07 ottobre 2015

Capire la Svizzera: 2. Libertà da conquistare e salvaguardare



La Svizzera, oggi, come in generale ogni Paese libero, vive la condizione di libertà in maniera del tutto «normale», ma non si può dire che attorno alla «libertà» non ci siano più discussioni, interrogativi, preoccupazioni. Gli svizzeri, a differenza di altri popoli, sanno più o meno tutti che i loro antenati hanno dovuto lottare per raggiungerla e per conservarla. Anche coloro che oggi non hanno difficoltà ad ammettere che non sono esistiti né Guglielmo Tell né congiurati riuniti sul praticello del Grütli né eroi di Morgarten (tanto è vero che vengono considerati «miti di fondazione»), non possono negare che all’origine della Confederazione ci sia stata una lotta per sottrarre le comunità montane dei Cantoni cosiddetti «primitivi» (Uri, Svitto e Untervaldo) dalla sudditanza agli Asburgo.

Il gusto della libertà veniva di lontano
La volontà di vivere «liberi» dei primi confederati veniva di lontano. In effetti la storia degli svizzeri è stata caratterizzata in larga parte da una lotta continua per sottrarsi al dominio di altri popoli o per mantenere quel grado di indipendenza (e di benessere) che erano riusciti a conquistarsi.
Cesare sconfisse gli Elvezi ma assicurò loro pace e prosperità
All’epoca in cui Giulio Cesare (100-44 a.C.) sottometteva la Gallia, gran parte dell’attuale territorio svizzero tra il Reno, il Giura, il Lago Lemano, il Rodano e le Alpi era popolata da tribù celtiche e germaniche (Elvezi, Allobrogi, Nantuati, Veragri, Seduni, Tulingi, Tigurini, Rauraci, Verbigeni, Reti, ecc.). Il gruppo più numeroso era costituito dagli Elvezi, ai quali Cesare attribuiva un «valore superiore». Sapeva infatti che in passato erano riusciti persino a sconfiggere gli stessi romani (battaglia di Agen del 107 a.C.). Ciononostante, quando gli Elvezi, seguiti da altre tribù, nel 63 a.C. cercarono di penetrare nella Gallia già conquistata dai Romani alla ricerca di terreni più fertili e più sicuri per una popolazione in crescita e per sfuggire alle continue incursioni da nord dei Germani, Cesare non esitò ad affrontarli (battaglia di Bibracte, 58 a.C.) e a costringerli a rientrare nel loro territorio.

L’alleanza con i Romani
Cesare, che mirava soprattutto a impedire che i Germani oltrepassassero il Reno e invadessero l’Impero, non infierì sugli Elvezi vinti, ma preferì concedere loro una pace onorevole e un’alleanza (foedus) che assicurava loro protezione e molta libertà o almeno quanta era compatibile con lo stato di soggezione. Il patto consentiva infatti ai Romani di occupare qualsiasi punto strategico e d’impiantarvi colonie e insediamenti fortificati (oppida), ma agli Elvezi garantiva la sussistenza e di vivere in pace e in sicurezza, autogovernandosi con magistrati propri.
In effetti, sotto l’occupazione romana vennero fondate in tutto il territorio elvetico diverse città fortificate (Aventicum/Avenches, Eburodunum/Yverdon, Vindonissa/Windisch, Augusta Rauricorum/Augst, Solodurum/Soletta, Iulia Equestris/Nyon, Genava/Ginevra, Turicum/Zurigo, Curia/Coira, ecc.) e gli Elvezi poterono a lungo prosperare in pace e in libertà.
La dominazione romana ha lasciato in Svizzera numerose
tracce. Nella foto l’anfiteatro romano di Martigny (Vallese)
Scriverà nel 1840 l’erudito francese Philippe de Golbéry che da allora «una lunga pace regnò su l’Elvezia, la Rezia ed il Valese, l’industria ed il lavoro penetrarono nelle Alpi; si seppe trar profitto dai loro alberi, dalle piante e dagli uccelli; si strappò il marmo dalle viscere della terra; si arrampicarono sulla rupe, asilo dei camosci; e dalla profondità dei laghi si trassero pesci sconosciuti. Da allora il latte delle vacche svizzere era rinomato, i formaggi avevano della celebrità; l’agricoltura faceva progressi; si perfezionò l’aratro e la vite di Rezia produsse un succo rivale del Falerno…».
Fra l’altro, sotto la dominazione romana, l’Elvezia fu dotata di un’importante rete stradale da est a ovest e da nord a sud, che consentiva non solo gli spostamenti veloci delle legioni, ma facilitava anche gli scambi e il trasporto delle merci. Ben presto, fin dai primi secoli d.C. ne approfittarono artigiani, mercanti, viaggiatori, monaci, che avviarono in molte parti del Paese numerose attività produttive e una vita civile romanizzata e cristianizzata, destinata a svilupparsi ulteriormente soprattutto dopo l’anno Mille.

Libertà da riconquistare
Nel frattempo, gli Elvezi dovettero subire le principali vicissitudini politiche e militari dell’epoca, dalle invasioni barbariche degli Alemanni alla sottomissione di gran parte del loro territorio da parte dei Burgundi prima, poi dei Franchi, quindi di grandi e piccoli feudatari, di alcune potenti casate germaniche (i Zähringen, i conti di Kyburg, ecc.) e infine dei re e imperatori del Sacro Romano Impero.
Un ramo cadetto degli Asburgo, quello degli Zähringen, intorno al Mille possedeva molti territori soprattutto in quella che oggi è la Svizzera nord-occidentale. Gli Elvezi, tuttavia, mal sopportavano la dominazione straniera e cercarono di condurre vita autonoma soprattutto nelle vallate della Svizzera centrale, dove si resero conto ben presto dell’importanza dei passaggi alpini per le comunicazioni tra nord e sud. Anche molte città fondate o dominate dagli Zähringen, cercarono e ottennero dall’impero ampie autonomie e il riconoscimento di «città imperiali». Era il prezzo minimo che gli imperatori germanici dovevano pagare per assicurare ai propri eserciti il passaggio attraverso i loro territori e le vallate alpine verso l’Italia.
E’ verosimile che la ventata di libertà e di autogoverno che pervase molte città del Nord Italia e del Nord Europa intorno all’anno Mille sia giunta anche nelle vallate della Svizzera centrale. Immediatamente non ebbe risultati apprezzabili perché a nord della Alpi l’Impero era ancora forte, ma non appena cominciò a dare segni di debolezza (XIII secolo) suscitò in quelle comunità un forte desiderio di affrancarsi dal dominio imperiale, non necessariamente con l’uso delle armi, e di autogestirsi.
Nel 1291, approfittarono della morte dell’imperatore Rodolfo I d’Asburgo (15 luglio 1291), alcune comunità valligiane svizzere decisero di sottrarsi alla dipendenza dall’imperatore per assumere direttamente il controllo dei propri beni e soprattutto dei passaggi alpini. In quale forma e quando sia avvenuta tale decisione non è dato sapere con precisione, ma è storico un documento dell’inizio di agosto del 1291, noto come «Patto federale», in cui le tre comunità di Uri, Svitto e Untervaldo (il nucleo della futura Confederazione elvetica) dichiaravano di stringere un patto (foedus, da cui deriverà federale) di difesa contro qualsiasi aggressore.

Lotte e alleanze
l «Patto federale» del 1291 segna ufficialmente
l’inizio della Confederazione svizzera
Nel Patto federale del 1291, considerato dalla fine del XIX secolo «ufficialmente l'atto fondatore della Confederazione Svizzera», la parola «libertà» non compare mai, ma è implicita già nel primo paragrafo: «Sia noto dunque a tutti, che gli uomini della valle di Uri, la comunità della valle di Svitto e quella degli uomini di Untervaldo, considerando la malizia dei tempi ed allo scopo di meglio difendere e integralmente conservare sé ed i loro beni, hanno fatto leale promessa di prestarsi reciproco aiuto, consiglio e appoggio, a salvaguardia così delle persone come delle cose, dentro le loro valli e fuori, con tutti i mezzi in loro potere, con tutte le loro forze, contro tutti coloro e contro ciascuno di coloro che ad essi o ad uno d'essi facesse violenza, molestia od ingiuria con il proposito di nuocere alle persone od alle cose. Ciascuna delle comunità promette di accorrere in aiuto dell'altra, ogni volta che sia necessario, e di respingere, a proprie spese, secondo le circostanze, le aggressioni ostili e di vendicare le ingiurie sofferte».
Poiché i beni posseduti da quelle comunità dovevano essere ben poca cosa, si deve ritenere che la posta in gioco non riguardasse tanto i beni (territori, pascoli, bestiame, tributi), quanto piuttosto i diritti: da parte dell’imperatore il diritto acquisito al dominio con i privilegi connessi (acquisire tributi, imporre la legge, diritto di passaggio, ecc.), da parte dei valligiani il diritto all’autogoverno (con organi decisionali e giudicanti propri, sovranità piena sul territorio), o semplicemente alla libertà, «quella libertà che gli Svizzeri avevano ricevuta dai loro antenati» e che «volevano trasmettere pure ai loro discendenti» (de Golbéry).

La libertà come bene assoluto
La libertà divenne il bene assoluto per cui meritava combattere. Nel «Guglielmo Tell» di Gioachino Rossini (1792-1868) essa costituisce il filo conduttore del processo di liberazione del popolo svizzero dall’oppressore asburgico avviato dall’abile arciere di Uri che riesce a motivare le popolazioni delle vallate vicine a lottare per l’indipendenza e la libertà al grido «o libertade o morte» (atto 2).
A prescindere dagli eventi narrati nei cosiddetti «miti di fondazione» (Giuramento del Grütli, Guglielmo Tell, distruzione di rocche, gesta di eroi ardimentosi, ecc.) è certo che i rapporti tra gli svizzeri e gli Asburgo divennero sempre più tesi e destinati a durare tali per alcuni secoli. Solo nel 1648 con la Pace di Vestfalia la Svizzera venne riconosciuta ufficialmente sovrana e indipendente dall’Impero.
La storia della liberazione degli svizzeri, si sa, ha avuto un andamento e tempi differenti, ma l’idea della libertà come bene supremo da conquistare e difendere ha sicuramente accompagnato e talvolta condizionato tutti i principali avvenimenti della storia svizzera. Per gli svizzeri, è stato scritto (Eugène Rambert), «ogni questione di libertà approda a una questione di esistenza», al punto di «non poter essere senza sapere di essere liberi»(Segue)
Giovanni Long
Berna, 7.10.2015