20 aprile 2016

Democrazia e rischio di regime in Italia



Torno sull’argomento trattato nell’articolo della scorsa settimana, perché ritengo utile proseguire la discussione non tanto sul concetto di democrazia in astratto, quanto sulla democrazia reale e il rischio di perderla. Qualche lettore, forse un tantino disattento, ha ritenuto che volessi minimizzare quanto di positivo ha realizzato e sta realizzando il governo Renzi o intendessi esprimere il dissenso sull’oggetto del referendum sulle trivelle. Non ho inteso, almeno in primo luogo, entrare nel merito delle attività del governo, ma esprimere alcune perplessità e preoccupazioni circa il metodo Renzi (anche in relazione al suo invito a disertare il referendum) e in particolare sull’idea di democrazia che sembra presupporre.


Molti annunci e pochi risultati, per altro contestati
Il referendum sulle trivelle non è riuscito per la scarsa
partecipazione al voto: una sconfitta per la democrazia!
Quando nel 2014 Matteo Renzi divenne per volontà di «Re Giorgio» Napolitano nuovo Presidente del Consiglio dei ministri rottamando il pur giovane ma indeciso predecessore Enrico Letta, il più prestigioso quotidiano svizzero «Neue Zürcher Zeitung» (NZZ) commentava il suo arrivo a Palazzo Chigi, sede del Governo italiano: «Mit Volldampf in unbekannte Richtung», a tutto vapore in direzione sconosciuta.
Il suoi primi interventi pubblici sulla volontà di rottamare la vecchia classe politica del suo partito e del Paese, di tirar fuori dalla palude l’Italia e di portarla ad essere leader in Europa (governata da burocrati incapaci), di fare finalmente le riforme che nessuno prima era riuscito a fare, ecc. avevano suscitato non solo legittime aspettative ma anche grande entusiasmo, prima ancora che il governo avesse preso alcuna decisione. Per questo, forse, la NZZ parlò di una vera e propria «euforia della disperazione». L’attesa del cambiamento, dopo anni di crisi economica, politica e morale dell’ultimo governo Berlusconi e dei governi successivi di Monti e di Letta, era talmente grande che gli italiani sembravano dare carta bianca a chiunque si fosse presentato con qualche prospettiva di reale cambiamento.
E Renzi parlò molto, spesso con slogan e toni trionfalistici, annunciò più volte di aver visto la luce in fondo al tunnel, certificò la ripresa sia pure dello zero virgola, promise tanto, la riduzione delle tasse, la lotta alla povertà, l’aumento della busta paga, la lotta alla disoccupazione, all’evasione, alla corruzione, agli sprechi, ecc., realizzò poco, a detta non solo dei suoi oppositori, ma anche di molti osservatori nazionali e internazionali e soprattutto delle statistiche sui principali indicatori economici.

Un governo diverso dagli altri?
Qualche giorno fa, il quotidiano svizzero-francese «Le Jurnal du Jura» intitolava una corrispondenza da Roma: «Les scandales pleuvent à Rome» (a Roma piovono gli scandali). Le righe iniziali ricordavano come Matteo Renzi, appena insediato, aveva annunciato che «il governo dei politici onesti» avrebbe cambiato la faccia dell’Italia e la fisionomia della sua classe politica. Ebbene, continuava il giornalista, sono passati due anni e la moltiplicazione degli scandali sta sbiadendo progressivamente l’immagine riformista del governo. Sei ministri sono stati finora implicati negli scandali e un nuovo caso legato allo sfruttamento petrolifero nel sud d’Italia potrebbe travolgere il numero 2 dell’esecutivo, Maria Elena Boschi, già accusata fra l’altro di conflitto d’interesse «per aver partecipato al salvataggio della banca Etruria, di cui suo padre, sospettato di bancarotta fraudolenta, era vicepresidente».
Ormai sono sempre più numerosi gli osservatori che non riescono a vedere una grande differenza tra il governo Renzi e i precedenti governi, almeno per quel che riguarda l’economia, il debito pubblico, la corruzione, gli scandali, gli sprechi, l’inefficienza e la tendenza a scaricare le responsabilità il più possibile sull’Europa dei burocrati. Né Renzi né il suo governo si rendono più conto che, mentre accusano il resto dell’Unione di erigere muri, di essere egoisti e scarsamente solidali, anch’essi contribuiscono a erigere una sorta di muro morale tra «noi bravi» e gli altri cattivi.
Pertanto, a distanza di due anni e qualche mese dall’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi, mentre a molte persone la direzione del suo governo continua ad apparire «sconosciuta», come scriveva la NZZ il 1° marzo 2014, ad altre, soprattutto alla luce degli ultimi fatti, comincia ad apparire sempre più chiaro un disegno politico che potrebbe comportare meno democrazia e più autoritarismo. Di certo si sa che i consenti sull’operato del governo diminuiscono di giorno in giorno, mentre contemporaneamente crescono la sfiducia e la critica, in Italia e all’estero.

Una gaffe sul San Gottardo molto significativa
Tutta la stampa svizzera segue sempre più da vicino le vicende italiane, anche perché, nonostante l’«eccellente stato delle relazioni bilaterali e l'intensità dei rapporti economico-commerciali tra la Svizzera e l'Italia» (secondo il comunicato stampa dopo l’incontro a Neuchâtel tra i ministri degli esteri Gentiloni e Burkhalter del 21.3.2016), non è ancora chiusa la trattativa sui frontalieri (e i padroncini operanti in Ticino!), non è ancora consentito alle banche svizzere l’accesso pieno al mercato italiano e l’Italia non ha ancora ratificato l’accordo italo-svizzero sulla doppia imposizione (con la conseguente cancellazione della Svizzera da tutte le liste nere italiane).
Alla realizzazione della galleria di base del San Gottardo hanno
partecipato molti lavoratori italiani, ma non lo Stato italiano.
Nei giorni scorsi, tuttavia, i media svizzeri, soprattutto quelli in lingua italiana, si sono particolarmente dedicati all’esercizio dell’ironia (forse per stemperare l’immediata reazione di indignazione e di stizza) nei confronti di Matteo Renzi per la gaffe sulla galleria di base del San Gottardo.
Durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi sul nuovo codice degli appalti, che dovrebbe porre fine alla corruzione negli appalti in Italia, Matteo Renzi si è lasciato andare a una delle sue frequenti autocelebrazioni, attribuendosi il merito della realizzazione della galleria di base del San Gottardo. Peccato che abbia dimenticato qualche elementare nozione geografica sulla Svizzera (il San Gottardo è interamente in territorio svizzero e non sul confine con l’Italia, da cui dista un centinaio di chilometri) e non fosse per nulla informato del contributo italiano alla realizzazione dell’opera (ossia zero euro o franchi).
Renzi ha infatti detto testualmente: «Siamo l'unico Paese al mondo che sta facendo tre tunnel, tre opere strepitose per il collegamento con l'Europa: il Gottardo che si inaugura il primo giugno con la Svizzera, il Brennero che abbiamo sbloccato noi e ci collega all'Austria, la Torino-Lione con la Francia». Riferendosi poi al tunnel del San Gottardo Renzi ha aggiunto con cipiglio serio: «Stiamo investendo 28 miliardi di euro, ovviamente cofinanziati, per collegarci con l'Europa».

Sorprendente atteggiamento di Delrio
Peccato che, mentre Renzi parlava, probabilmente senza appunti, il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio che gli stava accanto non abbia nemmeno tentato di correggerlo. Eppure, in quanto ministro competente, avrebbe dovuto sapere che la galleria del San Gottardo si trova interamente in territorio svizzero, che è stata interamente finanziata dalla Svizzera e che l’Italia non solo non l’ha cofinanziata ma ha ricevuto dalla Svizzera ben 280 milioni di franchi per la realizzazione del corridoio ferroviario a 4 metri (innalzamento del profilo delle gallerie) sul territorio italiano. Oltretutto Delrio aveva da poco (dicembre 2015) incontrato a Lugano la ministra dei trasporti svizzera Doris Leuthard per fare il punto della situazione in Italia e garantire che gli investimenti massicci in sistemi di tecnologia e controllo previsti nell’ultima legge finanziaria lungo le linee di Domodossola, Luino-Gallarate e Milano-Chiasso dovrebbero consentire all’Italia di essere alla pari con la tempistica elvetica (inaugurazione del tunnel del San Gottardo nel 2016 e di quello del Ceneri nel 2020-2021), e non in ritardo di 5 anni come sostenuto da uno studio recente della Bocconi di Milano.
L’atteggiamento di Delrio è sorprendente (potrebbe trattarsi di una forma di rispetto nei confronti del superiore secondo il detto latino «ubi maior minor cessat», dove vi è il maggiore, il minore decade?), ma non tanto: mi sembra infatti indicativo del metodo Renzi di gestione del Governo, divenuto ormai espressione di un’unica volontà, la sua. Tant’è che ogni provvedimento è sempre contrassegnato dal suo sigillo: «ci metto la faccia», anche quando si tratta di una riforma costituzionale.

Il bello (o il brutto) deve ancora arrivare
Sbandierando ai quattro venti la riforma costituzionale approvata pochi giorni fa da una parte della Camera dei deputati (che ne conta complessivamente 630), a Matteo Renzi dev’essere apparso irrilevante che al momento della votazione le opposizioni fossero uscite dall’Aula e avessero votato a favore solo 361 deputati e contro 7, come se la Costituzione potesse essere modificata da una maggioranza semplice.
Ha scritto al riguardo qualche giorno fa Piero Ostellino, già direttore del «Corriere della Sera»: «Col piglio dell'aspirante autocrate che, in fondo, è e si compiace di essere, Matteo Renzi ha cambiato la Costituzione del 1948 con voto ordinario del Parlamento, invece che con le procedure della democrazia rappresentativa e le garanzie previste dalla stessa Costituzione vigente che, almeno, una certa tutela dava contro le tentazioni autoritarie...». Secondo Ostellino, in fondo, «le riforme di Renzi sono prove tecniche di regime».
Viene davvero da chiedersi che senso abbia mai Renzi dello Stato e della democrazia. Non certo quello del primo Parlamento repubblicano che approvò la Costituzione col 95% di consensi, ossia quasi all'unanimità di maggioranza e opposizione.
Fortunatamente il regime ancora non c’è, ma a chi sta a cuore la democrazia conviene stare con gli occhi aperti perché il rischio c’è. Occorre scongiurarlo prima che diventi realtà. Per questo auspico che anche gli italiani all’estero discutano apertamente e liberamente il testo delle riforme, ne valutino la portata e specialmente gli italiani che vivono in Svizzera sappiano anche fare opportuni confronti con questa realtà e soprattutto con le libertà democratiche che in questo Paese sono davvero sacre e inviolabili.
Giovanni Longu
Berna, 20.4.2016

1 commento:

  1. Il problema non è il politico di turno ma siamo noi cittadini che accettiamo certi toni e certi atteggiamenti.

    Sotto il profilo politico ci siamo attestai su due parole vuote e prive di significato: destra e sinistra.
    Negli altri paesi dietro questi due termini c’è o una politica socialista o liberista.

    Manca una corretta informazione: se una banca fallisce gli amministratori finiscono in galera per bancarotta fraudolenta ma se qualcuno, non importa chi, salva la banca il reato non si configura, non c’è.

    Manca la Costituzione: il capo del governo è una carica a nomina del PdR subordinata alla fiducia parlamentare, non ha senso dire che Renzi non è stato eletto da nessuno. E non è premier ma presidente del Consilgio, un organo collegiale.

    Manca l’ABC del vivere civile. Ma sono ottimista. Così come non abbiamo attuato la Costituzione vigente allo stesso modo non attueremo una nuova Costituzione, qualunque essa sia.Continueremo a navigare a vista.

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