09 settembre 2015

Mattmark 1965 non fu solo una tragedia


Il 30 agosto scorso è stata ricordata nel corso di una cerimonia solenne la tragedia di Mattmark del 1965, che costò la vita a 88 lavoratori addetti alla costruzione di una diga nell’Alto Vallese. Essendo stata la più grave disgrazia avvenuta sul lavoro nella Svizzera moderna, che ha coinvolto ben 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e 1 apolide, e trattandosi del cinquantenario della sciagura, la copertura mediatica è stata notevole, sia in Svizzera che in Italia.

Non è stata solo una tragedia
Ho già rievocato più volte, anche di recente (il 19.8.2015), l’evento tragico di Mattmark ma desidero tornare sull’argomento perché leggendo molti articoli e vedendo diversi filmati ho avuto l’impressione che il principale messaggio fornito dai media all’opinione pubblica sia stato quello negativo della tragedia e delle responsabilità non chiarite e non punite. Ritengo questa visione parziale e unilaterale perché trascura alcuni elementi di verità che meriterebbero di essere messi in evidenza, se non altro per affermare che Mattmark non è stata solo una tragedia.
Senza voler essere più manzoniano del Manzoni che vedeva nelle vicende umane l’intervento della Provvidenza divina, per cui anche dal male può nascere il bene, non c’è dubbio che dal male della tragedia di Mattmark è derivato anche tanto bene. Basti pensare ai notevoli progressi nella normativa e nella pratica riguardanti la sicurezza del lavoro. Anche i rapporti italo-svizzeri sono andati via via migliorando. Ma a beneficiarne è stato soprattutto il clima generale dei rapporti tra popolazione locale e stranieri.
Purtroppo a questi elementi positivi generati dalla tragedia di Mattmark la stampa e i filmati visti hanno dedicato pochissima attenzione, molta invece agli aspetti negativi. A che serve, mi sono chiesto, insistere, per altro senza chiarire, sugli aspetti più problematici delle cause del cedimento del ghiacciaio e insinuare dubbi che non potranno mai essere dissipati circa le responsabilità dei dirigenti del cantiere e sull’obiettività dei giudici che hanno mandato assolti tutti gli imputati?

Pregiudizi
Il cantiere di Mattmark nel 1965 prima della tragedia.
Mi rendo conto che altri, avendo consultato magari qualche documento in più di quelli che ho letto io, possano sentirsi assai vicini alla «verità», ma anch’essi dovrebbero arrendersi di fronte all’impossibilità di ribaltare la «verità processuale» senza un nuovo processo, che non si farà mai. Del resto, in base alle testimonianze rese da sopravvissuti ed esperti durante il processo, i giudici hanno ritenuto «in scienza e coscienza» di non avere prove sufficienti per condannare gli imputati e quindi di doverli assolvere dall’accusa di «omicidio colposo». Questa è la «verità giudiziaria» emersa nei processi e tale rimane. E che non si sia trattato di una «sentenza politica» (come insinua qualcuno) lo dimostra il fatto che non risultano agli atti interferenze dirette di alcun genere del potere politico, né di quello federale né di quello cantonale.
So benissimo che la verità giudiziaria non è «la verità», ma so anche che al di fuori del processo non esiste altro strumento, nemmeno un accurato lavoro di ricerca o un «parere» (che tale rimane) di un luminare del Politecnico federale, per stabilire la «colpevolezza» di un comportamento e quindi la sua condanna. Pretenderla a tutti i costi mi sembra un pregiudizio a danno della stessa verità che si vorrebbe ricercare.
E’ certamente legittimo continuare a nutrire dubbi, ma bisognerebbe avere il coraggio di chiamarli tali, senza dar loro il valore di «prove». Del resto, anche le affermazioni presenti in molti articoli secondo cui i responsabili del cantiere conoscevano il pericolo testimoniano unicamente che era noto a tutti che dal ghiacciaio si staccavano frequentemente dei blocchi di ghiaccio e si producevano slavine e quindi bisognava stare particolarmente attenti. Secondo molte testimonianze, una fra le tante quella del sopravvissuto Ilario Bagnariol, tutti sapevano ma nessuno ci faceva caso, anche perché fino al momento della disgrazia si era continuato a lavorare e a far brillare mine, giorno e notte.

Errore fatale, ma non colpa
Si è parlato dell’incoscienza dei dirigenti del cantiere nel piazzare le baracche sotto il ghiacciaio, ma è facile dirlo solo dopo che l’evento tragico le ha distrutte. Al momento della scelta era stato ritenuto, anche dagli esperti locali, il punto più idoneo e più sicuro. La verità è che nessuno, anche tra i glaciologi più convinti del rischio di valanghe e persino di uno smottamento del ghiacciaio, era in grado di stabilire la sua effettiva pericolosità in quel punto, l’entità della massa di ghiaccio a rischio di precipitare e soprattutto quando l’evento si sarebbe potuto o dovuto produrre.

Il cantiere di Mattmark, che si trovava su un pianoro ritenuto sicuro,
prossimità della diga, fu travolto dal crollo del ghiacciaio il 30 agosto 1965.
Forse sperando che l’evento mai si sarebbe prodotto (visto che l’instabilità del ghiacciaio era nota da secoli ma non era mai capitato che lasciasse cadere a valle milioni di metri cubi di ghiaccio e di detriti), le baracche furono piazzate in prossimità della diga in costruzione e ai  piedi del ghiacciaio (non certo per calcolo economico come qualcuno continua a sospettare) e i lavori continuavano senza troppi allarmismi sia tra i dirigenti del cantiere che tra i lavoratori. Fu un errore fatale, non una colpa (almeno fino a prova certa del contrario). E’ semplicistico affermare che si sia trattato di una «catastrofe annunciata». Ritengo invece che sia umano anche accettare la fatalità e persino l’errore, almeno quello senza colpa.
Non capisco pertanto perché si vorrebbero a tutti i costi dei colpevoli, anche quando la giustizia ha scagionato tutti gli imputati. Forse perché la stampa italiana di allora, quella comunista in particolare, è stata delusa da quella assoluzione? Oppure per confermare la tesi, sostenuta soprattutto dalla sinistra, secondo cui gli immigrati italiani in Svizzera negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso erano vittime della xenofobia diffusa oltre che di un governo italiano incapace di offrire loro un’occupazione e troppo arrendevole nei confronti del governo elvetico senza nemmeno osare di protestare per lo sfruttamento a cui erano sottoposti i concittadini emigrati? Non so.

Omissioni
Resta il fatto che se si volesse davvero riscrivere la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera l’uso delle fonti dovrebbe essere obiettivo e diversificato. Leggendo resoconti e interviste su Mattmark mi è sembrato invece che si siano privilegiate solo alcune fonti, si sia voluta ascoltare una sola campana dando per scontato che l’altra era stonata. In effetti hanno trovato poco spazio le testimonianze di quanti ritenevano il cantiere se non proprio sicuro certamente non in procinto di essere travolto, di chi riteneva le condizioni abitative e di lavoro normali e persino ottime (tenuto conto della provvisorietà delle abitazioni, dei turni di lavoro, dell’altitudine in cui era situato il cantiere e delle condizioni meteorologiche), di chi non si sentiva affatto né discriminato né sfruttato.
Invece si parla ripetutamente (suscitando il sospetto della fonte unica o quasi) di «turni di lavoro massacranti in un ambiente assai ostile», di «orari di lavoro fuori controllo, fino a 16 ore al giorno spesso anche di domenica, con temperature che raggiungevano i 35 gradi sotto lo zero (…), vivendo in condizioni igieniche dentro baracche sovraffollate, a volte senza riscaldamento e senza bagni, con le condutture dell’acqua congelate», di «condizioni difficili in cui la comunità italiana era costretta a vivere, senza luce, senza acqua potabile, senza il minimo rispetto delle più elementari misure d’igiene», «chi lavorava a Mattmark era costretto a dormire in baracche, senza wc e senza acqua calda» e altre affermazioni simili.
In quasi tutti gli articoli consultati si è omesso di ricordare, per esempio, che i dormitori principali, in cui era alloggiata la maggior parte dei 700 e più lavoratori, erano situati a chilometri di distanza dal luogo del disastro e non erano casupole squallide ma prefabbricati a regola d’arte con tutti i confort del caso (acqua calda e fredda, elettricità, riscaldamento, ecc. ).
Si è omesso anche di dire che tra i lavoratori del cantiere regnava una grande armonia e solidarietà, a prescindere dalla nazionalità, come spesso accade nei cantieri ad alto rischio. Quanto alle condizioni di lavoro, indubbiamente dure, non compare quasi mai l’indicazione precisa degli orari di lavoro e di riposo, eppure si sa che i turni erano nel 1965 due, inframmezzati da pause. Si sa anche che molti italiani facevano volontariamente lo straordinario «per guadagnare di più e mandare i soldi al paese per costruirsi una casa». Circa l’affermazione sul «diverso trattamento economico riservato ai nostri connazionali», non andrebbe dimenticato che in Svizzera, soprattutto in quell’epoca, il salario era commisurato non solo al lavoro svolto ma anche alla qualifica professionale, al livello di responsabilità, all’anzianità, ecc. A parità di condizioni, specialmente dopo l’Accordo italo-svizzero del 1964, i casi di discriminazione salariale erano abbastanza rari.

Mattmark all’origine di una grande svolta
Ciò che mi ha colpito maggiormente nella lettura soprattutto di alcuni articoli in lingua italiana (quelli in lingua tedesca e francese li ho trovati molto più obiettivi e precisi) è la scarsa attenzione ai risvolti positivi della tragedia di Mattmark. Penso in particolare all’insinuazione del dubbio nella coscienza di molti svizzeri su quanto di negativo la destra nazionalista andava dicendo da qualche anno soprattutto nei confronti degli italiani. La straordinaria copertura mediatica della tragedia aveva portato nelle case degli svizzeri non solo la notizia terrificante delle 88 vittime, ma anche l’informazione che quei lavoratori, in maggioranza italiani, non si trovavano in Svizzera per sfruttarne l’economia e il sistema sociale, ma per costruire condizioni di benessere per il Vallese e per la Svizzera intera. Molti ne hanno sicuramente tenuto conto al momento della votazione sulla prima iniziativa antistranieri di Schwarzenbach nel 1970, respingendola.

La diga di Mattmark oggi (foto gl)
Non c’è dubbio che dopo la tragedia di Mattmark anche l’attenzione delle autorità nei confronti degli immigrati è mutata. A livello federale il governo cominciò a dotarsi di un’importante commissione consultiva sul problema degli stranieri. Vennero migliorate le condizioni per i ricongiungimenti familiari soprattutto dei lavoratori italiani (anche per evitare il fenomeno dei bambini clandestini). Anche i sindacati guardarono con più attenzione alle problematiche dei lavoratori stranieri e già nel 1966 avviarono una stretta collaborazione nel settore della formazione professionale con la neonata associazione CISAP per la gestione del Centro di formazione professionale di Berna.
Manca lo spazio per dilungarsi sulle altre conseguenze positive dell’immane tragedia di Mattmark, ma credo che gli elementi forniti siano sufficienti per far capire che non solo a livello federale stava per attuarsi una svolta nella politica immigratoria incentrata sempre più sull’integrazione degli stranieri, ma anche all’interno della collettività italiana immigrata si stava decidendo una nuova strategia nei confronti sia delle autorità italiane che delle autorità e del popolo svizzero: stava maturando l’idea che chi era intenzionato a restare in questo Paese doveva scegliere la strada dell’integrazione e non dell’estraneità.

Giovanni Longu
Berna, 9.9.2915