21 settembre 2016

Referendum sì – referendum no. 4a parte: CONSIDERAZIONI FINALI



Man mano che la data del referendum si avvicina, crescono i toni dello scontro tra sostenitori del SÌ e sostenitori del NO. I primi sostengono a spada tratta la riforma perché finalmente, dopo trent’anni di inutili tentativi, il bicameralismo paritario è stato abolito, le regioni sprecone sono state indebolite, il governo può agire più speditamente senza intoppi, ecc. I secondi sostengono invece che il bicameralismo previsto dalla riforma è un pasticcio, il Senato delle autonomie è una Camera di serie B, il rischio di una deriva autoritaria è reale, ecc. Purtroppo manca un’informazione oggettiva e autorevole. Persino i costituzionalisti sono divisi.

Disorientamento e adesione fideistica
E’ quindi inevitabile che i cittadini chiamati a votare si trovino disorientati, non sapendo bene se la riforma apporterà davvero i benefici promessi, se la democrazia ne risulterà rafforzata o indebolita, se il divario tra i territori (per es. tra nord e sud, tra regioni ordinarie e regioni a statuto speciale) aumenterà o diminuirà. Nell’incertezza, assai diffusa, verosimilmente molti voteranno non per reale convinzione sui vantaggi o gli svantaggi della riforma, quanto piuttosto per una sorta di adesione fideistica al partito dei sostenitori del SÌ (specialmente il PD) o al raggruppamento trasversale dei sostenitori del NO (Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega, minoranza PD e altri).
A creare disorientamento e divisione tra gli italiani contribuisce non poco lo stesso Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha fatto della riforma una «sua» bandiera, a tal punto da minacciare (o mi approvate la riforma o me ne vado) o promettere (se il referendum passa, i 500 milioni risparmiati sui costi della politica andranno ai poveri) a seconda del momento. Ultimamente ha cercato di moderare i toni, attribuire la paternità della riforma all’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (come se questa figura di veterocomunista fosse una garanzia di buona riforma!) e accattivarsi il consenso di molti compagni di partito, incerti sul voto, facendo credere che «questa è la riforma del PD, come lo era dell’Ulivo e del Pds».
Ma come, viene da chiedersi, un’autorità dello Stato può affermare che una modifica importante della Costituzione, ossia del fondamento dello Stato di diritto, è la «sua» riforma e la riforma del «suo partito»? Non si rende conto che, attribuendo la paternità della riforma addirittura a una forza politica, che non rappresenta la maggioranza degli italiani, ma solo una maggioranza parlamentare (per altro grazie a un premio di maggioranza ritenuto spropositato dalla Corte costituzionale), non fa che accrescere i sospetti di strumentalizzazione? Perché in Parlamento non si è cercata una maggiore concordanza, accettando magari qualche compromesso, ma si è preferito lo scontro con le opposizioni e un’approvazione con una ristretta maggioranza, di parte?

«Un protagonismo esorbitante del governo»
A questo punto, alla vigilia di un’importante votazione referendaria, ci si deve anche chiedere se sia democraticamente giustificata le frequenza e l’insistenza con cui il Governo cerca di avallare le ragioni, vere e presunte, del sì. Se penso al comportamento del Consiglio federale, mi viene spontaneo costatare la distanza che separa il Governo Renzi da quello svizzero, al quale la legge impone di spiegare al popolo in maniera oggettiva, prima di ogni votazione, il pro e il contro dell’oggetto in votazione! Non credo che sia solo una differenza di stile, ma di sostanza, di democrazia, di rispetto del Popolo sovrano.
Il senatore Claudio Micheloni, sostenitore del NO, ritiene l’attivismo del Governo «un protagonismo esorbitante e improprio, in quanto l’intero processo della revisione costituzionale, «materia parlamentare per eccellenza», «è stato ideato, gestito, votato dal Governo». Ci si può chiedere, a questo punto, perché i parlamentari, deputati e senatori, si sono lasciati espropriare o limitare questa competenza: per mancanza di autorevolezza dell’attuale Parlamento?
Ma forse il capo del Governo, Matteo Renzi, dimentica (come fecero, del resto, molti suoi predecessori) di essere a capo di un esecutivo, non di uno Stato assoluto con una persona sola al comando. Purtroppo ha talmente abituato il popolo italiano al suo linguaggio diretto da uomo solo al comando (ho detto, ho deciso, ho fatto la legge, faccio la riforma, cambio la Costituzione o me ne vado, ecc.) che quasi nessuno, anche tra i giornalisti, ci fa più caso. Solo i sostenitori del NO gli ricordano (se mai ci abbia pensato!) che lo Stato e le sue istituzioni sono da servire, non da modificare a suo piacimento e, soprattutto, che «la sovranità appartiene al popolo», ancora e sempre.
Poiché è comunque importante votare, se non altro per sentirsi partecipi e protagonisti delle sorti del Paese, pur nell’impossibilità di una valutazione oggettiva delle 47 modifiche apportate alla Costituzione, bisognerebbe soffermarsi almeno su qualche problema in particolare e soprattutto sulla portata complessiva della riforma.

Diffidare degli scenari apocalittici e semplicistici
Anzitutto, però, bisognerebbe diffidare delle posizioni estreme e in particolare delle visioni catastrofiche nell’ipotesi che vincano i favorevoli oppure i contrari alla riforma. Credo che non meritino attenzione neppure molte considerazioni superficiali e semplicistiche che si trovano in alcuni profili di sostenitori della riforma del tipo: le riforme «o si fanno adesso o non si faranno mai», la riforma serve «per cancellare poltrone e stipendi», serve all’Italia «per essere più competitiva e soprattutto meno burocratica e corrotta», «per togliere alle Regioni poteri inefficienti» ecc.
Tra le visioni catastrofiche includerei quella presentata a luglio da Confindustria, che pronosticava nel caso di una vittoria del No al referendum uno scenario da incubo riassunto in questi termini dal Corriere del Ticino: «calo del PIL di quattro punti percentuali, crisi delle finanze pubbliche, fuga di capitali, crollo della fiducia in famiglie e imprese». Anche l’ambasciatore degli Stati Uniti, giusto per non smentire la lunga tradizione d’interferenze degli USA negli affari italiani (come di altri Paesi) ha osato sentenziare che «il No al referendum sulla riforma costituzionale sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia».
Anche tra i sostenitori del NO, non sono pochi quelli che considerano la riforma «uno stravolgimento della Costituzione», pericoloso per la democrazia perché farebbe aumentare considerevolmente il peso politico o lo strapotere del partito vincitore delle elezioni e del suo leader, che diventerebbe automaticamente capo del Governo e arbitro della politica in quanto di fatto dominerebbe la Camera dei deputati, unica a dare o togliere la fiducia, col rischio di una deriva autoritaria.
Non credo che siano ragionevoli le paure evocate dagli uni e dagli altri. L’Italia continuerà a restare un grande Paese e la riforma, per quanto sgangherata possa apparire, non è liberticida. Nemmeno il capo del Governo potrà contare molto su questa riforma per accrescere la sua autorevolezza, perché la sua forza dipenderà essenzialmente dalle capacità del suo Governa di risolvere i problemi del Paese. Ma non c’è dubbio che la democrazia, nel senso della partecipazione popolare alle scelte fondamentali del Paese e alla scelta dei propri rappresentanti nelle istituzioni, ne risulterebbe notevolmente indebolita.

La questione fondamentale: più centralismo o più democrazia?
Nell’impossibilità di soppesare vantaggi e svantaggi dei singoli punti della riforma, ritengo estremamente importante che si valuti attentamente, alla luce di quanto letto e sentito, la questione fondamentale che solleva l’attuale riforma costituzionale, ossia il rapporto in essa contenuto tra centralismo e democrazia.
Quando nel 1874, in Svizzera, si discusse della revisione totale della Costituzione federale (e dell’introduzione del referendum facoltativo), la vera posta in gioco era la scelta tra un maggiore centralismo, per rispondere più in fretta soprattutto alle edemocrazia diretta con l’estensione dei diritti popolari. Col referendum costituzionale italiano si è di fronte a una scelta analoga. In Svizzera vinse la democrazia diretta, che assicurò ai cittadini maggiori poteri. In Italia l’esito è incerto.
sigenze internazionali, e il rafforzamento della
Nel rievocare la revisione della Costituzione federale svizzera del 1874, può essere interessante ricordare la procedura adottata: il progetto di revisione fu elaborato da un’apposita commissione bicamerale, approvato dall’Assemblea federale (Parlamento) e sottomesso al voto popolare (referendum obbligatorio). Una prima proposta venne respinta nel 1872 dal Popolo e dai Cantoni, perché ritenuta esagerata nei contenuti; ma la seconda proposta, con un contenuto ridotto rispetto alla precedente, fu invece approvata a larga maggioranza sia dal Popolo che dai Cantoni.
A questo punto, trovo legittime alcune domande. Anzitutto, perché in Italia, invece del coinvolgimento ritenuto da molti eccessivo del Governo al limite dell’ingerenza nelle competenze del Parlamento, non si è incaricata una commissione bicamerale col compito preciso di indicare poche, efficaci e ampiamente condivise modifiche costituzionali? Si ha forse paura di un altro fallimento dopo quelli delle bicamerali del passato? O si ha paura di non giungere mai ad un ampio consenso e quindi è preferibile appellarsi direttamente al Popolo, pur sapendo che voterà più per attaccamento al «suo» partito che per convinzione circa la ragionevolezza o l’inutilità della riforma, oppure non voterà affatto per l’incomprensibilità di un testo difficile e dalle conseguenze incerte?
Ma le domande fondamentali mi sembrano: l’Italia ha più (urgente) bisogno di centralismo o di democrazia? Le Regioni sono soprattutto un peso o una risorsa? Il Governo, per essere più efficiente ed efficace, ha davvero bisogno di più poteri? E il Parlamento, non è in grado, già oggi, di ridurre i costi della politica e migliorare la propria produttività?

In conclusione
Carlo Azeglio Ciampi, pres. della Repubblica dal 1999 al 2006
Gli specialisti e i sostenitori del SÌ e del NO continueranno ancora per settimane a difendere le loro posizioni e i comuni cittadini che andranno a votare faranno fatica a districarsi tra gli argomenti per il sì e per il no. Ognuno dovrà votare secondo scienza e coscienza, ma è importante, mi sembra, affrontare questa prova con questa consapevolezza: «la Costituzione del 1948 è un documento valido, vivo e vitale, non soltanto perché sapie
ntemente redatta da eminenti politici e giuristi, ma perché ha un’anima: lo spirito risorgimentale passato attraverso il dramma della dittatura e la catarsi del 1943-45. Essa esprime la passione civile che solo la condivisione profonda e vissuta di valori quali quelli maturati dagli italiani nella loro storia può generare» (Carlo Azeglio Ciampi, nel 2003). (Fine)
Giovanni Longu
Berna, 21.9.2016

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