la possibilità di restare in Svizzera più a lungo, ma il percorso tracciato dalla legge federale sugli stranieri del 1931 (permesso stagionale, permesso annuale, permesso di domicilio) era reso estremamente lento e difficile dalla politica svizzera (leggi e regolamenti), dalla xenofobia diffusa (Schwarzenbach e seguaci), dalla politica italiana (indifferente e impotente), ma anche dall’impreparazione degli stessi immigrati.
Di fronte a tante sofferenze fisiche e morali, gli italiani hanno cercato e trovato rifugio nell’associazionismo, che ha rappresentato per tanti immigrati la salvezza (contro la solitudine, la depressione, ecc.), ma per molti altri un freno all’integrazione.
Solo negli anni ’70 avvenne la svolta della politica svizzera ormai sempre più orientata verso l’integrazione. Molti immigrati italiani erano coinvolti grazie ai loro figli (seconda generazione) che sempre più numerosi frequentavano la scuola pubblica, parlavano la lingua locale, frequentavano un apprendistato… cominciavano ad integrarsi.
Ciononostante, nel 1970 la situazione era ancora poco rassicurante. Su una popolazione di 583.850 persone, il 65,6% aveva appena terminato la scuola obbligatoria, solo il 15,8% aveva un diploma di grado secondario superiore (liceo o scuola di formazione professionale) e il 2,8% una formazione di grado universitario. Pochissimi avevano una qualifica professionale. Non c’è da meravigliarsi se per il 98% gli italiani svolgeva un lavoro dipendente.

Verso la piena integrazione
Dovranno passare trent’anni per raggiungere una situazione confortevole. Infatti, in base ai dati del censimento federale della popolazione del 2000, su 322.203 italiani (con la sola nazionalità italiana), solo il 36% non era andato oltre la formazione obbligatoria, mentre il 54% aveva una formazione post-obbligatoria e il 10% una formazione universitaria. La situazione era molto più lusinghiera tra gli italiani in età dai 20 ai 24 anni naturalizzati perché avevano in generale un grado di formazione più elevato sia rispetto ai non naturalizzati che ai coetanei svizzeri, soprattutto a livello di maturità e università.
Nel 2000 la situazione risultava notevolmente migliorata anche sul piano professionale. Al censimento risultavano infatti oltre 1000 ingegneri italiani, quasi 400 informatici, 250 insegnanti universitari o in istituti superiori, oltre 150 medici, alcune centinaia tra fisici, matematici, chimici, ecc. Ormai gli italiani erano presenti in quasi tutti i gruppi professionali (industria, commercio, banche, assicurazioni, insegnamento, ricerca, ecc.) e a tutti i livelli gerarchi, compreso il management superiore.
Dal 2000 in poi la situazione appare ulteriormente migliorata e non è più una rarità come nell’Ottocento-inizio Novecento trovare tra gli italiani, di nazionalità o di origine, vere e proprie eccellenze. Giusto qualche nome a titolo di esempio: Fratelli Gianadda, Cecilia Bartoli, Fabian Cancellara, Adriano Aguzzi, Giuseppe Bertarelli, Antonio Loprieno, Lino Guzzella, Bruno Ganz, Heidi Travaglini, Bruno Giussani, Fabiola Gianotti.
L’attuale situazione degli italiani non può che essere di buon auspicio per il futuro, ma credo che ci sia ancora molto lavoro da fare per tutti se veramente e come merita l’italianità rimanga e si sviluppi come una componente vitale della società e della cultura svizzera.
Giovanni Longu
Berna 22.2.2016