17 febbraio 2016

Capire la Svizzera: 16. Plurilinguismo e multiculturalismo




Il plurilinguismo è un vanto per la Svizzera e per questa sua caratteristica è vista spesso come un modello di tolleranza e d’integrazione. Effettivamente, nonostante le difficoltà note o immaginabili di convivenza e soprattutto di collaborazione tra persone di lingue diverse, non si può negare una sostanziale pace linguistica, che dura praticamente dall’inizio della moderna Confederazione. Questa convivenza «pacifica» non è di poco conto se si pensa che spesso alle differenze linguistiche, che possono generare da sole incomprensioni e contrasti, si aggiungono differenze culturali, sensibilità politiche diverse, diversi stili di vita e di comportamento, ecc.

Il plurilinguismo è congenito e solido
Conoscendo la Svizzera, la sua storia, la sua volontà di essere nazione, il suo federalismo, non dovrebbe sfuggire l’importanza del plurilinguismo quale caratteristica genetica assurta a simbolo identitario della moderna Confederazione (dal 1848).
Sebbene la vecchia Confederazione sia stata fino al 1798 esclusivamente germanofona», già al tempo della Repubblica elvetica (1798-1803) le leggi venivano stilate in tedesco, francese e italiano. Non si può dunque affermare che nel 1848 la Svizzera è diventata «uno Stato plurilingue per caso», come mi è capitato di leggere. Il plurilinguismo non fu né una costruzione artificiale né una sovrastruttura imposta dai vincitori della guerra del Sonderbund, ma una realtà, che la Costituzione federale si limitò a confermare come conseguenza dell’uguaglianza di tutti i Cantoni.
Alla nascente Confederazione ciascun Cantone portò in dote fra l’altro la propria lingua; il Ticino portò l’italiano. A giusta ragione, dunque la Costituzione federale del 1848 confermava: «Le tre lingue principali della Svizzera, la tedesca, la francese e l’italiana sono lingue nazionali della Confederazione», anche se può sorprendere che l’articolo sulle lingue sia stato relegato in un capitolo intitolato «Disposizioni diverse».
Quando si discute di plurilinguismo e si denuncia per esempio una certa disattenzione delle autorità federali ai problemi delle lingue minoritarie o quando, soprattutto in ambito italofono, si costata abbastanza passivamente il progressivo deterioramento della lingua di Dante nella Svizzera tedesca e francese, non bisognerebbe mai dimenticare che il plurilinguismo è congenito alla Confederazione, che tutte le lingue nazionali godono di pari dignità e che sono saldamente ancorate nella Costituzione federale. Non solo, esse sono anche presenti nella percezione del popolo svizzero (basta sostare in qualunque piazza, entrare nei ristoranti, salire su un tram o saltare da un canale televisivo all’altro) e sono in realtà più conosciute (magari come lingue seconde o terze) di quel che le statistiche lasciano talvolta intendere.

Il plurilinguismo va curato
Il plurilinguismo praticato è tuttavia altra cosa dal suo ancoraggio costituzionale o dalla semplice percezione ed è a questo riguardo che pone seri problemi. L’esperienza insegna che anche in un gruppo plurilingue, la comunicazione tra gli individui che ne fanno parte avviene quasi sempre in una sola lingua e questa è generalmente quella della maggioranza. Le lingue minoritarie incontrano sempre più ostacoli ad essere insegnate e praticate al di fuori della propria regione linguistica. A soffrirne non è tuttavia solo il plurilinguismo, ma la comunicazione in generale e il comune senso di appartenenza alla medesima nazione. A soffrirne di più è però la lingua italiana, non certo per una fatalità o un destino avverso, ma per incapacità e forse per incuria.
Seguendo l’andamento statistico della conoscenza e dell’uso delle lingue nazionali dal 1941 al 2000 è facile osservare una sostanziale tenuta delle tre lingue principali, garantita dall’assenza di variazioni rilevanti all’interno delle rispettive regioni linguistiche, anche se il tedesco ha perso, tra il 1941 e il 2000, più di otto punti percentuali (dal 72,6% al 64.2%) e l’italiano è leggermente progredito (dal 5,2% al 6.5%).
Quanto all’italiano è interessante, tuttavia, osservare l’andamento sorprendente avuto nel periodo considerato. Infatti, nell’arco di due soli decenni è balzato dal 5,9% (1950) all’11,9% (1970). Com’è noto, l’incremento è dovuto essenzialmente all’immigrazione italiana del dopoguerra (gli italiani residenti passarono nello stesso periodo da 140.366 a 583.855). Quando negli anni ’70 il saldo migratorio degli italiani cominciò ad essere negativo, anche la percentuale degli italofoni cominciò a diminuire fino al dato citato del 2000.
L’andamento dell’italiano pone tuttavia almeno due interrogativi. Primo: perché gli interessati alla valorizzazione dell’italiano (e penso soprattutto ai responsabili politici ticinesi e all’amministrazione italiana) non hanno saputo approfittare del momento favorevole e irripetibile, avendo a disposizione una massa critica considerevole, per di più concentrata nelle grandi città dell’Altipiano? Secondo: è possibile rimediare agli errori del passato, rafforzando la lobby creata a Berna nel 2012 per l’italianità, coinvolgendo maggiormente le seconde e terze generazioni degli immigrati italiani, sensibilizzando l’opinione pubblica svizzera sui valori del plurilinguismo e dell’italianità?
Dovrebbe essere di grande aiuto e incoraggiamento sapere che il plurilinguismo svizzero è vivo e attivo, anche se bisogna averne sempre cura.
Giovanni Longu
Berna, 17.2.2016